La spesa pensionistica di natura previdenziale (comprese invalidità, vecchiaia e superstiti) è ammontata nel 2023 a 267,107 miliardi di euro, con un incremento di 19,53 miliardi (+7,88%). A far lievitare la spesa sono stati sia l’aumento del numero di pensionati (+98.743 rispetto al 2022) sia la rivalutazione degli assegni di importo più basso all’inflazione (+7,3%, ricalcolato all’8,1% per le minime). L’incidenza sul Pil è pari al 12,55%, ma scende all’11,48%, in linea con la media Eurostat, se si escludono dal calcolo Gias (Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno al reddito) dei dipendenti pubblici, maggiorazioni sociali e integrazioni al minimo per il settore privato (22,809 miliardi in totale). «La percentuale cala addirittura all’8,56% escludendo anche i circa 62,2 miliardi di imposte (Irpef) che in molti Paesi dell’Unione o di area Ocse sono molto più basse, quando non del tutto assenti, sulle pensioni», spiega il professor Alberto Brambilla, presidente del centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali.
Incentivare chi lascia il lavoro dopo i 71 anni
«Volendo trarre qualche conclusione, malgrado i molti “catastrofisti” che parlano di un sistema insostenibile all’interno dell’attuale quadro demografico, i conti della nostra previdenza reggono, e dovrebbero farlo anche tra 10-15 anni, nel 2035/40, quando la maggior parte dei baby boomer nati dal Dopoguerra al 1980 – coorti molto significative in termini pensionistici, in termini previdenziali assai significative data la loro numerosità – si saranno pensionate», dice il presidente di Itinerari previdenziali. Tuttavia, serve un cambio di rotta tenuto conto degli effetti della crisi demografica e un debito pubblico che a breve potrebbe sfondare la soglia dei 3.000 miliardi di euro. «Per prima cosa – spiega Brambilla – occorrerà un’applicazione puntuale dei due stabilizzatori automatici già previsti dal nostro sistema, vale a dire adeguamento dei requisiti di età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita, limitando da una parte le numerose forme di anticipazione oggi previste dall’ordinamento, e, dall’altra, premiando in termini di flessibilità i nastri contributivi più lunghi». Brambilla inoltre ribadisce la necessità di bloccare l’anzianità contributiva agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne, con riduzioni per donne madri e precoci, e di prevedere un superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di età.
Il sistema è sostenibile: migliora il rapporto attivi/pensionati
In sostanza: il sistema pensionistico è sostenibile. A ribadirlo è l’ultimo rapporto sul bilancio del sistema previdenziale elaborato dal Centro studi e ricerche “Itinerari previdenziali”. Grazie alla ripresa dell’occupazione migliora il rapporto attivi/pensionati, che nel 2023 si attesta a quota 1,4636, miglior valore della serie storica tracciata dal Rapporto. La «soglia della semi-sicurezza» dell’1,5 non è ancora raggiunta, ma il sistema regge e lo farà ancora per molto, a patto che si dia un limite alle «troppe eccezioni alla riforma Monti-Fornero e all’eccessiva commistione tra previdenza e assistenza» e che si affronti «adeguatamente la transizione demografica in atto». Il senso del discorso è che per garantire la tenuta del sistema le uscite anticipate vanno limitate e nuovi canali di prepensionamento sarebbero proprio da escludere. Così come sarebbero da evitare o quantomeno limitare le decontribuzioni (vale a dire bonus mamme, decontribuzione Sud ecc.). Esoneri e sgravi nel 2024 sono costati circa 25 miliardi, ricorda il rapporto.
Il 40,4% dei pensionati sono assistiti
Al 2023, secondo il rapporto, risultano in pagamento 3.845.483 trattamenti di natura assistenziale (invalidità civile, indennità di accompagnamento, assegni sociali, pensioni di guerra) per un costo totale annuo di 23,013 miliardi, in costante aumento. Nello stesso anno, sono state poi erogate altre 3.759.126 prestazioni parzialmente assistenziali (maggiorazioni sociali, integrazioni al minimo, importo aggiuntivo), di cui 2.259.766 integrazioni al trattamento minimo. Tenendo conto che uno stesso soggetto può essere titolare di più prestazioni, al netto delle duplicazioni e non considerando la quattordicesima mensilità, i pensionati totalmente o parzialmente assistiti sono dunque 6.556.991, vale a dire il 40,40% del totale, spiega il Centro studi e ricerche «Itinerari previdenziali».
Integrazione pubblico e privato
Proprio i trend demografici impongono però un ripensamento del welfare a tutto tondo, tanto più che vincoli economici e di finanza pubblica impediranno ulteriori grossi aumenti della spesa per protezione sociale malgrado le pressioni legate all’invecchiamento della popolazione. «Serve una più forte integrazione tra welfare pubblico e privato – ha concluso il Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – per arrivare al welfare mix che ormai caratterizza la maggior parte dei Paesi ad alto e medio reddito. Eppure, la politica resta diffidente nei confronti di quelle tutele complementari che potrebbero allentare la pressione sul sistema pubblico (e in particolare sul SSN): basti pensare che anche la Legge di Bilancio per il 2025 non ha previsto alcuna agevolazione per i fondi pensione né tantomeno per prestazioni LTC e fondi socio-sanitari cui risultano oltretutto già iscritti oltre 16,5 milioni di italiani».
15 gen 2025 | 16:03
© RIPRODUZIONE RISERVATA
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link