Le deviazioni su percorsi delinquenziali del potere politico, economico e finanziario trovano terreno fertile nell’illegalità diffusa e, in particolare, nella corruzione piccola e grande. L’illegalità, ossia violazione delle leggi, è il terreno fertile di coltivazione della cultura della mafiosità e viceversa. Per cultura della mafiosità intendiamo “un certo modo di pensare e di organizzare la società” in generale o la comunità locale in particolare. In sintesi si tratta di quella cultura informata dalla “negazione delle regole sociali a favore delle regole private e familistiche.” Per essere più chiari, questa cultura, che in realtà è una sottocultura diffusa in Basilicata in varie forme, appartiene a coloro che tendono a sostituire le leggi varate dalle istituzioni democratiche con il potere o l’autorità o il presunto prestigio personale, imponendo gli interessi propri o di un gruppo ristretto e tutelando a oltranza i propri amici, a danno di altre persone.” Questa sottocultura produce ingiustizia.
Dunque, non bisogna essere mafiosi o appartenere a un clan criminale per aderire a quella sottocultura o per assumere un certo modo di pensare e di comportarsi. È sufficiente agire in base a un certo modo di pensare che non costituisce reato, ma che si fa beffa dell’etica pubblica e privata e alimenta la sfiducia nelle relazioni sociali e tra i cittadini e le istituzioni. In breve, piccona la democrazia e danneggia le prospettive di sviluppo di un territorio.
Se analizziamo, dal punto di vista del rischio, i fatti di cronaca giudiziaria e di costume, le vicende legate alle dinamiche elettorali e il quadro dei mutamenti nelle alleanze tra poteri economici e politici negli ultimi 30 anni, possiamo scorgere un pericolo: il consolidamento di piccoli e grandi poteri deviati sempre più inamovibili. In pratica si tratta di circuiti “fuori legge” che nulla hanno a che fare con fenomeni mafiosi vecchi e nuovi, ma molto a che fare con l’uso privato dell’autorità conferita, del potere personale acquisito e, in alcuni casi, della reputazione e del prestigio apparenti. In pratica hanno molto a che fare con la “sottocultura della mafiosità”.
La storia criminale di una regione non si scrive soltanto con la cronologia dei delitti e delle faide o con l’elenco dei reati di gruppi di delinquenti che si sono ammazzati a vicenda. Questo è un capitolo, ma bisogna considerare gli altri capitoli tendenzialmente destinati al dimenticatoio. Le vicende giudiziarie legate a Fenice e Arpab, quelle dell’ex Arbea, le vicende di Tecnoparco e dei Consorzi industriali. E ancora, rimborsopoli, monnezzopoli, calciopoli, rifiuti connection. I processi Total e Eni, i concorsi truccati, le gare di appalto manipolate, la corruzione. E poi l’omertà intorno ai gravissimi fenomeni di inquinamento, agli abusi di taluni imprenditori nei confronti dei lavoratori. E ancora le ingenti risorse pubbliche gestite per fini privati. Le società di comodo utili a certi poteri nella gestione di affari milionari. Gli imprenditori che usano le risorse locali per trasferirle nei paradisi fiscali. E perché no, alla storia criminale appartengono i tanti casi di omicidio non risolti, e anche i casi in cui qualcuno è stato suicidato. E non è tutto, ma sarebbe lunga.
Certo, la Basilicata non è quella storia. È una regione bellissima e pure continuamente sfregiata. Ha grandi ricchezze e pure continuamente saccheggiata. Ha grandi potenzialità e pure mortificata nelle sue aspirazioni. Tuttavia quella storia, che sembra arricchirsi di nuovi e più sofisticati episodi, non va dimenticata. Perché dimenticarla significa distogliere lo sguardo dai rischi che continuiamo a correre per causa di quella cultura della mafiosità che si espande continuamente, senza che nessuno riesca a fermarla. Anzi, c’è chi lavora per farla diventare una cifra antropologica della Lucania e chi, con un malinteso senso del pudore, prova a nasconderla. Diamo valore a questa frase: “Non sappiamo che cosa ci sta accadendo, ed è precisamente questo che ci sta accadendo.” (José Ortega y Gasset).
Fatti più recenti, apparentemente innocui, ci confermano l’esistenza di quella che abbiamo chiamato la “non mafia” e la Cosa. Un sistema deviato di mediazioni e di rapporti di natura affaristica da cui emerge la “mafiosità” come cultura, come fenomeno con proprie radici sociali anche nella borghesia parassitaria, endemica e sempre più parassita. È “la non mafia” che si è ramificata nei decenni, senza sparare un colpo, occupando istituzioni, partiti, aziende, dove ha costruito legami organici sul principio della spartizione delle risorse pubbliche e delle postazioni strategiche. Un sistema di potere politico-economico, capace di risorgere ogni volta, di trasformarsi, di adattarsi, di tenere sotto scacco il futuro della popolazione lucana. C’è chi lavora per alimentare un irreversibile clima di rassegnazione e rendere impossibile qualunque spinta al cambiamento. C’è chi lavora per indebolire il sentimento di giustizia nelle parti sane della società civile. Le persone per bene troveranno in questo giornale non solo il fronte di resistenza, ma la speranza della controffensiva fino all’ultima goccia di inchiostro. A quei settori della politica e delle istituzioni, della società civile e della cultura, che ancora onorano la Basilicata, lanciamo un appello: non siate indifferenti.
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