Nella crisi del mercato dell’auto che si è abbattuta come un macigno in particolare sull’economia europea c’è una forte componente di deficit etico da parte di chi amministra i grandi gruppi del settore. Se il 2023, infatti, era stato un anno di superprofitti e di dividendi da capogiro, il 2024 — solo in Italia — ha fatto registrare due punti percentuali in più nel fatturato (47miliardi di euro) a fronte di un calo dell’1% nelle immatricolazioni. In parole povere: meno auto vendute, ma incassi più alti di prima. Dunque, le auto costano sempre di più (in media 30mila euro), mentre sono sempre meno coloro che se le possono permettere; ne consegue che l’offerta incontra sempre meno la domanda. Unica eccezione nel panorama europeo è la Spagna, dove le vendite sono cresciute del 7%, grazie soprattutto agli incentivi statali all’acquisto.
Paolo Guerrieri, docente di economia politica all’Università Sapienza di Roma, non ha esitazioni quando afferma che la vera causa della crisi dell’industria europea dell’auto sono la miopia e gli errori delle compagnie stesse, che hanno preferito utilizzare i profitti per remunerare gli azionisti invece di investire in tecnologia e sviluppo, perdendo così quel vantaggio che fino a una decina di anni fa possedevano ad esempio nel campo delle tecnologie dell’elettrico. «Oggi siamo di fronte a una svolta tale da determinare un vero e proprio cambio del paradigma produttivo: la transizione dal motore a combustione interna a quello elettrico non riguarda solo il mero problema delle batterie, ci troviamo invece di fronte alla sfida di una vera e propria rivoluzione tecnologica. L’automobile sta diventando un computer su quattro ruote. I cinesi hanno capito la situazione, gli europei anche se l’avevano capita non l’hanno saputa e voluta affrontare».
La crisi dell’automotive è molto meno legata alle sfide della transizione green di quanto non si voglia credere. Anche qui è mancata una visione industriale, che in altri mercati invece ha trovato terreno fertile. Pensiamo alla Cina e agli Stati Uniti, non certo due colombe bianche in termini di politiche ambientali, ma entrambi capaci di integrare lo sviluppo dei diversi settori tecnologici.
Nel 2024 la casa automobilistica di Shenzen, Byd, è divenuta la più temibile concorrente di Tesla con un divario nelle vendite di sole 30mila unità; e stiamo parlando di 1.760.000 auto contro 1.790.000. Ma anche le altre case asiatiche hanno trovato il modo di reagire ai cambiamenti richiesti dal mercato andando a coprire i vuoti lasciati dalle compagnie europee nel settore dei veicoli di massa.
Oggi il mercato dell’auto europeo sta affrontando una sorta di tempesta perfetta: costi troppo alti, calo della domanda, calo della produzione, concorrenza dei mercati asiatici, ritardo nello sviluppo tecnologico, sanzioni pesanti per i mancati obiettivi della transizione energetica (parliamo di 17miliardi di euro), la spada di Damocle di una guerra dei dazi.
«Una transizione così importate non si può risolvere solo attraverso il mercato, — spiega Paolo Guerrieri — ci vuole anche un forte impulso politico che sappia governare lo sviluppo economico del settore. Ad esempio, le autorità europee hanno attuato un’azione efficace nel porre scadenze precise per la transizione green, ma si sono preoccupate poco niente dell’attuazione di risorse e politiche perché questi traguardi venissero raggiunti. E adesso, chiedere di eliminare o dilazionare sine die le sanzioni per dare respiro al settore non è certo la soluzione, così come non lo è scaricare tutte le colpe sulla scadenza del 2035 per l’eliminazione delle auto alimentate a combustibili fossili».
Politica e industria dell’auto non hanno dunque altra strada che quella di tornare a parlarsi e sviluppare di concerto strategie innovative, anche perché in gioco non c’è soltanto il mercato e la sopravvivenza finanziaria dei grandi gruppi d’interesse. Le ricadute della crisi dell’automotive in Europa rischiano di avere ripercussioni sociali pesantissime, capaci di generare altrettanto pesanti tensioni sociali.
«È una realtà che già abbiamo sotto gli occhi con proteste diffuse in Germania, Francia, Belgio e Italia. Qui parliamo non solo della perdita di posti di lavoro del settore industriale dell’auto, ma anche di quelli legati all’indotto che valgono addirittura tre volte di più».
Emblematico in questo senso il crollo della produzione di auto in Italia, tornato ai livelli del 1956. Le sei fabbriche di Stellantis nel 2024 hanno assemblato 475mila veicoli (compresi quelli commerciali). Il picco produttivo di due milioni di veicoli raggiunto nel 1989 oggi non può neppure essere considerato un miraggio.
«In Italia noi abbiamo un settore come la componentistica auto che è fatto da migliaia di imprese che sono competitive e forti nel modello diciamo tradizionale e che valgono qualcosa come 280.000 posti di lavoro» prosegue Guerrieri che sottolinea come la gravità della situazione sia evidenziata e comprovata dal fatto che la stessa presidente della Commissione europea ha avocato a sé il tavolo di confronto con i grandi gruppi europei dell’automotive.
di Stefano Leszczynski
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