La carta iraniana di Donald Trump

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Nei confronti dell’Iran serve una «diplomazia intelligente», ha dichiarato più di un volta James Vance, il vice di Trump, ex marine reduce dall’Iraq nel 2005. La “carta” iraniana e sciita rispunta da queste trattative per la liberazione di Cecilia Sala – per altro, con la sorte incerta di Abedini, un caso ancora aperto e «da chiarire con gli americani» per Meloni stessa – come in un’azzardata carambola da biliardo tra Roma-Washington e Teheran. Ma l’Iran non è con le spalle al muro? In realtà gli equilibri di potenza, e in Medio Oriente, raccontano una storia diversa da quella che appare.

Certo se confrontiamo la situazione dell’asse iraniano alla vigilia del 7 ottobre con quella di oggi il quadro è disastroso. Hamas a Gaza è stata sbriciolata – con 46 mila morti civili – anche se non del tutto sconfitta, Hezbollah è stato decimato e ha perso la leadership di Nasrallah, mentre il crollo del regime siriano di Assad è un colpo tremendo per l’”asse della resistenza” e il sistema di deterrenza iraniano. Una débâcle anche ideologica e politica: Hafez Assad, il padre di Bashar oggi in esilio a Mosca, fu l’unico leader del mondo arabo nel 1979 a schierarsi con la rivoluzione islamica sciita di Khomeini. Per tenere in piedi Bashar l’Iran ha profuso in questi anni miliardi di dollari, la vita di centinaia di ufficiali dei Pasdaran e alcune delle migliori risorse di Hezbollah. Restano gli Houthi yemeniti, che pure impegnano con i missili Israele e le navi occidentali nel Mar Rosso, e le importanti milizie sciite in Iraq: ma adesso hanno un ruolo marginale. Non solo.

L’Iran il 26 ottobre è stato duramente colpito da Israele che ha eliminato le difese anti-aeree e ampiamente danneggiato la capacità di produzione missilistica. Gli iraniani non hanno “visto” letteralmente arrivare gli F-35 dello Stato ebraico neppure come un puntino sui radar, visto che hanno colpito i bersagli da 120 chilometri di distanza. Lo strapotere aereo e di intelligence del complesso militare israelo-americano ha fatto apparire la guerra tra russi e ucraini, nonostante i droni, come un residuo novecentesco. Cosa che non è sfuggita ovviamente a russi e cinesi. Israele il 17 e 18 settembre ha fatto esplodere in Libano e Siria simultaneamente migliaia di cercapersone e walkie talkie utilizzati da Hezbollah (con dozzine di morti e migliaia di feriti).

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E prima, il 31 luglio, Israele aveva fatto fuori a Teheran uno dei capi di Hamas Ismail Hanyeh, proprio mentre si insediava il nuovo presidente Pezeshkian. Con la caduta di Assad, Israele, oltre a eliminare l’apparato militare e industriale siriano, ha inoltre occupato tutto il Golan fino al Libano, di fatto tagliando fuori le linee di rifornimento di Hezbollah già amputate dalla caduta di Assad e l’ascesa a Damasco del jihadista Al Julani.

L’Iran non è al tappeto, ha resistito, pur isolato e sotto sanzioni, nel corso della sua storia recente a sfide esistenziali come la guerra contro l’Iraq di Saddam (1980-88, un milione di morti), ha saputo sfruttare l’occupazione americana di Baghdad nel 2003 a suo netto vantaggio e può affermare di avere combattuto l’Isis quasi da solo con i curdi e anche di averci visto giusto sull’Afghanistan dei talebani, tornati al potere dopo la vergognosa ritirata occidentale del 2021. Senza contare che l’allora presidente riformista Khatami offrì subito la sua collaborazione a Washington dopo l’11 settembre 2001. Forse pochi lo ricordano ma a Baghdad in una caserma stavano gli americani e di fianco le milizie sciite con un nemico comune: i gruppi sunniti e Al Qaeda. Con l’Iran si può andare in guerra ma anche sedersi a un tavolo. Lo ha già dimostrato l’accordo sul nucleare del 2015 che Trump poi fece saltare. L’Iran quindi potrebbe anche volere negoziare con l’amministrazione Trump che a sua volta parla della necessità di un nuovo accordo.

L’alternativa è che Teheran acceleri i programmi nucleari ma questo comporta il rischio di un attacco congiunto di Israele e degli Stati uniti, eventualità che potrebbe mettere in pericolo la stessa esistenza della repubblica islamica. L’Iran quindi può ancora servire gli interessi americani? Trump in Medio Oriente ha come obiettivo di rilanciare quel Patto di Abramo da lui voluto trascinando i sauditi nell’alleanza con Israele che ha però come condizione una soluzione alla questione palestinese. Anche l’accordo con l’Iran, pur esercitando la “massima pressione”, può essere un obiettivo di Trump. Ma c’è Israele che non vuole soluzioni per i palestinesi e ritiene inutile un’intesa con gli iraniani. È qui che gli interessi Usa e israeliani divergono. Almeno fino un certo punto. Israele, nella sua ottica, ha una nuova sfida davanti: la vittoria di Al Julani significa che il suo sponsor, la Turchia di Erdogan, membro della Nato, di fatto è a contatto virtuale (ma non troppo) dei confini dello stato ebraico. E Tel Aviv non può fare la guerra a tutti, quindi una mezzaluna sciita e iraniana può aiutare a controbilanciare quella sunnita e estremista in ascesa in Siria.

Ieri, per esempio, con il voto dei partiti sciiti è stato eletto in Libano, dopo due anni, il presidente cristiano maronita Joseph Aoun. A differenza dell’Ucraina dove il conflitto è rimasto limitato a Kiev e Mosca, quello in Medio Oriente dal 7 ottobre è diventato sempre più grande: una guerra contro la Turchia o l’Iran persino per Israele sarebbe troppo. E anche per tutti noi.



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