Democrazia in pericolo: Harvard ‘chiama’ Aristotele

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Il 18 marzo 1968, in occasione della sua candidatura alle elezioni presidenziali americane, Bob Kennedy tiene un discorso memorabile all’università del Kansas. A un certo punto dichiara: “Anche se c’impegniamo per cancellare la povertà materiale, abbiamo di fronte un altro compito ancora più grande, ed è quello di occuparci della povertà di soddisfazione – negli scopi e nella dignità – da cui siamo afflitti. Con troppa insistenza e troppo a lungo sembra che abbiamo rinunciato alla eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulare cose materiali”. A distanza di poco più di mezzo secolo, la tensione morale e civica di quel discorso, il perspicace esame in esso compiuto delle conseguenze civiche della politica economica, può essere particolarmente illuminante per descrivere e comprendere le ragioni profonde del malessere che attanaglia l’attuale società democratica americana, culminato nel drammatico assalto a Capitol Hill, ma anche le democrazie europee, su cui si allunga l’ombra di un’estrema destra autoritaria, xenofoba e razzista in ascesa. Se le democrazie nascenti avevano democratizzato l’aspirazione all’affermazione di sé e all’emancipazione, le democrazie mature sembrano democratizzare proprio l’insoddisfazione.

Negli ultimi vent’anni, l’insoddisfazione si è trasformata in scontento diffuso, rabbia, frustrazione, risentimento. È così diventata sempre più corrosiva, rendendo la politica rancorosa e polarizzata e alimentando una reazione populista alla globalizzazione guidata da un capitalismo rentier e finanziario che, paradossalmente, premia elettoralmente esponenti di quel capitalismo (emblematica la recente vittoria della “coppia” Trump-Musk), o, comunque, leader di destra, che non mettono in discussione i principi economici dell’egemonia neoliberista dilagata dopo il crollo del Muro di Berlino, ma offrono una compensazione immaginaria e più o meno fantasmatica al senso di impotenza e alle sofferenze sociali col recupero di valori tradizionali: lavoro, famiglia, patria, nativismo, purezza etnica, sacralizzazione dei confini nazionali.

Ebbene, se si vuole indagare più a fondo e anche sperare di smascherare questo paradosso, per tentare di bonificare la palude dello scontento generalizzato e rivitalizzare la fiducia nelle istituzioni democratiche, bisognerebbe osare un discorso pubblico nuovo, capace di riportare la politica ai compiti civici più alti evocati da Kennedy. Compiti che rimettono in campo un concetto diverso di libertà, di giustizia, del rapporto tra economia e società e della stessa coesistenza tra democrazia e capitalismo. Questi compiti si collegano idealmente a un filone civico-repubblicano della tradizione liberale e democratica americana (Jefferson e Madison), che è cominciata ad appannarsi già nei primi decenni successivi alla seconda guerra mondiale, ma che ha la sua matrice filosofica originaria nell’idea aristotelica che la politica e il dibattito pubblico sulla giustizia non possano cedere alla sfera privata la discussione sulla “vita buona” e sul significato dei beni che vengono distribuiti in una società. Il che implica che la principale preoccupazione di una politica democratica debba essere quella di equipaggiare le persone delle capacità morali e civiche necessarie per partecipare a tali discussioni, ovvero alla vita comune della cittadinanza.

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È questa la prospettiva dentro la quale si articolano la diagnosi, la prognosi e le proposte di intervento, relative alla crisi odierna della democrazia, messe a punto dal noto filosofo politico americano Michael Sandel, docente all’università di Harvard, nel libro La democrazia stanca. Nuovi pericoli e possibili soluzioni per tempi difficili, già edito negli USA nel 1996 e riproposto in una nuova edizione aggiornata nel 2022, appena uscita in versione italiana su iniziativa dell’editore Feltrinelli (il titolo originale del libro è Democracy’s Discontent).

Innanzitutto, per andare alle radici del “malcontento” che oggi mette in pericolo la democrazia americana, e non solo, e che costituisce il “brodo di coltura” del successo politico fulmineo di leaders o tycoons populisti o di partiti di estrema destra, bisogna risalire a quanto è accaduto negli ultimi tre-quattro decenni. Si tratta degli anni in cui tutti i partiti si sono piegati al rispetto dell’agenda neoliberale della deregolamentazione e delle privatizzazioni e agli imperativi della globalizzazione guidata dalla fede assoluta nei benefici del mercato e dalla finanziarizzazione dell’economia (Sandel analizza in dettaglio come lo abbiano fatto anche le amministrazioni Clinton e Obama, sovente in contraddizione con i programmi elettorali). Le ampie diseguaglianze di reddito e di ricchezza prodotte da questi processi e da queste politiche hanno avuto conseguenze civiche corrosive, producendo, da un lato, un crescente senso di perdita di potere e di mancanza di incidenza della propria voce negli affari pubblici, dall’altro lato, una divisione sociale tra “vincitori” e “perdenti”, dove la frustrazione dei secondi è aumentata non solo per i divari di benessere e di consumo, ma anche per il senso di umiliazione provocato dalla tracotanza della retorica meritocratica dei primi, che hanno inteso legare il loro successo al risultato personale e non tanto alle fortune del mercato e delle agevolazioni politiche e, conseguentemente, l’insuccesso degli altri al loro demerito personale e alla loro scarsa istruzione.

Già nel turno elettorale del 2016, a sorpresa, l’outsider Trump riesce a sfruttare la rabbia legata a queste rimostranze legittime e rivolta contro le élites, viste come sprezzanti nei confronti delle classi lavoratrici e non riconoscenti del contributo dato alla comunità da altre categorie di lavoratori non qualificate. Ed è abile nell’amplificarla e canalizzarla, fomentando la ricerca di capri espiatori e sentimenti di odio contro immigrati, femministe, intellettuali, LGBT. Ma questi sentimenti si sono potuti espandere perché hanno riempito il vuoto lasciato dal discorso pubblico dominante, rideclinato per decenni sia dai democratici sia dai repubblicani mainstream e imperniato sulla nozione consumistica di libertà. E, qui, si coglie il tratto più originale della diagnosi del filosofo americano.

Passando in rassegna la storia politica americana, dalla conquista dell’indipendenza a oggi, infatti, Sandel rinviene il confronto e la rivalità tra due concezioni della libertà, che hanno permeato, anche inconsciamente, la prassi politica e la rappresentazione della vita pubblica: la libertà “liberale” e la libertà “repubblicana”. La prima di ascendenza kantiano-rawlsiana, la seconda di ascendenza aristotelica. Secondo la prima concezione, siamo liberi nella misura in cui siamo messi in condizione di scegliere i nostri scopi e perseguire i nostri interessi senza impedimenti da parte di altri e poiché, in una società pluralista, le persone non sono d’accordo sul modo migliore di vivere, il governo dovrebbe restare neutrale nei confronti dei punti di vista morali e religiosi e delle preferenze individuali, senza pretendere di promuovere alcuna concezione particolare della vita buona o delle virtù. Questa idea di neutralità liberale favorisce facilmente l’identificazione di un sé libero e indipendente nella scelta di valori e fini con quella del libero consumatore, che agisce in vista della soddisfazione dei propri interessi, gusti e desideri, compatibilmente con la libertà simile degli altri. Come precisa l’autore del libro, “la propensione alla neutralità piega il liberalismo verso la fede nel mercato. L’attrattiva più forte dei mercati non sta nel fatto che essi forniscono efficienza e prosperità, ma nel fatto che sembrano risparmiarci la necessità di dibattiti intricati e conflittuali su come valutare i beni”. Ma si tratta, alla fin fine, di una falsa promessa, perché bandire le questioni moralmente controverse dal dibattito pubblico e dall’agenda politica non serve a scongiurare decisioni su di esse, ma significa surrettiziamente delegarle ai mercati, diretti dai ricchi e dai potenti.

La preminenza di questa versione della libertà ne ha fatto eclissare un’altra, tuttavia presente nella tradizione politica americana. Secondo la concezione civica e repubblicana della libertà, invece, essere liberi significa avere voce in capitolo nel plasmare le forze che governano le nostre vite e destini collettivi, condividere l’autogoverno, essere in grado di deliberare con altri cittadini su propositi e scopi comuni. Quindi, per essere liberi in questo senso, non è sufficiente poter agire in accordo con i propri interessi e le proprie preferenze, è altresì necessario che i cittadini abbiano certe qualità di carattere o certe virtù civiche. Partecipare al meglio alla deliberazione sul bene comune e al dibattito sulla società giusta, richiede una conoscenza degli affari pubblici e pure un senso di appartenenza, una sollecitudine verso l’interesse generale, un legame morale con la comunità il cui destino è in gioco. Pertanto, la vita pubblica o il governo non possono essere neutrali e indifferenti rispetto ai valori e ai fini a cui aderiscono i cittadini. Inevitabilmente si configurano come l’arena per la discussione sulla vita buona e giusta e sono chiamati a garantire una formazione che coltivi nei cittadini le qualità caratteriali che l’autogoverno richiede.

Secondo la tesi fondamentale di Michael Sandel, dunque, l’egemonia del neoliberalismo e dei dogmi del globalismo liberista degli ultimi decenni si è potuta attecchire su un terreno già “arato” dal paradigma della libertà “liberale”, che, soprattutto, dagli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso ha rappresentato il credo comune di progressisti e conservatori. Non a caso, le due versioni della libertà rinviano anche a due concezioni significativamente differenti della funzione dell’economia nella comunità politica e a due modi di valutare le conseguenze delle politiche economiche: l’una fa capo a una economia politica della crescita o dell’equità distributiva, attente al ruolo, al potere e all’estensione della platea dei consumatori, l’altra a una “economia politica della cittadinanza”, attenta a considerare le compatibilità degli assetti economici con le necessità dell’autogoverno.

Come precisa l’autore: “I nostri dibattiti sulla politica economica riguardano per gran parte la crescita economica e, in misura minore, la giustizia distributiva. Discutiamo su come aumentare le dimensioni della torta e su come distribuire le fette. Ma questo è un modo troppo riduttivo di pensare all’economia. Presuppone erroneamente che lo scopo di un’economia sia massimizzare il benessere dei consumatori. Ma noi non siamo soltanto consumatori, siamo anche cittadini di una democrazia. In quanto cittadini, abbiamo interesse a creare un’economia ospitale per il progetto di autogoverno. Ciò significa che il potere deve essere soggetto a un controllo democratico. Comporta inoltre che tutti siano in grado di guadagnarsi da vivere decentemente in condizioni dignitose, che abbiano voce in capitolo sul posto di lavoro e negli affari pubblici, e che abbiano accesso a un’educazione civica ampiamente diffusa che li prepari per deliberare sul bene comune”.

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In conclusione, la crisi profonda delle nostre democrazie ha a che a fare con il predominio quasi incontrastato, già a partire dalla fine del secolo scorso, della filosofia pubblica prevalente che il filone “liberale” della libertà ha generato e codificato. Per Sandel, lo “scontento della democrazia” e il senso frustrante di non avere voce in capitolo, diffuso tra la gente, riflettono il declino della concezione civico-repubblicana della libertà e il disimpegno crescente delle istituzioni e della società civile a promuoverla. Da qui, la necessità di trovare vie per rivivificare e ridefinire questo filone civico della libertà, essenziale alla salute e alla fioritura della democrazia. Tanto più urgente, nella misura in cui il dibattito sul bene comune dovrà includere ormai problemi di portata globale, come il cambiamento climatico, lo strapotere economico delle big companies o la regolamentazione etica delle nuove tecnologie come l’AI, e svolgersi nell’ambito di istituzioni sovranazionali il cui funzionamento non potrà non dipendere da livelli più ampi di solidarietà e di responsabilità civiche.

Per troppo tempo, riducendo i cittadini a consumatori, abbiamo finito per pensare, anche inconsapevolmente, che la democrazia possa essere la prosecuzione dell’economia con altri mezzi. Ma la democrazia non è solo un modo di aggregare e bilanciare le preferenze degli individui. È soprattutto e prima di tutto la pratica virtuosa orientata a deliberare sulla giustizia e sul bene comune. Aristotele (Sandel) docet.



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