«L’Italia è fra i paesi più vulnerabili, anzi fra i più colpiti dalla devastazione idrogeologica, dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua, del suolo, dalla distruzione del paesaggio e dalla rovina del patrimonio artistico. L’industria di rapina, l’edilizia speculativa, la debolezza dei poteri pubblici sono più accentuate che altrove. Ogni cittadino è colpito nella sua salute, nel suo senso estetico, nella sua psicologia, nei suoi interessi: esiste un’immensa potenzialità di ribellione e di protesta, che resta silente o che viene deviata. Vorrei dire con franchezza che su questo terreno si sono mossi più rapidamente gli inquinatori, per cercare coperture propagandistiche (l’Eni che convoca un convegno sui costi della polluzione!), che non gli inquinati, hanno agito con maggior respiro alcune forze borghesi che non il movimento operaio».
Queste righe sono tratte da un articolo di Giovanni Berlinguer uscito su «Rinascita» oltre cinquant’anni fa (Inquinatori e inquinati, 26 giugno 1970), ma potrebbero pacificamente essere state scritte ieri. Ed è anche a causa della stringente attualità del problema ecologico se il filone di studi sulla storia ambientale si è fortemente consolidato in questi ultimi anni.
Nel suo nuovo libro, lo storico Salvatore Romeo torna su questi temi, ripercorrendo la storia della lotta all’inquinamento in Italia attraverso un esame attento delle strategie delle grandi imprese, del ruolo delle istituzioni e dell’attivismo dei movimenti ecologisti. Una ricerca frutto di uno scavo lungo e scrupoloso tra fonti bibliografiche e carte d’archivio, dai fondi istituzionali di Camera e Senato all’Archivio storico del Comune di Milano, fino agli archivi di enti e organismi come l’associazione Italia Nostra, l’Iri o l’Eni, con un ampio ricorso a documentazione inedita.
Quando cambiò lo stile di vita degli italiani
Il titolo del volume è eloquente: L’altra faccia del benessere. Una storia ambientale nell’Italia contemporanea (1950-1979) (Carocci, pp. 294, € 34,00). La questione ecologica non quale fenomeno a sé stante, dunque, ma come effetto di quella crescita industriale fulminea che ha trainato l’economia italiana del dopoguerra, modificando radicalmente lo stile di vita degli italiani. Fu a partire dagli anni Cinquanta, infatti, che si poté assistere a una crescita sensibile dei consumi di beni fino ad allora sconosciuti (si pensi alla diffusione degli elettrodomestici) e all’avvio di una prima motorizzazione di massa, mentre grandi masse di lavoratori lasciavano le campagne per cercare fortuna nelle città in piena espansione. «Tutti questi elementi insieme – scrive Romeo – ridefinirono complessivamente il “metabolismo” delle città italiane: aumentarono in misura esponenziale tanto l’estrazione di risorse naturali quanto la produzione di scarti di ogni genere». Parole che schematizzano bene il quadro storico di quell’Italia di metà secolo, dove gli evidenti ritardi in termini di legislazione ambientale si sommavano ai precari equilibri ecologici di quelle aree agricole e manifatturiere rimaste ai margini del “miracolo economico”, fortemente depauperate in termini demografici.
Il libro si apre proprio con una panoramica sulla normativa fascista in tema di tutela del paesaggio e della salute: tra le diverse disposizioni previste dal regime, il Testo unico delle leggi sanitarie del 1934 e la legge urbanistica del 1942 rappresentarono i primi, timidi tentativi da parte dello Stato per porre un freno alla promiscuità tra insediamenti urbani e complessi industriali e «preservare dall’assalto della “città che sale” alcuni ritagli pregiati di territorio».
Sono poi ripercorsi i passaggi più importanti del primo trentennio repubblicano, caratterizzato da alcuni tragici disastri ambientali e industriali che scossero l’opinione pubblica, dall’alluvione del Polesine del 1951 a Seveso e alla coeva esplosione nel petrolchimico Enichem di Manfredonia (1976). Seguì un lento, ma progressivo incremento della sensibilità collettiva riguardo le ripercussioni di un’industrializzazione inquinante sulla salute pubblica, cui corrispose una risposta disorganica, spesso poco incisiva, da parte delle istituzioni, mosse soprattutto da circostanze emergenziali.
Ampio spazio è dato ai contesti delle principali città industriali, dai grandi hub portuali (Napoli, Taranto, Venezia) alle metropoli: soprattutto Milano, dove già nei primissimi anni Cinquanta gli alti livelli di inquinamento dell’aria avevano richiamato l’attenzione degli studiosi più attenti, a partire dall’igienista Augusto Giovanardi dell’Università di Milano, già autore di alcuni pionieristici progetti di riforma sanitaria nel 1943.
L’autore rileva con puntualità il ruolo affatto neutrale della grande industria energetica (uno dei paragrafi porta il titolo suggestivo di Il protagonismo ambientale di Eni) e il contributo degli enti locali, dei tecnici, del mondo dell’associazionismo e degli organi politico-istituzionali. Ricorda, inoltre, come i primi episodi di contestazione popolare – ad esempio, quella che tra il 1965 e il 1966 mosse i cittadini di Panigaglia, in Liguria, con il sostegno attivo dei comitati locali di Italia Nostra – non abbiano sempre ottenuto esiti positivi, ma certamente prepararono il terreno, attirando l’attenzione dei media nazionali. D’altronde, il processo di sensibilizzazione alla questione ambientale fu a lungo ostacolato dalle stesse forze politiche e sindacali, che accolsero con colpevole ritardo le istanze dei movimenti ecologisti: se, infatti, notevoli furono le influenze esercitate nella Dc e negli altri partiti di governo da parte delle grandi imprese, altrettanto forti furono le resistenze a sinistra.
I travagli del Pci e i ritardi nel comprendere la centralità dell’ambientalismo
Giunta in Italia nella seconda metà degli anni Sessanta sulla scia delle agitazioni che iniziavano a organizzarsi negli Stati Uniti e in altri paesi industrializzati, la battaglia ecologista trovò terreno fertile nei movimenti che animarono il Sessantotto, tra i radicali e in molti ambienti della sinistra extraparlamentare. Anche i giovani comunisti della Fgci si mostrarono pronti a recepirne principi e obiettivi, mentre il Pci – se si escludono alcuni casi eccezionali (un nome su tutti, quello di Laura Conti) – faticò a trovare una propria unità intorno a un programma politico in grado di coniugare crescita occupazionale, ammodernamento delle strutture produttive e tutela dell’ambiente.
Fu proprio Giovanni Berlinguer, nello stesso articolo del 1970 citato in apertura, a denunciare l’assenza di un’analisi seria su questi temi, nonché l’incapacità di collegare le altre battaglie condotte dal partito, come quelle per la salute, la casa e i trasporti, al «rapporto tra fabbrica e società, fra uomo e ambiente, fra collettività e territorio». A suo avviso, infatti, di fronte a «una guerra che non ha precedenti, che ha per teatro l’intero pianeta, e che ha per posta l’alternativa fra il dissennato depauperamento e il vantaggioso dominio sulla natura», il partito e i sindacati avevano mostrato una certa «passività ecologica».
Una incertezza iniziale da cui il Pci sarebbe uscito solo alcuni anni dopo, non senza fratture interne, nel pieno della campagna contro il nucleare per usi civili, sollecitato non solo da quella «saldatura – scrive Romeo – fra un’intellettualità sempre più consapevole della rilevanza politica della sfida ecologica e settori della società civile a loro volta capaci di aggregarsi al di fuori delle organizzazioni di massa», ma anche dagli stessi amministratori locali comunisti e dai loro cittadini, contrari a ospitare sul proprio territorio le centrali nucleari (vedasi i casi di Trino Vercellese e Montalto di Castro).
È anche per dare rilievo ai fermenti di quella stagione che l’autore ha spinto la propria ricerca oltre il termine periodizzante del 1973, anno segnato dalla crisi petrolifera con cui tradizionalmente si indica la fine dei cosiddetti “trenta gloriosi”: quelle idee e quelle istanze di un nuovo “patto ambientale”, che ristabilisse gli equilibri tra Uomo, natura, società (è il titolo di un celebre convegno organizzato dall’Istituto Gramsci nel novembre 1971), giunsero a maturazione solo verso la fine del decennio. Una periodizzazione che valorizza – almeno a parere di chi scrive – l’impatto profondo del Sessantotto italiano e le proposte di quei segmenti della società che da oltre mezzo secolo sostengono le campagne per la tutela dell’ambiente, rifiutando ogni compromesso a ribasso tra salute e lavoro: una battaglia, questa, tutt’altro che conclusa.
Salvatore Romeo
L’altra faccia del benessere. Una storia ambientale nell’Italia contemporanea (1950-1979)
Carocci editore
Salvatore Romeo è ricercatore in Storia contemporanea all’Università di Roma Tor Vergata. La sua prima monografia L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 ad oggi, pubblicata da Donzelli nel 2019, ha vinto l’edizione del 2020 del premio Anci-Storia. Ha inoltre curato la raccolta di scritti di Alessandro Leogrande Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale, edita da Feltrinelli nel 2018.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link