Arriva Trump: l’Europa è pronta? 

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L’arrivo di Trump alla Casa Bianca preannuncia forti conseguenze per l’Europa. È un film già visto: com’è accaduto nel corso del primo mandato, otto anni fa, tutto fa pensare che saremo più soli. Trump intende rimettere in discussione gli equilibri all’interno dell’alleanza atlantica (incardinata nella NATO), ha annunciato ancor meno sostegno americano all’Ucraina, e vuole riequilibrare il deficit commerciale degli Stati Uniti. 

Anche a causa dell’approccio “transazionale” e bilaterale del nuovo presidente, la sua entrata in carica promette conseguenze che potrebbero essere molto diverse a seconda dei paesi europei. Con questo speciale proviamo a fare chiarezza su entrambi gli aspetti: sia sugli effetti che la presidenza Trump potrebbe avere sull’intera Europa, sia sugli specifici riflessi che questa potrebbe avere su alcuni paesi europei (e sull’Italia in particolare). 

Tutti i paesi europei, anche quelli ideologicamente più vicini a Trump e alla sua amministrazione, rischiano qualcosa dalla sua entrata in carica. Qui sopra abbiamo tracciato uno schematico riassunto di dove ciascun paese si posiziona rispetto alle richieste o agli obiettivi dichiarati di Trump. Il caveat, naturalmente, è che fermiamo l’orologio al momento presente: per esempio, prendendo in considerazione la vicinanza politica, è naturale che le azioni dei leader ed eventuali cambi di governo possano influirvi anche profondamente. 

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Dalla tabella salta subito all’occhio la posizione della Germania: un paese che quest’anno arriverà a malapena a spendere il 2% per la difesa, ma contrario a nuovi dazi alla Cina e con un attivo di bilancia commerciale nei confronti degli Stati Uniti che nel mondo è superato soltanto proprio da Pechino. E se è vero che Berlino non è certo Varsavia, si tratta pur sempre di un paese che ha preso posizioni nettamente pro-Ucraina (diversamente da gran parte dell’entourage di Trump) e il cui attuale governo è politicamente molto distante dal neopresidente americano (anche se le elezioni di fine febbraio sono ormai vicine). 

All’altro estremo troviamo l’Ungheria e il Regno Unito, che per ragioni profondamente diverse – l’Ungheria di Orban perché più allineata politicamente, Londra perché già soddisfa molti dei desiderata dell’amministrazione USA entrante – sembrano avere un vantaggio rispetto agli altri paesi europei. Naturalmente, come si è visto nelle ultime settimane, qui peserà l’enfasi che la Casa Bianca porrà sullo scontro politico nei confronti di partner non allineati: si veda il sostegno esplicito e forte all’opposizione nazionalista ed euroscettica di Reform UK dichiarato da alcuni alleati di Trump, in primis Elon Musk. 

Nel mezzo si situa probabilmente la Francia di Macron: nemico degli “amici” politici di Trump, il presidente francese può tuttavia vantare dei risultati quasi soddisfacenti su commercio e difesa, così come una posizione dura nei confronti di Pechino che incontrerà sicuramente i favori di Washington. 


E l’Italia? Potrebbe stupire, forse, viste le ottime relazioni tra la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e Donald Trump, ma Roma non è al riparo dalla critiche degli USA. Anzi: a causa del forte surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti e delle basse spese per la difesa, in un’ipotetica lista di paesi verso cui Trump potrebbe concentrare le proprie attenzioni c’è certamente anche l’Italia. Anche qui, come nel caso opposto del Regno Unito, si tratterà di capire se prevarranno gli elementi di vicinanza politica e personale o le posizioni e gli impegni assunti.


1. BILANCIA COMMERCIALE

Come nel 2017, e a dispetto delle opinioni di molti economisti e organizzazioni internazionali che mettono in guardia contro azioni da vera e propria guerra commerciale, sembra che Trump consideri ancora cruciale il riequilibrio della bilancia commerciale americana. Bilancia commerciale che è oggi in profondo rosso (per oltre 1.100 miliardi di dollari l’anno) e che è addirittura nettamente peggiorata rispetto alla posizione che faceva registrare all’inizio del primo mandato Trump nel 2017 (circa 500 miliardi di dollari di passivo). 

Di questi 1.100 miliardi di deficit, circa 230 sono “responsabilità” dei paesi dell’Unione europea, non lontani dai 290 miliardi “causati” dalla Cina. Per questo motivo, i paesi europei con il maggior surplus commerciale verso gli Stati Uniti saranno quasi certamente anche quelli verso cui Trump riserverà le maggiori critiche. 

Guardando agli ultimi tre anni, in testa a questa classifica c’è il “solito sospetto”: la Germania, un grande esportatore con 80 miliardi di euro di avanzo commerciale. Segue una sorpresa: l’Irlanda, con un surplus generato soprattutto dalle esportazioni del settore biomedicale e del chimico. 

All’estremo opposto troviamo i Paesi Bassi, il Regno Unito e la Spagna, che hanno addirittura un deficit commerciale con gli Stati Uniti e non potranno dunque finire nel mirino dell’amministrazione Trump. Interessante il ruolo dei Paesi Bassi, che grazie alla presenza di grandi porti come quello di Rotterdam è in realtà un hub di importazioni e ri-esportazioni verso altri paesi UE. Un ottimo modo per sfuggire alle ire del neopresidente americano.

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E l’Italia? In questa classifica, pur piuttosto lontana dalla prima posizione tedesca in valore assoluto, l’Italia è terza con un surplus commerciale di 43 miliardi di euro. Ciò espone il nostro paese a un doppio rischio. Da un lato, ciò non potrà che attirare l’attenzione della Casa Bianca. Inoltre, se si guarda al peso delle nostre esportazioni verso gli Stati Uniti sul PIL è possibile stimare che un dazio aggiuntivo del 10% verso tutto il mondo, e uno del 60% sulla Cina, avrebbero sull’Italia un effetto di contrazione economica molto simile a quello che avrebbero sulla Germania. Certo, a perderci di più sarebbe non solo la Cina (destinataria appunto del dazio del 60%), ma anche gli stessi Stati Uniti, con una perdita di crescita nel breve periodo vicina allo 0,8% del PIL. 


2. SPESE PER LA DIFESA

Come otto anni fa, anche il dibattito sulle spese per la difesa rischia di creare forti frizioni tra la Casa Bianca e l’Europa. Trump incarna quelle che da quando esiste la NATO sono state le rimostranze statunitensi nei confronti di alleati europei troppo “tirchi”, che approfittano del sostegno militare (e dell’ombrello nucleare) fornito dagli americani per non farsi carico delle spese necessarie a garantirsi la propria sicurezza in maniera autonoma. 

Rispetto a otto anni fa, però, la situazione sul continente europeo è radicalmente diversa. A seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, il numero di paesi europei che aveva raggiunto l’obiettivo minimo NATO di spendere almeno il 2% del PIL in spese militari è passato da 7 nel 2022 a 23 l’anno appena trascorso. 

Trump sembra tuttavia voler alzare l’asticella, e nel tempo ha indicato un obiettivo del 3% del PIL o addirittura, di recente, la non credibile richiesta di salire al 5% (per confronto, la stessa spesa USA in difesa non supera il 3,4% del PIL).    


E l’Italia? In questo contesto, i paesi NATO europei che non arrivano a spendere neppure il 2% del loro PIL in difesa includono proprio l’Italia, assieme a Spagna, Belgio, Slovenia e Lussemburgo. Addirittura, il nostro paese nel 2024 avrà speso circa l’1,5% del suo PIL in difesa, non spende almeno il 2% dal 1989, e per trovare una spesa del 3% bisogna tornare indietro nel tempo addirittura alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Non solo: per raggiungere oggi l’obiettivo del 2%, l’Italia dovrebbe trovare altri 11 miliardi di euro nel bilancio dello Stato, e se per quello del 3% di miliardi ne servirebbero ben 32, ovvero il doppio di quello che spendiamo attualmente, e per raggiungere il 5% si dovrebbero trovare addirittura 74 miliardi di euro. Per confronto, si pensi che l’Italia spende in istruzione circa 80 miliardi di euro l’anno, ovvero il 4,2% del PIL. 


3. SOSTEGNO ALL’UCRAINA

Il tema delle spese militari è strettamente collegato a quello degli aiuti all’Ucraina, che da quasi tre anni resiste all’invasione russa. Nel corso del primo anno di guerra, alleati europei e Stati Uniti si sono fatti carico di fornire aiuti all’Ucraina su livelli molto simili, e che pro capite erano nettamente superiori da parte americana (130 euro a testa per cittadino americano, contro circa 105 euro per cittadino europeo). 

Già nel corso del 2023 e 2024, però, il sostegno statunitense all’Ucraina è andato progressivamente riducendosi, soprattutto a causa delle resistenze del Congresso americano, tanto che nell’ultimo anno gli aiuti USA si sono più che dimezzati (21 miliardi), e la cifra sarebbe stata ancora più bassa se non si fosse raggiunto un accordo in sede G7 per coprire i costi di nuovi prestiti all’Ucraina attraverso i proventi generati dai fondi russi congelati. 

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Sul 2025, i fondi già stanziati e in arrivo dovrebbero ammontare a circa 15 miliardi di euro. Dal momento che Trump ha promesso di risolvere rapidamente il conflitto ucraino (anche se ha spostato la deadline, da 24 ore dalla sua entrata in carica ad almeno 6 mesi…) e che si è sempre professato scettico sugli aiuti, è difficile immaginare nuovi impegni di spesa americani. 

Così l’Europa si ritrova quasi sola a sostenere i costi finanziari della guerra. Cosa che però neppure i governi europei sembrano essere pronti a fare, visti i cambi di governo e la progressiva stanchezza che si registra tra le classi politiche e le opinioni pubbliche continentali. 


E l’Italia? Dall’inizio del conflitto, l’Italia ha contribuito con meno di 2,5 miliardi di euro. Una cifra che è la metà di quanto messo dalla Francia (5 miliardi) e più di sei volte meno dei contributi della Germania (16 miliardi). Rispetto al PIL del paese, significa che l’Italia è il diciottesimo paese sui 27 dell’Unione europea quanto a contributi, e la sua posizione peggiorerebbe ulteriormente se non fosse per il contributo pro quota che proviene direttamente dal bilancio dell’UE (scenderemmo al ventesimo posto). Naturalmente l’Italia è però stata un saldo alleato politico di Kiev dall’inizio dell’invasione a oggi, sia nel corso del governo Draghi, sia durante i successivi due anni di governo Meloni. 


4. RELAZIONI CON LA CINA

Oggi come otto anni fa, arginare la concorrenza commerciale (a tratti “sleale”) della Cina è un punto cruciale per Trump. Per mesi nel corso della campagna elettorale il presidente ha infatti annunciato un importante aumento dei dazi nei confronti di Pechino, parlando più volte di un livello di dazi aggiuntivi del 60% (da confrontare con il 10% di dazi in più che vorrebbe applicare al resto del mondo).  

L’Unione europea teoricamente dovrebbe essere allineata, almeno negli obiettivi, con il nuovo presidente americano, tanto che lo scorso ottobre ha approvato in via definitiva dazi sulle auto elettriche importate dalla Cina. Ma proprio in quella occasione tra i paesi europei sono apparse chiare fratture tra chi approva e chi contesta la decisione sui dazi. Francia e Polonia sono state tra le più forti sostenitrici di dazi contro Pechino, mentre Germania e Ungheria si sono schierate contro. Il motivo è duplice. Innanzitutto, il mercato cinese oggi vale ancora molto per parecchie economie europee, Germania in testa, e ogni decisione presa “contro” Pechino rischia di causare ritorsioni piuttosto care per un continente che fatica a crescere e il cui settore industriale è in sofferenza. Inoltre, qualsiasi azione contraria agli interessi commerciali di Pechino mette anche a repentaglio futuri investimenti cinesi in Europa, una minaccia ventilata informalmente dal governo cinese e poi effettivamente già messa in atto nelle decisioni di investimento in Europa da parte di diverse aziende cinesi. 


E l’Italia? Nel dicembre 2023, l’Italia è uscita formalmente dalla Belt and Road Initiative, quella “Via della seta” cinese per la quale nel 2019 aveva siglato un controverso memorandum of understanding con Pechino. Lo scorso ottobre, poi, Roma ha votato a favore dell’imposizione dei dazi contro Pechino. Entrambe le decisioni avvicinano l’Italia alle posizioni (e alle probabili nuove richieste) di Washington. Al contempo, però, la scelta italiana di schierarsi a favore dei dazi contro Pechino espone Roma alla ostilità cinese, come si è visto con l’immediata decisione di Dongfeng, azienda produttrice di automobili, che a fine ottobre ha sospeso i piani di ingresso in Italia.

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5. ENERGIA

Arriviamo qui finalmente a una questione in cui Stati Uniti ed Europa, malgrado le minacce di Trump, sono fortemente allineati. Nel corso della campagna elettorale e poi più volte dalla sua elezione, Trump ha sostenuto che l’UE dovrebbe comprare più petrolio e gas naturale dagli Stati Uniti. Tralasciamo la questione del petrolio: materia prima “liquida” per eccellenza, per il petrolio non conta tanto chi lo acquista nel mondo, ma quanto se ne acquisti e a che prezzo. 

Sul gas naturale, invece, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, le importazioni di gas naturale liquefatto (GNL) americano da parte dei paesi UE sono quasi triplicate in volume, portando gli USA a diventare i primi fornitori di gas per il continente europeo. Siccome, nel frattempo, il prezzo del gas naturale è anche aumentato, ciò significa che negli ultimi tre anni l’UE ha acquistato GNL statunitense per 89 miliardi di euro, un valore circa 8 volte superiore rispetto agli 11 miliardi dei tre anni pre-invasione. Insomma, almeno sul GNL sembra esserci convergenza tra Europa e Trump; anzi, come già sottolineato dalla presidente della Commissione europea von der Leyen il gas potrebbe diventare lo strumento per “addolcire” il neopresidente.


E l’Italia? Quello del GNL americano è un argomento che si deve affrontare sul piano continentale, dal momento che qualsiasi sia il posto d’ingresso in Europa del gas americano, quest’ultimo “libera” le forniture provenienti da altri paesi, e perché il punto d’ingresso in Europa non è necessariamente il punto di consumo di quel gas. In ogni caso, nel 2023 l’Italia ha importato 5,3 miliardi di metri cubi di GNL dagli Stati Uniti, portando gli USA a secondo fornitore di GNL appena dietro al Qatar (6,7 miliardi). 


Le altre incognite 

  • Israele / Hamas. Trump inizia il suo mandato all’entrata in vigore di un accordo per cessate il fuoco tra Israele e Hamas che potrebbe essere fragile, e che la Casa Bianca dovrà difendere. Non c’è dubbio che, in linea di principio, su questo Trump sia allineato con i paesi europei, e che abbia bisogno di una cessazione delle ostilità a Gaza per poter rilanciare i suoi accordi di Abramo (in particolare per cercare un accordo storico tra Israele e Arabia Saudita). Tuttavia, non è affatto chiaro quali “linee rosse” l’amministrazione Trump potrebbe ritenere superate in caso di ripresa delle ostilità o di provocazioni da parte di una delle due parti. Più in generale, gli Stati Uniti di Trump appaiono più uniti nel loro sostegno a Israele, mentre l’Europa è profondamente divisa tra paesi che nel corso dell’ultimo anno e mezzo hanno riconosciuto lo Stato palestinese (Spagna e Irlanda) e altri governi che invece hanno continuato a sostenere Israele (Germania, Austria, Ungheria). 
  • Medio Oriente. La visione generale sul Medio Oriente della Casa Bianca non è ancora chiara, ma si può supporre che Trump tornerà alla politica di “massima pressione” contro l’Iran (inasprimento delle sanzioni, maggiore libertà di movimento a Israele per azioni militari verso il territorio iraniano), e che tenterà di proseguire il dialogo con i paesi arabi. Anche con questi ultimi, tuttavia, la preferenza esplicita di Trump per politiche di forte espansione della produzione di petrolio e gas statunitense (“Drill, baby, drill!”) si scontrerà con l’esigenza di molti paesi esportatori della regione mediorientale, che hanno bisogno di prezzi più alti di quelli odierni. Non ci sono tuttavia molti dubbi sul fatto che i paesi della regione continueranno a ritenere gli Stati Uniti un interlocutore più rilevante rispetto a quelli europei nelle questioni di sicurezza. 
  • Organizzazioni internazionali. Qui Trump ha posizioni praticamente opposte a quelle della stragrande maggioranza dei paesi europei. Ha più volte espresso la volontà di tagliare i fondi all’Onu e a molte delle sue agenzie (come l’UNRWA, l’agenzia per i profughi palestinesi) e istituti specializzati (come l’Organizzazione mondiale della sanità), e lo ha già fatto nel 2017, appena iniziato il suo primo mandato. Naturalmente, poi, un presidente che vuole imporre dazi generalizzati si scontrerà in maniera frontale con l’Organizzazione mondiale del commercio, già in parte bloccata da oltre un decennio nell’esercizio delle sue funzioni a causa dell’inazione statunitense. Insomma: un presidente americano “bilaterale” si scontrerà per forza di cose contro un’Europa che, almeno formalmente, continua a sostenere la necessità del dialogo e del multilateralismo. 
  • Clima. Negli ultimi tre decenni, pur con maggior lentezza e diffidenza, gli Stati Uniti hanno seguito l’Europa lungo la strada della decarbonizzazione. Come fu nel 2017, Trump sarà invece un presidente di rottura e lascerà sicuramente l’Europa sola sui tavoli climatici. Mentre nel corso del primo mandato gli Stati Uniti non poterono uscire dagli accordi di Parigi prima del 2020, perché gli accordi prevedevano un periodo di tre anni di attesa dall’entrata in vigore prima di poter avviare le pratiche di recesso, oggi Trump potrà farlo sin da subito. E c’è la concreta possibilità che non lasci solo quegli accordi, ma l’intera Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, UNFCCC, che dal 1992 regola i negoziati sul clima. In un contesto in cui già oggi  



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