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Dodici anni dopo On the Road dal romanzo di Kerouac, il regista brasiliano Walter Salles torna in sala con Io sono ancora qui per resuscitare una delle pagine più buie della storia del suo Paese. «Non avrei mai creduto che una storia così legata alle ferite del passato in Brasile potesse tornare di attualità. Perché parlare del regime oggi? Perché non lo abbiamo fatto all’epoca. Oggi potere e religione si intrecciano sempre di più»

Dodici anni dopo On the Road, l’adattamento cinematografico del romanzo di Jack Kerouac, Walter Salles torna al cinema e in patria con Io sono ancora qui per resuscitare una delle pagine più buie della storia brasiliana, quella del ventennio di dittatura militare (1964-1985) che portò alla tortura e alla scomparsa di migliaia di persone accusate di terrorismo.

Uno di loro era l’ex deputato laburista Rubens Paiva. Candidato per il Brasile come miglior film internazionale agli Oscar, il film, vincitore del premio per la sceneggiatura a Venezia 81 e di un Golden Globe per la straordinaria interpretazione di Fernanda Torres (miglior attrice in un film drammatico) affronta la memoria ancora rimossa del Paese attraverso la storia commovente di Eunice Paiva, una madre coraggio che lotta per conoscere la verità sulla sorte del marito desaparecido. Una storia di resistenza e di resilienza che ha incassato 11 milioni di dollari in patria e che potrete scoprire in sala dal 30 gennaio.

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Perché ha aspettato così tanto tempo per realizzare un film di finzione, nessun progetto la convinceva veramente?

Dopo ogni film di finzione, mi piace moltissimo tornare all’energia del documentario per ricaricarmi con realtà che sono ancora in divenire. Quindi tra un film e l’altro ho girato dei documentari in Brasile e un film sul regista cinese Jia Zhangke. In questi anni ho anche lavorato su diverse sceneggiature, tra cui quella di questo film con cui ho un rapporto davvero personale per via del tema. È stato complesso adattare un romanzo così ricco, che non affronta solo la dittatura militare brasiliana ma anche la reinvenzione di una madre che ha vissuto una tragedia personale. C’è voluto molto più tempo di quanto avrei potuto immaginare per trovare un equilibrio nella narrazione, ma lo sviluppo del film è stato anche soffocato dai quattro anni di governo Bolsonaro, un periodo in cui, come negli anni della dittatura militare, gran parte del cinema nazionale ha cessato di esistere. Una preparazione così lunga mi ha permesso di impregnarmi di storia e, incontrando i vari protagonisti viventi di questa vicenda, di comprendere molti aspetti di quel periodo. Ho raccolto più informazioni possibili per poi dimenticarle e farle mie.

Una solida preparazione libera la creatività?

Lo sviluppo per me è generalmente un processo molto lungo, pensi che generalmente non giro mai prima della decima versione della sceneggiatura. Devo sentirmi sicuro per poi poter improvvisare. È un po’ come nella musica, nel jazz, per esempio, si parte da un tema di base che, se è stimolante, può farti biforcare verso l’improvvisazione, ed è quello che facevano sempre giganti come John Coltrane o Miles Davis. Anche nella bossa nova o nella musica tropicale, in Brasile tutto è allo stesso tempo molto scritto e molto improvvisato. Quando riesci a fare la stessa cosa al cinema, è molto liberatorio, magico.

Perché è così importante oggi parlare di dittatura?

Non avrei mai creduto che una storia così legata alle ferite del passato in Brasile potesse tornare di attualità. Quando abbiamo iniziato il progetto nel 2015, nessuno immaginava che tre anni dopo un presidente di estrema destra avrebbe vinto le lezioni. Improvvisamente, una storia che raccontava un periodo poco esplorato dal cinema brasiliano, si avvicinava in modo inquietante a ciò che stavamo vivendo nel presente. La generazione di cineasti a cui appartengo è arrivata al cinema dopo 21 anni di dittatura militare, e sarebbe stato logico mettere finalmente in luce storie che sono state taciute durante quel periodo. Purtroppo il Brasile era in un tale caos durante il primo governo post dittatura militare che noi registi abbiamo sentito l’urgenza di raccontare i cambiamenti del Paese invece di portare a galla il passato. Per me la finzione era quasi un’estensione del documentario: la mia opera prima, Terra Straniera, raccontava l’esilio dei giovani brasiliani all’inizio degli anni ’90. Il mio secondo film, Central do Brasil, affrontava il desiderio di riappropriarsi dell’identità brasiliana attraverso un viaggio nel cuore del Paese. Perché parlare della dittatura oggi? Perché non lo abbiamo fatto all’epoca e perché, anche per colpa nostra, c’è una visione ancora troppo acritica di quel periodo in Brasile e nel mondo. Il miglior modo di informare e di risvegliare le coscienze su quella pagina buia della nostra storia era farlo attraverso una vicenda umana come quella raccontata nel memoir di Marcelo Rubens Paiva, un dramma esistenziale che mi ha davvero segnato anche per via della vicinanza che avevo con questa famiglia.

Come spiega l’ascesa della destra populista in molti Paesi? È un fallimento culturale?

È una risposta che merita tre giorni di dibattito e anni di psicoanalisi! Da un lato le radici della destra populista nascono da trasformazioni radicali della società che forse non abbiamo sufficientemente documentato. Nel caso del Brasile, e forse anche degli Stati Uniti, stiamo vivendo una realtà piuttosto medievale in cui potere e religione si intrecciano sempre di più. Oggi in Brasile la chiesa evangelica ha un’influenza enorme sulle decisioni politiche. Stesso copione negli Stati Uniti con la Bible Belt ultra conservatrice. L’altro motivo è che gli ambienti progressisti non hanno saputo reinventarsi per soddisfare i desideri delle nuove generazioni, basta vedere quello che è successo in Francia durante le elezioni legislative. Ero lì per la post-produzione del film, e non avrei mai creduto che un partito di estrema destra come il Rassemblement National avrebbe raccolto così tanti consensi. Fortunatamente il Paese non è affondato grazie al suo retaggio culturale, alla forza di una società laica che ama il cinema e la letteratura e che mette in primo piano l’educazione come strumento di conoscenza del mondo. La chiave è nella ricerca, nello sviluppo di strumenti che aiutano le persone a capire la complessità del mondo. Bisogna rimettersi in gioco come ha saputo fare Raphael Glucksmann che è riuscito a dare nuovo ossigeno a un partito socialista moribondo.

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Tornando al cinema, da figlio di diplomatici lei ha avuto un’infanzia nomade e poliglotta, i film l’hanno aiutata a costruirsi un’identità?

Sì, venendo da una famiglia borghese, il cinema mi ha permesso di capire che il mondo era molto più vasto e polifonico di quanto potessi immaginare. Rossellini, Antonioni, la nouvelle vague francese o più recentemente Jia Zhangke o altri giovani registi che sto ancora scoprendo mi permettono di scoprire mondi sconosciuti e ancora sorprendenti. Anche se ultimamente il cinema non va più molto bene in sala, continua ad avere una forza espressiva straordinaria. Da un lato c’è una vera ricerca linguistica e una creatività, dall’altro c’è una grande difficoltà a convivere con lo streaming e con le nuove forme di diffusione delle immagini. Ma questa destabilizzazione è interessante, accende il dibattito cinematografico e ci permette di affrontare il problema e di rimetterci in gioco.

A parte l’exception française che da sempre è un Paese “cinéphile”, come spiega il disincanto del pubblico verso la sala?

Il cinema è nato come esperienza collettiva, non a caso è stato creato da due fratelli, i Lumière. Forse i cinema sono in pericolo perché non riescono più a competere con l’overdose di immagini che ci martellano, le persone si mettono continuamente in scena e forse questa moltiplicazione visiva sui social indebolisce la vitalità della sala, soprattutto per le nuove generazioni. Anche se ultimamente ho vissuto alcune esperienze cinematografiche davvero straordinarie, una di queste è stata con il gruppo del Cinema Troisi di Roma. Ho scoperto una squadra di giovani cinefili che fa cose che sembrano utopistiche ma non lo sono, il loro è un progetto che funziona veramente e non parlo solo della sala. Al primo piano c’è una biblioteca che è uno spazio di aggregazione incredibile per i giovani appassionati di cinema. Ho presentato con loro a giugno scorso I diari della motocicletta, al cinema in piazza, la proiezione all’aperto era gremita di giovani, c’era un vero scambio, è stata un’esperienza sublime che mi ha ridato fiducia nel potere del cinema.

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