la “pax israeliana” vista da Trump

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Ecco perché Donald aiuta Bibi: secondo il nuovo inquilino della Casa Bianca il mondo caotico di oggi si gestisce a metà con l’ideologia e le passioni e a metà con l’interesse privato. E allora la tregua nella Striscia può diventare un ulteriore grande e fruttuoso affare

Gaza: l’intesa siglata e che vorrebbe far iniziare la tregua domenica è quella elaborata in questi mesi dagli uomini di Joe Biden. La notizia è che Donald Trump gli ha dato il suo endorsement senza cambiare nulla e cercando di costringere Benjamin Netanyahu ad accettarla. Troppo complicata la ragnatela di Gaza per ricominciare daccapo, si sarà detto The Donald. Se poi funziona, può sempre addurre il suo sostegno come ragione del successo (lo ha già fatto, in verità, via social media); se non funziona o se traballa, potrà dire che la colpa è di chi l’ha disegnata.

Il balletto a Doha sembra sempre lo stesso: si negozia, sembra che si arrivi al punto e poi alla fine il premier israeliano alza l’asticella per far fallire tutto o accusa Hamas. Ci ha provato anche questa volta («Tutti gli ostaggi liberi subito» o «Non cederemo un centimetro del corridoio Filadelfia») ma ha dovuto arrendersi al tycoon. L’annuncio è stato dato dai qatarini, anche se si dovrà vedere se l’intesa reggerà alla prova dei fatti. Nulla è mai certo in Medio Oriente, e le voci si rincorrono su chi la farà fallire.

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L’interesse del premier israeliano è evidente: Netanyahu deve provare a sopravvivere politicamente per evitare i tribunali che lo assediano. Solo l’appoggio di Trump può salvarlo. Ricordate dopo il 7 ottobre quando tutti dicevano (anche in Israele) che il premier era un morto che camminava e che solo la guerra lo teneva in piedi? Ricordate quando i sondaggi israeliani davano il suo partito senza maggioranza? Ebbene, con la vittoria di Trump può non essere più così, anzi non è già più così. Alla fine il “centro” di Gallant non ce la farà a scalzare Netanyahu se quest’ultimo manterrà l’appoggio che gli offre il prossimo inquilino della Casa Bianca.

È noto che i due si conoscono e si apprezzano, ma c’è un punto che li divide: Trump non è un ideologo, ma un pragmatico che punta all’affare con il minor costo possibile. La tregua apre la porta a molto business (ricostruzione) ed è apprezzata da parte di parecchi amici del neo presidente americano, in particolare i sauditi, gli emiratini e così via. Netanyahu invece è un ideologo e ha creato con la sua ultima coalizione una sorta di impasto dottrinale religioso-suprematista, come mai aveva fatto prima.

Ora se ne deve liberare e tornare a essere quel Netanyahu (pragmatico anche lui) che era, cioè quello che era riuscito a governare un paese difficile per più di 10 anni. Sul crinale che ondeggia tra i due registri (da quello propagandistico-ideologico a quello realista-liberista) si muovono sia il presidente eletto americano che il premier israeliano, come tanta parte della destra odierna.

La nuova destra che governa ha capito ciò che la sinistra ancora non vede: il mondo caotico di oggi si gestisce a metà con l’ideologia e le passioni e a metà con l’interesse privato. Con le emozioni si tiene assieme un popolo variopinto, saldando ceti diversi attorno a impulsi nazionalistici rassicuranti: «Torniamo in controllo secondo i nostri interessi nazionali». È ben noto quanto ciò sia un’illusione o quantomeno molto difficile: tornare al passato non è mai davvero possibile. Ma quello che conta è il tentativo: è ciò che gli elettori premiano, una specie di rito nostalgico rassicurante.

D’altra parte però va garantita una certa prosperità, almeno mantenendo il benessere a cui si è abituati. L’esempio di Singapore è questo: scambio libertà per prosperità. Ma qui c’è bisogno del mercato perché lo stato da solo non ce la fa più. E nel mercato dominano i grandi fondi finanziari che detengono il potere reale. Con loro ci si deve per forza mettere d’accordo, anche se ciò implica la perdita di controllo della sovranità strategica o economica, l’esatto contrario di ciò che si promette al grande pubblico.

Trump dimostra di averlo compreso mettendo in evidenza il suo legame con Elon Musk ma anche con tanti altri imprenditori o finanzieri. Anzi: Trump rappresenta la perfetta sintesi del modo con cui la destra globale vuole governare: poco stato e molto mercato, ma – a differenza del passato – il tutto deve essere avvolto in una spessa coltre di passioni e di spinte emozionali, che celano il cuore del progetto ma anche un po’ lo influenzano.

Israele è il posto giusto per sperimentare tale modello, tanto le passioni sono forti e avvolgono ogni dibattito e ogni scelta, ad esempio al punto di giustificare una condotta di guerra senza limiti e senza regole. Ma d’altra parte Israele è anche il paese di un livello superiore di innovazione tecnologica e di controllo della popolazione. L’intelligenza artificiale già gestisce gran parte della risposta armata israeliana a Gaza, e ciò spiega il gran numero di perdite civili (basta che l’Ia ti raffiguri come vicino a Hamas per diventare un target, non c’è possibilità di appello).

Tutto questo ha degli importanti e molto concreti risvolti economici che interessano il grande capitale e può condurre a futuri investimenti. La guerra fa male al commercio ma può divenire il crogiuolo di molte innovazioni che possono aprire strade nuove. Per questo Trump interviene: aiuta Israele, ma alle condizioni americane. Trump non vuole la guerra ma la sfrutta da diversi punti di vista (tecnologico, commerciale, industriale): in altre parole, la considera come un affare da cui trarre il maggior profitto possibile. L’Europa e i paesi arabi potrebbero ora convincerlo che la pace nella Striscia può diventare un ulteriore grande e fruttuoso affare.

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