La caratteristica politica ricorrente sul proscenio internazionale è quella che reitera fragilità statuale ed instabilità, elementi che determinano l’irraggiungibilità di qualsiasi tipo di equilibrio di potere endogeno ed esogeno. Il Libano ne è un esempio instabile e lampante.
L’attrito iniziato l’8 ottobre 2023 con le iniziative di Hezbollah a sostegno di Hamas è deflagrato in estate con l’incrementale aumento della risposta israeliana che ha condotto all’esplosione indotta dei cercapersone, all’annichilimento del Segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, all’inizio dell’invasione di terra a sud; un insieme di fattori che ha aggravato una strutturalità politica in via di definitivo disfacimento, appesantita da un conclamato default finanziario.
Le politiche adottate sono state disfunzionali per decenni, con un sistema bancario debole e nella grey list del GAFI, un’economia priva di diversificazione, una crescita inesistente ed un’inflazione elevatissima esacerbata dalla svalutazione della lira ed una costante contrazione del PIL. Anche Hezbollah, malgrado la struttura economica parallela ed i finanziamenti da Teheran sembra soffrire il protrarsi del conflitto.
In questo contesto l’apparato militare statunitense nell’area, Corno d’Africa e Oman compresi, appare rafforzato sia per effetto degli attacchi israeliani alle forze filo iraniane, sia dalla dissoluzione del regime baatista siriano, sia dal revanscismo turco che ha condotto gli USA, interpreti di un potere navale preponderante anche nel Mediterraneo, fino a Kobane e coprendo i vuoti lasciati dalla Russia. Anche l’aeroporto di Beirut sembra essere ormai precluso alle proiezioni di Teheran, uno scalo simbolo dei nuovi spazi geopolitici apertisi, dopo la Siria, anche in Libano e delle possibilità di estensioni operative a lungo neanche ipotizzabili.
Dopo un vuoto pneumatico istituzionale di oltre 2 anni, il generale Joseph Aoun, candidato gradito a Tel Aviv, Parigi, Washington ed alla compagine mediorientale filo statunitense, è asceso al soglio presidenziale forte di un cartello di azionisti indispensabile per raggiungere gli obiettivi di supporto e ricostruzione.
Nel più vasto contesto del MENA, non si può escludere la possibilità che Riyadh riesca a trovare quadratura e formula politica che legittimino inedite liaison con lo Stato ebraico. Nel frattempo Teheran comincia ad avvertire un declino della propria influenza, connesso alla compromissione del corridoio siriano; un aspetto da non sottovalutare, laddove forzi una revisione della strategia deterrente persiana, ora più che mai indirizzabile al nucleare, fermo restando il prossimo avvento trumpiano e la (remota) possibilità di un accordo con l’Occidente, vista peraltro la prossima scadenza delle sanzioni delle NU.
Il problema libanese, caratterizzato dalla mancanza di novità politiche, è aggravato dal contrasto tra una società depressa ed un’élite ristretta che protegge i propri interessi grazie ad un’isteresi istituzionale alimentata ad arte e che ha acuito sulla querelle palestinese vulnerabilità irrisolte dal 1948 da aggiungersi alla politica di Hezbollah, fedele ad una propria dirittura avulsa ed autonoma da quella nazionale libanese. Comprensibile quindi che l’arco politico libanese, eccetto Hezbollah, abbia cercato di evitare l’allargamento del conflitto da Gaza al Libano uniformandosi agli altri governi regionali e vista anche una manifesta fragilità bellica specie laddove comparata con la potenza di Tsahal, con un sentito saluto alla solidarietà panaraba riguardo la Palestina. Il tutto considerando il fatto che Hezbollah, pur facendo parte della costellazione politica libanese, rimane militarmente autonomo e sopravanzato da Israele per numero e natura degli attacchi, come quello che ha condotto all’eliminazione di Saleh al-Arouri, leader di Hamas, alla periferia sud di Beirut, zona tradizionalmente sotto copertura securitaria del Partito di Dio.
Dopo uno stallo biennale e 12 tentativi falliti si è dunque giunti all’elezione di un militare, il comandante dell’esercito Joseph Aoun, maronita, che è riuscito a prevalere al secondo turno, pur a lungo ostacolato da Hezbollah, ora più mai fiaccato dai colpi dei Merkavà israeliani. Come militare, il quinto nella storia di Beirut eletto alla presidenza, Aoun, sostenuto dalla reputazione di incorruttibile integrità, ha raccolto un sentito consenso popolare, superando lo scoglio dell’articolo 49 della Costituzione e facendo seguito all’attuazione del cessate il fuoco tra Israele ed Hezbollah da rinnovare l’ormai prossimo 25 gennaio, un accordo su cui vigila l’esercito libanese. Punto di svolta per l’elezione, l’8 gennaio è avvenuto il ritiro dalla competizione elettorale dell’ex ministro dell’interno Suleiman Frangieh, sostenuto da Hezbollah e dal Movimento Amal e che ha fornito, in chiave saudita, il proprio sostegno ad Aoun. Di fatto, il passo indietro di Frangieh, nell’evidenziare l’indebolimento di Hezbollah, ha riportato alla ribalta l’efficace pressione politica statunitense e l’auspicata apertura di credito (in tutti i sensi) di Riyadh.
Nel discorso di accettazione, Aoun ha inteso concentrarsi sulla ricostruzione del Paese ma, soprattutto, sulla (difficile) promessa di ricondurre tutte le armi, quelle di Hezbollah comprese, al controllo esclusivo dell’esercito, dunque sotto il mandato dello Stato. Altro nodo fondamentale, riuscire a ricevere un pacchetto di aiuti finanziari dal FMI.
Non c’è dubbio che i problemi inerenti all’efficienza bellica siano rilevanti ma, in chiave futura, è altrettanto importante che alla nuova dirigenza sia consentito riformare internamente il sistema politico in modo sia da evitare il ripetersi delle ingiustificate astensioni parlamentari al momento delle votazioni sia da poter rivedere un confessionalismo che non riesce ad essere garante di un’equanimità che impedisca esclusioni, un’esigenza adesso ancor più avvertita con la caduta della Siria. Aoun non ha dunque molto tempo, deve procedere con le consultazioni per la nomina del governo e deve garantire la tenuta del cessate il fuoco traguardando la ricostruzione dello Stato, tenendo conto che Hezbollah ha visto paralizzata la sua capacità di imporre la sua volontà malgrado lo sforzo profuso dal nuovo segretario generale, Na’im Qassem, evidentemente ignaro del fatto che il Partito di Dio poco abbia potuto contro le IDF.
Con l’arrivo di Trump, se Hezbollah imponesse boicottaggi sciiti del governo, si determinerebbe l’avvitamento di una crisi irrisolvibile di cui nessuno, ora, vuole essere responsabile, visto che nessun primo ministro sunnita vorrà perdere il sostegno per aver appoggiato Hezbollah, facendosi peraltro sostenere da FA principalmente cristiane. Se i ricchi stati del Golfo dovessero avvedersi di un rinnovato controllo sciita, come è ovvio attendersi, a Beirut non giungerebbe alcun aiuto.
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