Da De Luca a Zaia, a Sala. Il nuovo fronte che abbatte la distinzione destra-sinistra: «Noi eletti dal popolo»
Ma insomma, non si è mica capito con chi bisogna stare su questo benedetto, o accidente che sia, di terzo mandato. Chi sono questi presidenti di regione e sindaci che non se ne vogliono andare a casa dopo dieci anni di governo? Cacicchi attaccati alla poltrona, così padroni delle clientele, con la pazienza e il ricatto costruite, per potersi far scudo del voto popolare e sovvertire di fatto la democrazia? Oppure sono gli alfieri dei cittadini, una sorta di borghesia del terzo Stato, che si oppone alla rendita di posizione di nobiltà e clero e si rilancia come erede della Rivoluzione francese? Va bene, non esageriamo.
Da ragazzini una volta te la facevano la domanda. Che vuoi fare da grande? Vuoi «fare» o «comandare»? Ora diciamolo, è un fatto di pura cronaca, per sindaci e governatori, o cacicchi che siano, si stava mettendo male. Messi al muro e quasi svergognati per le loro pretese, con l’unico presidente della Campania, Vincenzo De Luca, che resisteva, ma non lo sosteneva neppure la mamma, cioè il suo partito, che faceva il kamikaze, fino a farsi una legge in casa per ricandidarsi.
Pareva che li avessero già rosolati a fuoco lento, e invece. La svolta si chiama Luca Zaia, gran visir del Veneto, che un bel giorno ha deciso che non era più tempo di arrancare in difesa, ma che era l’ora di andar di cozzo contro l’avversa fortuna, menando fendenti contro la classe dei garantiti, quelli delle rendite di posizione, che mai fecero ma sempre comandarono, come valvassori e senza una vera mannaia del voto. Eccola la frase di Zaia che li ha rimessi tutti in piedi: «È inaccettabile che si blocchino i mandati ad amministratori eletti dal popolo perché si creano centri di potere, è inaccettabile che la lezione venga da bocche sfamate da trenta anni dal Parlamento. Per la proprietà transitiva dai degli idioti a cittadini elettori, che mandano a casa miei colleghi dopo un primo mandato». Alla faccia del bicarbonato di sodio, direbbe Totò. Bel colpo. Tanto è vero che nel centrodestra, da Giovanni Donzelli a Francesco Lollobrigida, ex di Arianna Meloni, si è tenuta la barra del no al terzo mandato, ma in punta di fioretto, senza sfidare in campo aperto il governatorone. L’unico che ci ha provato, che il coraggio non gli manca, è stato Maurizio Gasparri: «Troveremo il modo di sfamare Zaia, che ha fatto l’amministratore locale e il ministro, lo sfameremo».
Ma ormai il guanto della sfida è lanciato, sfonda gli schieramenti, travalica destra e sinistra, e mette sul banco degli accusati i parlamentari, che mai lavorarono, a detta degli amministratori, e mai si sottoposero al giudizio di Dio degli elettori, protetti dalla designazione dei loro leader. Fannulloni, perditempo, maestri delle chiacchiere. Quasi inaspettato sbuca dalle nebbie anche il drone del sindaco di Milano, Beppe Sala: «Sul no al limite dei mandati per i presidenti di Regione sono d’accordo con Zaia e sono d’accordo con De Luca. Anzi, dico di più, questo limite non dovrebbe esserci nemmeno per i sindaci. In Europa nessun Paese ha i limiti di mandato, ad eccezion del Portogallo, noi dobbiamo sempre essere speciali? C’è chi dice che c’è un’eccessiva concentrazione di poteri, ma ci sono i consigli comunali, quello regionale, gli organismi di controllo, i giudici, la Corte dei conti. E hai il supremo controllore, che è l’elettore». Poi eccola la sventagliata ad alzo zero: «Ha ragione Zaia quando dice che non prende lezioni da chi sta da trenta anni in Parlamento, anche no». E c’è Attilio Fontana, presidente della Lombardia, che pare accettare l’ineluttabile, ma dice che è stato un errore del governo impugnare la legge della Campania, «perché c’è un’elezione diretta, massima espressione di democrazia». Maurizio Fugatti, provincia autonoma di Trento: «Non è che se lo decidono a Roma, poi una cosa qui non si può fare». Massimiliano Fedriga, Friuli-Venezia Giulia: «Meloni ci rispetti, mi pare che abbiamo competenza esclusiva sulla materia elettorale».
Zaia rincara: «I veneti chiedono la mia ricandidatura. Non ci siamo mai trovati di fronte a una chiamata del popolo come questa». Antonio Decaro, già sindaco di Bari e ora a Strasburgo, un anno fa avvertiva: «Noi sindaci, traditi da chi non ha mai dovuto cercarsi un voto». De Luca adesso osserva sornione e Pier Luigi Bersani, favorevole alle battaglie, ma non a quelle contro i mulini a vento, fa con lui la colomba: «Il compromesso è una cosa nobile».
Ora certo, le due gemelli terribili della politica italiana, Giorgia e Elly, la legittimazione popolare l’hanno avuta, una alle politiche, l’altra con le primarie, e tutte e due alle Europee, e c’è da giurare che non molleranno. Come dire, compriamoci i popcorn e vediamo come finisce.
Ah, un’ultima cosa, per gli amanti dell’a volte ritornano. Questa storia, sotto varie forme, va avanti almeno dal 1993, quando nacque una sorta di cartello pre-partitico dei sindaci nella palude del centrosinistra. Lo chiamarono «Cento Città» e l’allora premier Giuliano Amato lo ribattezzò «Cento Padelle».
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