A sinistra di J.R.R. Tolkien c’è un romanzo irregolare nato dalla creatività anni ’80

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Se è vero che ogni genere letterario può essere perpetrato, imitato o infine sovvertito, anche il fantasy classico, canonizzato da J.R.R. Tolkien con i capolavori ambientati nella Terra di Mezzo, non è sfuggito a questa regola. Ponendo la saga di Tolkien come centro ideale, potremmo collocare per così dire “a destra” un epigono come Terry Brooks con il suo infinito ciclo di Shannara, considerato da gran parte della critica un universo non immune dai cliché di genere, per usare un eufemismo. “A sinistra”, invece, ecco i sabotatori, gli autori che al contrario di Brooks hanno stravolto canoni e cliché, ribaltandoli, sconsacrandoli, portandoli in un territorio nuovo.

Ecco, è proprio in un territorio nuovo e sconsacrato che si colloca La figlia del drago di ferro, un romanzo pazzo, irregolare, uscito originariamente all’inizio degli anni Novanta e ripubblicato adesso da Mercurio, giovane casa editrice romana che ha come bussola la commistione tra generi, oltre a uno sguardo fuori degli schemi letterari più consolidati. Michael Swanwick, l’autore, è cresciuto in quel gorgoglio creativo anni Ottanta noto come cyberpunk, la corrente che ha intravisto nell’intreccio incestuoso tra capitalismo e ipertecnologia un pericolo potenzialmente destinato a sfociare nell’oppressione e nel controllo; una lettura della realtà a lungo preconizzata, e che proprio in questi anni più recenti sta prendendo la piega della minaccia che infine s’avvera.

Allucinazioni, premonizioni disattese e un’atmosfera plumbea dominano La figlia del drago di ferro, costruito seguendo uno schema a incastri fatto di cicli spezzati infilati dentro scatole concentriche. Un ritmo veloce – e una successione di eventi assai densi – sorretto da una scrittura che attinge dai riferimenti di genere senza rinunciare a pennellate più alte, evocative. In un universo distopico, al principio troviamo Jane – l’adolescente protagonista del romanzo – strappata al genere umano per essere confinata in un mondo dominato dall’industria e dall’oppressione. La stessa Jane giace confinata in una fabbrica, dove è di fatto costretta a lavorare in una forma di schiavitù oppressiva in compagnia di vari personaggi, una schiera vociante e stralunata che può ricordare i bimbi sperduti di Peter Pan sotto acido. Il piano di Jane, naturalmente, è di fuggire per riconquistare la propria libertà. E senza dubbio La figlia del drago di ferro sarebbe una storia di formazione e ricerca della propria identità, non fosse che Swanwick si diverte a inserire sulla strada della sua protagonista ostacoli e bizzarrie, che complicano la trama fino a renderla imprevedibile.

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La chiave più vistosa, il motore impazzito dell’intreccio romanzesco è rappresentata dal drago da combattimento Melanchthon, un’entità assieme materiale e psicologica destinata alla demolizione ma ancora dotata di forza viva. È questa creatura, manipolatoria e cinica, a sostenere Jane nella sua fuga. Il coinvolgimento del drago meccanico consente a Swanwick di ricorrere a un registro psichedelico, ricco di visioni immaginifiche («Gli eserciti si scontravano in un continente di notte perpetua. La mente del drago li comprendeva tutti, fredda come un oceano del Nord e altrettanto vasta. Jane si sentiva annegare in quei sogni di violenza») e di segnare una vistosa rottura rispetto ai personaggi del fantasy canonico.

L’elemento meccanico-postindustriale, tuttavia, non è l’unico fattore di rottura rispetto al fantasy canonico. Una volta fuori dalla fabbrica-prigione, per Jane si spalancano altre sfide da affrontare. La dipendenza dal drago, ad esempio, a cui è intimamente legata da un sentimento di devozione e repulsione. O il nuovo ambiente in cui è immersa, dove una Jane ormai adolescente incontra nuove amicizie, dietro le quali si cela tuttavia qualcosa di antico. E così neanche troppo gradualmente – il romanzo di Swanwick procede per scarti piuttosto netti – Jane deve fare i conti con la violenza e la corruzione anche al di là del muro, passando attraverso riti di passaggio a tinte esoteriche e ampie concessioni a una sessualità piuttosto spinta. Il risultato è un viaggio che continua a spiazzare e interrogare i lettori, costretti a interrogarsi sui significati più reconditi del romanzo come fosse appena terminata la visione di un film di David Lynch.



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