Quando il posto fisso e statale diventa una gabbia di povertà

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Ascolta il podcast della puntata:

«Per me la penna non cade quando finisce l’orario. Il problema, però, è che nel pubblico questa cosa non è valorizzata per niente, perché che io rimanga lì, che faccia progetti, che faccia arrivare centinaia di euro al mio ente, la mia situazione economica resta immutata. E questo mi ha generato molta frustrazione».

Chiara Fassino abita in provincia di Cuneo ed è la direttrice degli asili nella sua città. Ci contatta attraverso una email in cui si descrive così:

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«Sono Chiara, ma chiamatemi anche Checco Zalone, se vi va. Io sono il posto fisso statale, quello che per molti è un sogno proibito, per me è diventato una gabbia. Io sono il posto fisso perché mio padre nel ‘74 ha esperito il grande rifiuto di una posizione alle poste. Ho bevuto col latte le recriminazioni di mia madre e crescendo ho saputo fare una sola cosa: vincere concorsi pubblici».

Il grande rifiuto

La sua è la storia di come la sicurezza economica, nell’Italia di oggi, possa diventare una gabbia di povertà. E di come sia faticoso provare a uscirne.

Quel lavoro alle Poste rifiutato dal padre nel 1974 influenza profondamente la visione che Chiara ha dei soldi. Non per le conseguenze pratiche di quel rifiuto, bensì per la narrazione che soprattutto sua madre ci costruisce attorno.

«Sono cresciuta in una famiglia dove mia madre recriminava continuamente questa cosa: “Se tuo padre avesse accettato il posto fisso, a quest’ora…”. Mio padre poi ha fatto l’elettricista con fortune alterne, e così sono cresciuta con la paura che i soldi non arrivassero senza un posto fisso. Potete anche ridere, ma ho capito solo negli ultimi anni che esistono persone che lavorano e guadagnano uno stipendio senza avere un posto fisso».

I soldi, in casa, non mancano veramente. Anche perché la mamma di Chiara è una dipendente della storica catena di supermercati Standa. Ma la gestione non è al 100 per cento razionale e questo determina uno stato di allarme continuo.

«Era mio padre a fare acquisti avventati. Ricordo che una volta dovevamo comprare qualcosa di necessario, anche se ora non ricordo più cosa, ma lui tornò a casa con un computer. Insomma, ci serviva una cosa e lui arrivava con tutt’altro. Era sempre così…»

Alpinista e spirito libero, il papà di Chiara è felice del suo lavoro e non avrebbe mai accettato di essere confinato in un posto fisso. Spesso, però, si trova in difficoltà economiche. E quando Chiara cresce, è a lei che chiede prestiti.

«Lui mi chiedeva soldi, e io scrivevo lettere in cui dicevo: “Ok, te li presto, ma devi spiegarmi esattamente, per filo e per segno, a cosa ti servono”. Dovevo avere il controllo della situazione, capire dove finivano quei soldi. Ho vissuto con quest’ansia di monitorare la sua situazione finanziaria e sapere come andavano le cose, fino a quando non è andato in pensione».

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In quel momento Chiara scopre che l’instabilità vissuta in giovinezza era anche il prezzo dell’onestà di suo padre, che aveva sempre pagato tasse e contributi fino all’ultimo centesimo, vivendo le montagne russe di un qualsiasi artigiano imprenditore.

«L’unica volta in cui abbiamo parlato concretamente di soldi, ricordo che mio padre mi disse: “Hai visto? È stato faticoso arrivare fin qui, ma ora, a differenza di molti miei colleghi che fanno lo stesso lavoro, io ho una pensione molto valida”. Quelle parole, in un certo senso, mi hanno liberato da tutta la fatica accumulata negli anni».

Chiara si avvicina al mondo del lavoro già in giovane età. Realizza braccialetti per venderli, poi fa cameriera, l’animatrice nei villaggi, la babysitter.

«Mi sono sempre andata molto da fare perché il denaro arrivasse nella mia vita»

Il peso dell’insicurezza

Quando arriva il momento di iscriversi all’Università, Chiara sceglie di seguire la sua passione.

«Sono sempre stata molto attratta dalla natura, e pensavo che avrei fatto un lavoro in cui la natura mi avrebbe dato da mangiare. In effetti, ho studiato scienze forestali e ambientali alla facoltà di agraria, ma alla fine poi la natura non mi ha dato da mangiare. Me l’ha dato un posto fisso.»

Chiara vince il primo concorso quando ancora sta frequentando l’università, e trova lavoro nell’amministrazione dei Comuni della sua Provincia, dove resta per dieci anni.

«Nei piccoli comuni si fa un po ‘di tutto: dall’ufficio agricoltura, l’ufficio segreteria, l’ufficio turistico, l’anagrafe se capitava… mi mancava giusto la polizia mortuaria e il commercio».

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Nel frattempo però, sempre mossa dalla sua passione per la natura, Chiara apre un’associazione e una cooperativa nel settore turistico.

«Però non c’è mai stato quel salto, quella evoluzione per dire: “Ok, diventa il mio lavoro”. Mi sarebbe piaciuto, ma non ho mai avuto il coraggio. E soprattutto, se negli anni in cui c’erano le possibilità avessimo continuato, ora saremmo diventate leader del mercato. Sarebbe stata davvero un’attività che precorreva i tempi».

Dopo dieci anni nel settore amministrativo, Chiara sente il bisogno di dedicarsi a qualcosa di completamente diverso.

«Dentro di me c’è sempre quest’anima trasformatrice, il mio super potere è la trasformazione. E quindi mi sono detta: oltre all’ambiente, alla natura, che cosa ti piace? Mi piacciono i bambini».

E così, benché dal lavoro le mettano i bastoni tra le ruote, Chiara frequenta un corso professionale per lavorare nel settore educativo.

«Ho chiesto al sindaco e al segretario un’aspettativa non retribuita, ma non me l’hanno concessa. Ho chiesto un part-time, ma anche quello non è stato accettato. Ho chiesto le 150 ore, ma non sono state concesse. Alla fine, ho proposto un orario notturno: al mattino frequentavo un corso professionale, il pomeriggio facevo tirocinio e alle 5 entravo in ufficio».

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La volontà di affermarsi

Una volta terminato il corso, Chiara partecipa un concorso e lo vince. Nel giro di qualche mese si ritrova a fare l’educatrice in un asilo nido.

«Nel frattempo ho preso un’altra laurea in Scienze dell’Educazione, ho fatto un Master in Coordinamento e uno in Progettazione di Bandi Europei. Poi nel 2020, con la pandemia, il mio capo mi ha chiesto se volessi prendere il suo posto».

E così, nel 2020, Chiara diventa direttrice degli asili della sua città.

«Perciò, da quattro anni ricopro questo ruolo che da un lato è molto stimolante, ma dall’altro è estremamente faticoso, perché io mi impegno moltissimo. Non dormo la notte, continuo a pensare a come risolvere le cose. E adesso sono arrivata al punto di rottura, perché per me il lavoro non finisce quando scade l’orario: io credo profondamente che ogni bambino, indipendentemente dalla sua età o dalla sua situazione economica, debba avere le stesse opportunità. Sappiamo che se interveniamo nei primi mille giorni di vita, possiamo prevenire tutta una serie di problemi futuri. Il problema è che nel settore pubblico questo impegno non viene riconosciuto affatto».

Dalla sua posizione Chiara osserva la fragilità di un settore cruciale, dove però il lavoro viene svalutato anche dal punto di vista economico.

«I miei collaboratori, le educatrici degli asili, sono tutte dipendenti di cooperative. Ormai lo Stato ha delegato alle cooperative un ruolo fondamentale, ma queste povere colleghe vengono pagate 7-8 euro l’ora. A volte mi dicono che vanno a fare la commessa da Calzedonia, perché a casa devono pur portare la pagnotta. Quando sento queste cose, mi sento privilegiata, pensando che comunque, bene o male, io ho una certa stabilità. Ma loro sono legate agli appalti e questa situazione mi ferisce profondamente».

Ma per quanto più stabile delle educatrici, Chiara, doppiamente laureata, percepisce per il suo lavoro uno stipendio di 1600 euro al mese.

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«Io vivo da sola in una casa in affitto e mi sono resa conto che la pianificazione mensile è diventata davvero difficile, soprattutto nei mesi invernali dove sappiamo che le bollette arrivano a cifre allucinanti»

L’unico gruzzoletto che Chiara ha da parte, è frutto dei lavori svolti prima di ottenere il posto fisso..

«Negli anni dell’università, fino a quando ho vinto il concorso, ho messo da parte dei soldi, un gruzzoletto che ho investito e che non vorrei toccare. Ma ora, se le cose continuano così, quasi sono costretta a farlo».

«In questo momento, non mi sento rispettata dallo Stato, che io rispetto moltissimo. Sto male quando vedo gli sprechi, quando le educatrici usano i materiali con superficialità. Quindi, lo stesso rispetto che io ho nei confronti dello Stato, non lo ricevo indietro. E questa situazione mi crea tanta amarezza, a volte anche dolore fisico».

Il momento della svolta

Lo scorso settembre, dopo aver organizzato un importante convegno, è stato il corpo di Chiara a inviarle un segnale: qualcosa in quel modo di lavorare non funzionava più per lei.

«Il giorno dopo sono andata al mare, perché il mare mi aiuta molto, ma sono stata due giorni a letto. La signora dell’hotel veniva a bussare e mi chiedeva se volevo qualcosa da mangiare. Nel frattempo, mi è venuto un herpes gigantesco. Lì ho pensato: basta, questo è il segnale che devo fermarmi, perché non mi era mai successa una cosa così, di non avere proprio le energie per fare le funzioni vitali. Arrivare a non dormire più, prendere farmaci per lo stress, e non avere nemmeno più voglia di stare in natura, che per me è fondamentale…»

Chiara decide così di ascoltare il suo corpo. Si prende due mesi di aspettativa non retribuita e raggiunge il suo compagno in Puglia. Questa intervista si svolge proprio in quell’intermezzo che si è presa per capire come adoperare le sue competenze in un ambito che non sia pubblico.

«Quando sono partita, ho visto i miei genitori molto sereni, ma la domanda di mia madre è stata: “E che lavoro vai a fare adesso?” E io ho risposto: “Non faccio niente, mamma, sto solo prendendo un momento per stare tranquilla e pensare al mio nuovo lavoro”. Lei mi ha detto: “Ma quel posto è fisso, non puoi lasciarlo!” E io le ho risposto: “No, mamma, credo che sia arrivato il momento in cui posso lasciarlo”».

La scelta è molto combattuta nell’animo di Chiara.

Conto e carta

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«Io rimarrei nel pubblico. Prima di partire, ho ottenuto un finanziamento per un progetto di educazione intergenerazionale tra bambini del nido e residenti delle RSA. L’ho fatto davvero con tanto impegno, di notte, sperando che lo finanziassero. Mi appassiono a queste cose, e vedete, mi commuovo a parlarne, ma il prezzo che pago è troppo alto. Il mio impegno e la mia passione non sono adeguatamente riconosciuti. A questo punto, entra in gioco il mio compagno, che ha sempre lavorato come libero professionista che mi dice: “Ma perché non metti tutte queste energie e risorse al servizio di te stessa, provando a sperimentarti in prima persona?”»

Un primo seme di quello che potrebbe essere il suo futuro Chiara lo ha piantato proprio in questi giorni.

«Adesso sto collaborando con una mia amica che ha un tour operator, quindi ho rispolverato anche quella parte di guida. Sto provando itinerari di trekking e bicicletta qui nel Salento. Un’idea potrebbe essere quella di prendere un part-time, perché non ce la faccio a fare un salto nel buio. Mi sto creando un po’ il puzzle, che spero di comporre il prima possibile».





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