Trump e Musk fra hard e soft e Meloni la grande mediatrice

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Diciamoci la verità. Nessuno sa esattamente cosa farà concretamente Trump nei giorni successivi alla sua entrata in funzione.

Perché i Trump che ci vengono presentati sono due. C’è quello hard che emerge dalla conferenza di alcuni giorni fa a Mar-a-Lago e che annuncia: un conflitto imminente a colpi di colossali aumenti di dazi e forse anche armato, con Danimarca, Canada, Panama, Messico, Unione Europea, senza ovviamente dimenticare la Cina, nonché l’inferno in Medio Oriente se entro il 20 gennaio non saranno liberati tutti gli ostaggi detenuti a Gaza. In più, lascia anche intravedere l’abbandono dell’Ucraina alle mire di Putin. Poi ci sono le misure di politica interna, come la repressione di tutti coloro, giudici compresi, che gli sono stati ostili, il massiccio smantellamento di anni di regole ambientali e infine l’espulsione forzata di alcuni milioni di immigrati. Il tutto accompagnato dall’attiva opera di destabilizzazione operata dal suo sodale Elon Musk contro il sistema politico di Gran Bretagna e Germania, due fra i principali alleati dell’America.

Per quanto riguarda il ruolo internazionale degli USA, vale la pena di notare che le pretese territoriali sono largamente prive di fondamento. Tutto ciò farebbe pensare a una riedizione dell’interpretazione imperialista della dottrina Monroe che ci riporterebbe, ma questa volta su scala mondiale, alla politica espansiva dei presidenti William McKinley e Theodore Roosevelt fra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo. Presa alla lettera è una prospettiva che, per quanto riguarda l’Europa, annuncia la fine dell’Alleanza Atlantica come alleanza fra democrazie detentrici di uguali diritti; quali sarebbero le reazioni profonde degli europei se la Danimarca fosse costretta con la forza, o magari solo con la minaccia della forza, a cedere la sovranità sulla Groenlandia?

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Un quadro che inoltre toglierebbe ogni credibilità alla contestazione delle mire espansionistiche di Russia e Cina. Si tratterebbe di un caso di evidente pericolo per l’ordine internazionale descritti a suo tempo da Henry Kissinger: quello del leader un paese il cui interesse prioritario dovrebbe risiedere nella conservazione dell’ordine e che, quasi fosse il Mulo della trilogia di Azimov, invece di cercare di preservarlo migliorandolo si applica ad accelerarne la distruzione. È peraltro misterioso perché gli USA, nel loro confronto con la Cina che, tranne in parte la Russia, è sostanzialmente priva di alleati affidabili, dovrebbero indebolire la propria rete di alleanze che è la più grande mai vista nella storia. Per una persona che si dice ambisca al Premio Nobel per la pace, è quanto meno sorprendente.

Di fronte a questa prospettiva, potremmo essere tentati di fuggire su Marte approfittando di una delle astronavi di Musk, come in Don’t look up, film premonitore di alcuni anni fa. Per resistere alla tentazione, c’è invece il soft Trump, quello descritto nella conferenza stampa di inizio anno da Giorgia Meloni. Lei ritiene di disporre dell’interpretazione autentica, essendo stata da lui ricevuta in Florida con tutti gli onori; visita grazie alla quale ha potuto tra l’altro concludere una delicata operazione diplomatica con il rilascio da parte del regime iraniano della giornalista Cecilia Sala. Il Trump di Meloni è solo un abile negoziatore, con una visione esclusivamente transattiva delle vicende internazionali e che alza i toni per migliorare la sua posizione negoziale. Lo stesso vale per Musk che non minaccia alcuna democrazia, contrariamente a Soros “finanziatore della sinistra”.

Quale dei due Trump è quello vero? Lo sapremo presto. Tuttavia, quello hard fa abbastanza paura da invitarci a concedere almeno un po’ di attenzione a quello soft. È del resto possibile che Trump, a causa anche dei numerosi contropoteri di cui il sistema americano dispone, non possegga gli strumenti politici, finanziari e anche costituzionali per dar seguito a tutte le minacce pronunciate a Mar-a-Lago. In più, si appresta a dirigere un paese profondamente diviso e affetto da una evidente crisi d’identità. Non sono condizioni propizie per una politica estera molto assertiva, anche se sappiamo che a volte l’aggressività verso l’esterno diventa la valvola di sfogo delle tensioni interne.

Forse la differenza fra hard e soft è solo la distanza fra ciò che Trump vorrebbe e ciò che potrà fare. Queste incertezze spiegano l’iniziale cautela di Bruxelles che alcuni hanno a torto criticato. In questa situazione, la saggezza impone agli alleati, come del resto agli avversari, di non essere prigionieri della prospettiva di un hard Trump ma di costruire strategie adatte a scenari diversi. Coscienti però che l’evoluzione potrebbe anche condurci a una grave e durevole frattura dell’Occidente, con la probabile e conseguente spaccatura anche dell’Europa. Gli europei devono inoltre essere coscienti di non essere i soli alleati dell’America a temere gli effetti di un hard Trump. Hanno quindi interesse al massimo coordinamento non solo con la Gran Bretagna, ma anche con paesi come il Canada, il Giappone, l’Australia la Corea e altri in America Latina.

Tutto ciò pone problemi evidenti anche a Giorgia Meloni. I media italiani, e in parte anche quelli internazionali, indulgono nell’immagine di una leader che si trova nella posizione di poter mediare ogni sorta di conflitto: fra l’Europa e gli USA, fra l’Europa dell’est e quella dell’ovest, fra gli USA e l’Iran, persino per alcuni fra l’Occidente e il Sud del Mondo. È vero che la politica estera italiana rifugge da sempre da scelte troppo nette. È anche vero che, fin dal tempo di Roma, gli italiani sono grandi ingegneri e costruttori di ponti, ma per mediare bisogna avere l’autorevolezza che deriva dall’avere le mani libere. La Svizzera è il caso emblematico. Ora, se si tratta di mediare con Trump, non basta essere “simpatici” e ideologicamente abbastanza affini. Nell’universo trumpiano, l’Italia è purtroppo affetta da due gravi debolezze: il livello irrisorio delle spese militari e il secondo surplus commerciale europeo verso gli USA dopo la Germania. È quindi condannata a sperare nel Trump soft preparandosi a trattare insieme a tutti gli altri europei, oppure a temere il Trump hard che la obbligherebbe a scegliere.

Il dilemma è bene illustrato dalla manifesta intenzione del governo italiano di concludere un contatto con Starlink di Elon Musk per le esigenze della difesa nazionale; scelta giustificata dai ritardi del programma europeo IRIS2. La sicurezza nazionale è sicuramente prioritaria. Tuttavia, ciò dovrebbe essere vero per tutti gli alleati, anch’essi vittime dei “ritardi europei”. Perché la stessa urgenza di rivolgersi a Starlink non è sentita anche da paesi come la Francia, la Germania, la Svezia, la Finlandia, la Polonia o il Regno Unito che hanno dispositivi militari più consistenti di quello italiano? L’urgenza è sufficiente a superare la reticenza ad affidarsi a un monopolista privato? Tra l’altro dotato di una sua agenda politica, come si è visto nel caso del suo intermittente e fondamentalmente inaffidabile sostegno allo sforzo difensivo dell’Ucraina? Sono domande a cui sarebbe bene rispondere in un dibattito pubblico trasparente.



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