di FRANCESCA GARDENATO
Ha iniziato con l’atletica e continuato con il ciclismo. L’oro olimpico era da sempre il suo sogno e finalmente a Parigi 2024 Fabrizio Cornegliani ce l’ha fatta: medaglia d’oro nella cronometro individuale H1 di ciclismo, nella zona mista del circuito di Clichy-sous-Bois alle Paralimpiadi. La disabilità, però, non ha sempre fatto parte della sua vita. Vent’anni fa, per un incidente durante un allenamento di arti marziali, è finito in mezzo a una lite e ha avuto una lesione che gli ha compromesso l’uso di mani e braccia, oltre alle gambe. Di praticare sport in carrozzina all’inizio non ne voleva sapere, poi ha provato l’handbike e se n’è innamorato. Oggi è campione del mondo. Oltre a un oro ai Giochi paralimpici di Parigi 2024 e all’argento a quelli di Tokyo 2020, Cornegliani vanta sei titoli mondiali (cinque a cronometro e uno nella prova in linea), quattro argenti e due bronzi. E ha tutta l’intenzione di arricchire ulteriormente il suo medagliere. Lo abbiamo incontrato di recente in un incontro a Sirmione, dove ci ha raccontato la sua esperienza a Parigi e un po’ della sua vita.
– Il suo messaggio “Bisogna provarci nella vita” è un invito e una testimonianza per tutti. Ci racconta come e dove nasce questo suo motto?
«È nato dalla realtà dei fatti, era il pensiero che avevo sempre in mente nell’infinità di ore che ho passato a guardare i soffitti bianchi dell’ospedale. Non mi sono mai permesso il lusso di non poterci provare. La mia ripartenza partiva da un livello talmente basso che non potevo non farcela. C’era mia moglie Alessandra, non potevo non darle un figlio: era il nostro sogno costruire una famiglia. Il 19 marzo 2004, nella festa del papà, mi sono fatto male. Per questo ci tenevo a diventare padre. Era la mia rivincita. Oggi c’è Lorenzo, che ha 14 anni».
– Come è andata con la nascita di suo figlio?
«Ho ricevuto una spinta a 360 gradi con il suo arrivo; Lorenzo mi ha cancellato l’idea della carrozzina. All’inizio, non riuscivo neanche ad aprire e a chiudere il body per cambiarlo, metterlo nel seggiolone o a letto. Mi sono fatto tutta la fisioterapia per imparare a gestire lui. Mia moglie lavorava e io me lo sono goduto ogni istante: questo mi rende molto felice, non ho perso un secondo della sua crescita. Oggi è lui che prende in braccio me!».
– Quando è scoccata la scintilla per l’handbike?
«Durante la riabilitazione, ho conosciuto un ragazzo che aveva già provato l’handbike e mi ha invitato a provarla a mia volta, ma lui era paraplegico, io tetraplegico. Vent’anni fa ero legato al mezzo con lo scotch, non c’erano gli ausili di oggi. Molti li abbiamo ideati e sviluppati nel tempo, poi ce li hanno copiati in tutto il mondo. All’inizio l’obiettivo era recuperare la mobilità della mano, un ausilio in più per lavorare fuori dall’ospedale, all’aria aperta, divertendomi in compagnia. Un modo per sentirmi libero».
– Quali sono le principali difficoltà che ha affrontato nel suo percorso sportivo e come le ha superate?
«Sono sempre in giro per allenamenti e gare, e il rischio sulla strada c’è sempre. All’inizio gli ausili non erano idonei e, come detto, li abbiamo dovuti perfezionare. Preciso che io rappresento l’anello più fragile degli sportivi, l’H1, che ha bisogno di più attenzioni. La barriera era proprio il fatto di essere la categoria più delicata da allenare, con una lesione C5/C6.
Nel decennio precedente ho dovuto dimostrare al commissario tecnico che io ero un atleta sul quale valeva la pena di credere e di investire, nonostante fossi il più problematico. Purtroppo, si tende ad allargare la forbice di classificazione, ma avendo meno categorie, si penalizzano quelle più fragili. Col tempo, ho avuto un’assistenza a livello più alto e con il cambio di gestione, la collaborazione e un allenamento di qualità abbiamo prodotto l’unico oro del paraciclismo».
– A Parigi com’è stato sentire l’inno di Mameli dal gradino più alto del podio?
«Ha rappresentato il culmine di 55 anni di atleta. Da che ho memoria, corro contro il cronometro. Ho praticato tantissimi sport. Da normodotato, nasco come mezzofondista di 400/800 m. La fatica ce l’ho sempre avuta dentro. Questa è stata la grande rivincita, la liberazione, il coronamento di un lungo percorso. Non arrivare all’oro a Tokyo era stato una delusione. Abbiamo sistemato quello che non era andato e a Parigi abbiamo centrato l’obiettivo».
– Come ci si prepara a una competizione così importante come i Giochi paralimpici?
«È una lunghissima preparazione, che dura una vita. Da sempre ci sto lavorando. Se devo fare una valutazione, io nel gruppo sono quello che perde meno la testa, nonostante sia il più fragile. Ma con la costanza, il lavoro a casa, l’attenzione maniacale al particolare, non ho mai avuto un problema al mezzo. Fisicamente ho la stessa maniacalità: prima di gestire l’atleta deve stare bene la persona in carrozzina. E così la testa, per non perdere mai il controllo e restare lucido. Bisogna godersi il viaggio, essere in grado di vincere la paura. Abbiamo tanti fisioterapisti, ma non abbiamo uno psicologo né un nutrizionista nel team. Ci sono aspetti che si potrebbero migliorare».
– A chi ha dedicato la sua medaglia d’oro?
«Tokyo l’avevo dedicata a mio padre. Parigi a mia moglie Alessandra e a mio figlio Lorenzo, visto c’era anche lui al seguito della nazionale ed è stato importante».
– Com’è oggi il suo rapporto con l’allenatore e con il team della nazionale?
«Luca Zenti è l’allenatore, che non fa parte della nazionale, ed è un professionista di altissimo livello. Per me, lui è il numero uno, per il lavoro che fa e per come lo fa. Un primo rapporto è con il mio club, Team Equa, con cui c’è una collaborazione a 360 gradi. Nella nazionale corriamo tutti con la stessa maglia, ma il primo avversario è il proprio compagno di squadra. C’è un equilibrio delicato e la convivenza forzata, talvolta, crea dolori».
– Il Fabrizio di oggi ha ancora un sogno nel cassetto?
«Il mio progetto è gestire i prossimi quattro anni per renderli produttivi. Punto a un avvicinamento a Los Angeles. Vivo anno per anno, come ho fatto nel triennio da Tokyo a Parigi. Vado in quella direzione, poi vedremo».
– L’evoluzione della tecnologia nelle handbike ha avuto sempre più impatto sulle performance. Quali miglioramenti ha visto negli ultimi anni e in che modo le innovazioni tecnologiche hanno cambiato il suo modo di allenarsi e di gareggiare?
«Ausili, materiali, design… tanto è cambiato. Se prima facevano un telaio ogni dieci anni, ora c’è un’evoluzione del mezzo ogni due anni. Io corro con una bici americana, prodotta in Polonia, ma siamo in attesa del nuovo telaio di Maddiline (costruttore veronese, ndr). Siamo passati negli ultimi dieci anni dai 27 ai 35 km orari di media, nella mia categoria H1. Aumentando il numero di atleti è cresciuto il numero di produttori che sviluppano le bici. Una handbike costa sui 20mila euro, tre volte più di una bici per un normodotato. Questo purtroppo frena la crescita del movimento e il risultato, visto il momento storico, è una riduzione dei tesseramenti in Italia. Eppure, andrebbe spinto per le opportunità che offre dal punto di vista riabilitativo».
– Come riesce a mantenere un equilibrio tra la vita da atleta, la famiglia e la socialità?
«È la sfida più grande degli atleti di una certa età con famiglia. Il padre di famiglia ha più “scacchiere da gestire”. Si parte sempre da molto prima, con la programmazione. La preparazione è fondamentale. La variabile c’è sempre, più si è organizzati e preparati e più l’imprevisto ha un impatto minore».
– Quanto si allena ora?
«In questo periodo mi alleno sui rulli un paio di ore al giorno. Sabato e domenica l’allenamento raddoppia».
– Quale messaggio desidera lanciare ai più giovani, soprattutto a chi si avvicina allo sport con delle fragilità?
«Bisogna avere il coraggio di provarci, non farsi intimorire dalla rampa di scalini infiniti, ma immaginarne uno alla volta. Il segreto è porsi obiettivi raggiungibili per la ripresa. Le delusioni ci sono, ognuno di noi ha un grande potenziale, ma se non lo mette in gioco non può scoprirlo. La carrozzina è una seconda opportunità, non una punizione».
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