Italiani detenuti all’estero: oltre 2000 e il 35% deve essere ancora giudicato

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Alberto Trentini, cooperante veneziano di 45 anni, è un volontario della Ong Humanity & Inclusion. Arrivato in Venezuela lo scorso 17 ottobre, è stato fermato a un posto di blocco mentre era in viaggio verso Guasdualito, città vicina al confine colombiano. Da qui è stato trasferito a Caracas, sotto la custodia della Direzione generale di controspionaggio militare. Al momento non sarebbe ancora stata formalizzata nessuna accusa nei suoi confronti, ma a tutti gli effetti viene trattato come un potenziale terrorista.

Il sospetto è che l’arresto possa essere collegato ai recenti attacchi arrivati dal governo italiano contro Nicolas Maduro, accusato di brogli durante le ultime elezioni. La Farnesina sta seguendo la vicenda con la massima attenzione, in stretto contatto l’ambasciata e il consolato italiano a Caracas.

Gli altri casi

Ma la storia di Trentini, salita alle cronache dopo l’appello lanciato dai genitori e che segue di pochi giorni la liberazione della giornalista Cecilia Sala, detenuta nel carcere di Evin a Teheran, non è certo un caso isolato. Sono più di duemila gli italiani detenuti in Paesi stranieri. Oltre la metà – poco meno di 1.500 secondo le informazioni rese disponibili lo scorso maggio – sono reclusi in penitenziari europei. Il 35% è in attesa di giudizio, con sentenze non definitive o in attesa di estradizione in Stati dove le organizzazioni umanitarie denunciano da anni le pessime condizioni di vita carcerarie

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Filippo Mosca

 

Dal concerto alla cella in Romania

Filippo Mosca è un imprenditore di 29 anni. Originario di Caltanisetta, gestisce un ristorante a Ibiza. Nel maggio 2023 è partito con un gruppo di amici per partecipare al festival di musica elettronica di Costanza, in Romania. L’indirizzo del loro hotel viene utilizzato per inviare un pacco: era destinato a una sua conoscente e conteneva droga. Centocinquanta grammi. Perquisizioni e analisi del cellulare non provano un suo coinvolgimento nel traffico ma – sostengono legali e familiari – le conversazioni registrate durante le prime 24 ore dal fermo vengono «riportate in maniera fantasiosa».

Processato, Mosca è stato condannato a 8 anni e due mesi. Lo scorso dicembre l’annuncio di una possibile svolta. Entro la fine di gennaio il giovane potrebbe lasciare il carcere di Bucarest per scontare il resto della pena in Italia. La madre, Ornella Matraxia, ha più volte denunciato il trattamento «disumano» subito dal figlio, costretto a restare in cella con la luce sempre accesa e senza poter assumere le medicine di cui aveva bisogno.


Fulgencio Obiang Esono

 

L’ingegnere scomparso in Guinea

Fulgencio Obiang Esono, nato in Equador ma residente da oltre trent’anni in Italia, è stato rapito a Lomè, in Togo, nel 2018. Lui era partito da Roma per rispondere a un’offerta di lavoro di una misteriosa azienda francese che operava nel Paese. Insieme ad oltre cento persone, è stato accusato di aver partecipato, l’anno precedente, a un colpo di Stato. La sentenza di condanna è arrivata nell’estate 2019: sessant’anni di carcere. Quasi una condanna a morte, viste le condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti del penitenziario di Playa Negra, nella capitale Malabo. Il suo legale aveva parlato di un processo «fuori da ogni standard internazionale: la confessione gli è stata estorta sotto tortura e senza la presenza di un avvocato di fiducia. Hanno preteso e ottenuto la condanna».


Marcello Doria

 

All’ergastolo in Argentina

Marcello Doria ha 47 anni e da venti si processa innocente. Originario di Chioggia, in Veneto, è stato arrestato in Argentina nel 2005. L’accusa è omicidio: avrebbe massacrato di botte Francisco Alippi, un taxista che secondo le fonti locali sarebbe stato implicato in affari «poco puliti». Pochi mesi prima del delitto, a cui lui si è sempre dichiarato estraneo, i famigliari raccontano che alcuni «poliziotti corrotti» si sarebbero rivolti alla sua officina – si era da tempo trasferito in Sud America per seguire il padre – chiedendogli di pagare per la loro protezione. Lui aveva rifiutato. «Dopo l’arresto, lo hanno picchiato per tre giorni. Nemmeno le impronte digitali ritrovate sulla scena del delitto sono le sue e molti testimoni sono stati intimoriti per convincerli a ritrattare». Lo scorso anno lo stesso Doria, dal carcere, aveva lanciato un appello anche alle autorità italiane per chiedere un nuovo processo.

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