Atalanta, una febbre inguaribile e un mondo che sogna

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Sono usciti dalla Supercoppa di Ryad, d’accordo, ma l’amministratore delegato Luca Percassi dice che in questa sezione di mercato vuole rinforzare la squadra: “L’obiettivo è non avere rimpianti”. Non lo ammette mai davanti ai microfoni, ma sente anche lui che il colpaccio quest’anno non è impossibile. E anche Gasperini a questo punto della stagione, con la squadra stabilmente nelle posizioni di testa della Serie A, più che a coppe e coppette sta pensando allo scudetto. Anche se a Bergamo non lo si può nominare neanche per ischerzo: lo chiamano “il trisillabo”, e più non dimandare.



In città c’è una fibrillazione strana, a cui i bergamaschi non sono abituati. Roba che può capire solo chi nel 1981 “ha provato lo sconforto del minimo storico, l’unica volta in cui l’Atalanta finì rovinosamente in serie C”: l’ebbrezza d’alta quota convive con questo spleen pessimista da perdenti di lungo corso che qui non è un’onta ma, al contrario, una medaglia sul petto. Nelle chat nerazzurre i tifosi rimestano pentoloni di scaramanzia, poi però al Gewiss Stadium cantano compatti “vinceremooo, vinceremooo il Tricolor!”.

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“Sicuramente il 22 maggio di quest’anno e la finale di Europa League vinta a Dublino rappresentano qualcosa che rimarrà per sempre nella storia di tutti noi” dice Percassi jr. “Però la cosa più bella che l’Atalanta è riuscita a fare in questi anni è stato rappresentare Bergamo nel migliore dei modi. Il nostro territorio ospita aziende che nessuno conosce e che magari nel loro settore sono leader nel mondo. Si parla tante volte di ‘modello Atalanta’, ma il modello Atalanta non sono altro che le persone di questo territorio che permettono alla squadra e alla società di esprimersi in questo modo”.



In una grande parabola sportiva c’è sempre un pezzo di storia sociale. E stanno iniziando a uscire dei libri che raccontano non tanto i “dietro le quinte” del mondo del calcio bergamasco, ma provano a descrivere la società, la mentalità, il modo di lavorare che sono alla radice di questo fenomeno.

Uno (La mia vita con l’Atalanta, Bolis Edizioni 2024) lo ha scritto Pietro Serina, veterano delle cronache atalantine, per quasi cinquant’anni sull’Eco di Bergamo e ora sul concorrente Corriere della Sera – Bergamo: il collega Gian Antonio Stella lo ha definito “l’Erodoto” di questa piccola epopea sportiva (“mia moglie insegna latino e greco e si è scandalizzata non poco: le ho sentite su” si schermisce lui). Serina ha dato voce a Miro Radici, vicepresidente del club dal 1972 al 1974, azionista-proprietario dal 1982 al 2000, oltreché figura simbolo dell’imprenditoria bergamasca più internazionalizzata. Tra quelle pagine si può leggere bene anche l’intreccio tra imprenditoria italiana e mondo del calcio, visto dalle prime file: Moggi, Luca Cordero di Montezemolo, Berlusconi, la sfida della Cina…

Un libro ancor più “per i foresti” lo ha scritto Fabio Finazzi, brillante bergamasco sbarcato da dieci anni direttamente in via Solferino, caporedattore del Corriere. Il suo Amare una dea (Cairo, 2024) è in tutte le vetrine librarie della città. “Il titolo – spiega – lo dobbiamo all’editor, Luca Ussia, milanista. È noto che si tratta in realtà di una splendida fake news: Atalanta nella mitologia greca non era una divinità ma un’eroina, o una ninfa. Detto questo, l’ascesa di questi anni della squadra di calcio vale il ‘salto ontologico’, il passaggio di categoria: per tutta Italia Atalanta è diventata una dea, e credo che ormai possiamo chiamarla serenamente così”.

Per far capire, appunto, al resto del Paese cos’è questa malattia infettiva (incurabile) che contagia i bergamaschi sin dalla culla, Finazzi, con l’aiuto del collega Simone Bianco (lecchese trapiantato a Bergamo, interista) ha intervistato sei super-tifosi atalantini “disposti a vuotare il sacco senza freni inibitori”. Tutta gente che spesso si è conosciuta sui gradini dello stadio prima che nella buona società locale, e ancora si scambia sms a raffica ogni volta che la palla finisce in rete (cioè spesso): Davide Ferrario, regista cinematografico, Nando Pagnoncelli, autorevole sondaggista, Giuseppe Remuzzi, scienziato di fama, Gigi Riva, inviato di guerra, Donatella Tiraboschi, cronista di costume e lo stesso Pietro Serina: “Un affresco ricondotto a unità da una parola magica: appartenenza”, dice Finazzi.

Ecco allora che Pagnoncelli, presidente di Ipsos, collaboratore di Giovanni Floris a Di martedì, ma anche “cattolico impegnato, noto per il suo impeccabile aplomb”, nel capitolo più bello e più ricco del libro (scritto con Bianco) racconta senza rossori che in un vertice ecclesiastico di alto livello sul Sinodo voluto dal Papa, convocato on line “proprio la sera del memorabile 3-0 inflitto al Liverpool” ebbe a dichiarare davanti a quattro vescovi: “Per collegarmi con voi ho rinunciato alla mia vera fede”. Quella, ça va sans dire, nerazzurra. “La storia dell’Atalanta – spiega – è la storia della mia vita. Io sono nato davanti allo stadio, e sono convinto che il calcio sia un modo anche giocoso per relazionarsi con le altre persone”. Anche a rischio “di essere un po’ impertinente”.

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Pagnoncelli, insomma, quella sera un po’ discettava con alti prelati di una Chiesa “in uscita” e un po’ sbriciava in un’altra finestra del computer il risultato del match: “Alla fine, avendo vinto l’Atalanta 3 a 0, ero assolutamente entusiasta; ma anche un po’ attapirato perché non avevo potuto vedere la partita. Finì che un alto esponente della gerarchia cattolica, di cui non farò il nome, mi disse: ‘Ti abbiamo portato fortuna, quindi adesso vedremo di convocare le nostre future riunioni in concomitanza con le partite internazionali dell’Atalanta’”.

Ferrario è più accorto di Pagnoncelli, è un abile regista anche della sua agenda, tempi e inserimenti non sono mai dettati a caso: “Il calendario di produzione dei miei film – confessa – è condizionato da quello dell’Atalanta. Prima guardo quando gioca, poi organizzo il resto della vita attorno: non riesco a immaginare altro modo. È una cosa che ho imparato da Diego Abatantuono: se c’era la partita del Milan lui non girava mai”.

Nel 2019 ad esempio Ferrario era a Malta per un film internazionale, Blood on the Crown, interpretato da Harvey Keitel e Malcolm McDowell. “Ma a settembre c’era era anche il debutto dell’Atalanta in Champions League. Per fortuna il direttore di produzione era un italiano a cui spiegai subito la mia ‘regola di base’. McDowell e Keitel non l’hanno mai saputo, naturalmente”.

Gigi Riva, giornalista a lungo inviato speciale del Giorno e dell’Espresso, è un filino più agnostico, diciamo che è un “atalantino adulto”: “Sono diventato più tifoso da quando sono andato via da Bergamo, a vent’anni: girando il mondo, l’Atalanta è diventata per me una radice identitaria, qualcosa che mi lega alla città, come la polenta. Ho passato almeno vent’anni in zone di guerra e, soprattutto nei momenti in cui si rischiava molto, il mio pensiero andava spesso a qualcosa che mi facesse felice”.

Il suo capitolo è quello scritto meglio, e il più ricco di chiaroscuri. Racconta ad esempio l’assedio di Sarajevo, siamo nel febbraio del 1993: “Dalla città non si poteva uscire, non ero più sicuro neppure della mia incolumità personale”. E una domenica pomeriggio (non c’era ancora Sky, né Dazn a spacchettare gli orari) improvvisamente il sangue bergamasco gli ribolle nelle vene e si chiede: “Cosa starà facendo l’Atalanta contro la Juve?”. In mano ha una radio molto costosa, di cui l’editore ha autorizzato l’acquisto perché è anche una forma di assicurazione sulla vita in zone di guerra: “Non c’erano ancora le tecnologie digitali di cui tutti disponiamo oggi, e a Sarajevo non c’era nessuna possibilità di sapere come andava quella partita, nelle case non c’era neppure la luce. L’unica cosa che avevo in mano era quella radiolina che prometteva di trasmettere “tutte le radio del mondo in tutti i luoghi del mondo”.

Viaggiando nelle onde medie e “armeggiando sulla manopola intorno alla frequenza 6060, credo, a un certo punto sento la musichetta di Tutto il calcio minuto per minuto e la voce di Sandro Ciotti. Ero in una casa del centro, e il proprietario, Zlatko Dizdarevic, direttore del quotidiano Oslobodenje (Liberazione), teneva al Real Madrid ma anche un po’ alla Juventus. Gli piaceva vincere facile, diciamo. La situazione era surreale, io dovevo scrivere il mio pezzo per il giornale, cadevano le bombe, i cecchini sparavano dai tetti però l’Atalanta vinse 2-1 (il goal decisivo lo segnò Maurizio Ganz) e mi sembrò di impazzire: grazie Atalanta, per avermi fatto felice in quei momenti! Tutto il calcio aveva bucato l’assedio di Sarajevo”.

Ma vi stupirà, per libera irrazionalità, arguzia e competente dettaglio tecnico il capitolo di Giuseppe Remuzzi, serissimo e autorevole scienziato, direttore dell’Istituto Mario Negri, membro del Consiglio superiore di Sanità, accademico dei Lincei, che racconta il vertice assoluto dei 117 anni dell’Atalanta, quel “22 maggio” dell’anno scorso che per un bergamasco, sul piano squisitamente storico, ormai conta più dell’11 settembre 2001: la sera della finale di Dublino contro il Bayer Leverkusen. C’era mezza Bergamo in Irlanda, ma anche in città ogni salotto era sotto la malia della luce verdastra del campo erboso celtico: “Si scatenò un temporale molto forte. Esco, con mia moglie Nadia da casa di amici e ci dicono che nella zona in cui abitiamo è saltata la corrente. Con noi c’era Massimo Biza, grande psichiatra, che conosco da quando eravamo compagni di banco alle elementari, e vado a casa sua a vedere la partita. Giochiamo bene, arriva il primo goal di Lookman, cerchiamo di non agitarci. Dopo il secondo goal mi suona il telefono”. Remuzzi, scocciato, prende in mano il cellulare a fatica: sul display compare “Mario Draghi”. “’Siete fortissimi’ mi dice. ‘È un piacere vedervi giocare’. Gli rispondo ‘Calma, ne parliamo alla fine’. E ho messo giù. Poi però quando Ademola ha segnato il terzo goal ho lasciato perdere la mia scaramanzia e anche se la partita non era finita gli ho telefonato io: Draghi è un romanista sfegatato”.

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