Pensioni, cosa cambia nel 2025 con la perequazione

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Ai sensi del D.M. congiunto Economia-Lavoro del 15/11/2024 (G.U., Serie generale n. 278 del 27/11/2024) , è stato stabilito, visto l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, senza tabacchi, registrato dall’ Istat nei primi 9 mesi 2024 e sulla stima ottimistica (cioè inflazione prossima a zero) degli ultimi 3 mesi, l’indice di rivalutazione provvisoria dello + 0,8 % per le pensioni 2025, a valere dal 1° gennaio 2025, salvo conguaglio (positivo, verosimilmente) da stabilire a fine anno 2025.

Lo stesso Decreto ha altresì confermato al + 5,4 % l’indice di adeguamento all’inflazione applicato nel 2024 (sulla base dell’inflazione certificata dall’Istat nel 2023), quindi non saranno dovuti conguagli sugli importi già incassati dai pensionati nel corso dell’ultimo anno, appunto il 2024.

Qui di seguito vengono riportati gli indici di svalutazione (provvisori e definitivi) e di rivalutazione degli ultimi 19 anni.

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Per effetto dell’anzidetto D.M., oltre che delle disposizioni dell’ultima legge di bilancio (legge 30/12/2024, n.207, su Suppl. ord. n. 43 alla G.U. Serie generale n. 305 del 31/12/2024) , nel 2025 il trattamento minimo INPS passa da 598,61 €/mese a 603,40 €/mese; il valore dell’assegno sociale da 534,41 €/mese a 538,69 €/mese; la pensione sociale passa da 439,57 €/mese a 443,08 €/mese.

Per le pensioni pari o inferiori al minimo INPS si applica nel 2025 un incremento ulteriore di 2,2%, oltre al + 0,8%, portando il minimo in pagamento fino a  616,67 € ( L. 207/2024, art.1, c.177). L’incremento del 2,7% nel 2024 e del 2,2% nel 2025 non sono infatti interventi strutturali e permanenti, ma entrambi una tantum, che non intaccano pertanto il minimo INPS standard e le sue dinamiche.

Per fortuna (e speriamo in modo definitivo) si ritorna nel 2025 alla rivalutazione a scaglioni rispetto ai diversi importi dei vari segmenti di una stessa pensione, cioè recupero del 100 % indice Istat (= + 0,8 % anzidetto) per gli importi fino a 4 volte il minimo INPS, recupero del 90% dell’indice (= + 0,72%) per gli importi tra 4 e 5 volte il minimo e recupero del 75%  (= + 0,60%) per gli import restanti oltre le 5 volte il minimo.

Si sono quindi abbandonati gli ingiusti criteri introdotti dal Governo Letta con legge 147/2013, secondo cui la rivalutazione avveniva, dal 2014, ( con l’eccezione  del 2022, in forza della legge di bilancio 234/2021 del Governo Draghi,  sulla falsariga della legge 388/2000) secondo una unica percentuale, decrescente rispetto al valore complessivo dell’assegno e sull’intera misura di una singola pensione, senza alcuna fascia di garanzia rivalutativa vera almeno per una quota parte dell’assegno pensionistico, criteri certamente anti-costituzionali (come affermato anche dalla Corte dei Conti della Regione Toscana), che hanno portato nel 2023 e nel 2024 al ridicolo recupero, per le pensioni oltre 10 volte il minimo INPS, rispettivamente del 32% (= + 2,592%) e del 22% (= + 1,188%) rispetto all’indice inflattivo del + 8,1% e del +  5,4%.

Quindi, ai sensi della L. 207/2024, art. 1, c.180 e della legge 160/2019, art.1, c. 478, dal 2025 le nostre pensioni avranno il seguente sviluppo, anche se mancano ancora i dati ufficiali INPS, sulla base dei diversi importi  dell’ assegno pensionistico stesso ( partendo naturalmente dal minimo INPS 2024 di 598,61 €):

  • fino a 4 volte minimo INPS 2024 ( cioè 2.394,44 €) + 100%   indice ISTAT =  + 0,80 % di aumento;
  • da 4 a 5 volte minimo ( da 2.394,45 a 2.933,05 €)     +   90%   indice ISTAT =  + 0,72 % di aumento;
  • oltre 5 volte il minimo (da 2.933,46 € in poi) +   75%   indice ISTAT  =  + 0,60 % di aumento.

Secondo il Prof Alberto Brambilla, quindi, una pensione pari a 8 volte il minimo INPS verrà rivalutata al 100% fino a 4 volte il minimo, al 90% tra 4 e 5 volte e per il restante al 75%. Se così fosse stato nel 2023 e 2024 i pensionati oltre 6 volte il minimo (3.300€ lordi mensili,2.300€ netti) non avrebbero perso circa il 10% di potere di acquisto :quando si dice il merito! (Brambilla)

Dopo i tagli ai meccanismi di rivalutazione delle pensioni medio-alte, intervenuti pressoché continuativamente dal 2008 al 2024, con l’eccezione degli anni 2009, 2010 e 2022, possiamo dire che le pensioni dei dirigenti  hanno perso, negli ultimi 17 anni, almeno il 30 – 35% del loro valore reale (e di più hanno perso quanti hanno dovuto subire anche l’esproprio del “contributo di solidarietà”).

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Si tratta di una tassazione sotto mentite spoglie, nonostante che la categoria fiscale cui apparteniamo (mediamente oltre 50.000 – 55.000 € lordi/anno di reddito), per intenderci oltre 8 volte il minimo INPS,  rappresenti quasi il 5% di tutti i potenziali contribuenti italiani e sostenga già quasi il 40% del gettito IRPEF totale del Paese (rapporto 1 : 8 ).

Inoltre questa tassazione impropria, che rappresenta però una vera “patrimoniale” sulle pensioni medio-alte, non possiede neppure i requisiti richiesti al prelievo tributario legittimo (art. 53 della Costituzione), vale a dire la generalità del prelievo e la proporzionalità dello stesso: si distribuiscono infatti contemporaneamente penalizzazioni o favori, vale la legge del tutto o del nulla.

Che ne è del principio, più volte ribadito dalla Consulta, secondo cui la pensione non è che retribuzione differita e che la retribuzione esige proporzionalità tra quantità e qualità del lavoro svolto?

La gravità dei tagli anzidetti sta nel fatto che si tratta di danni strutturali, permanenti e crescenti alle pensioni medio-alte, infatti l’effetto si cumula nel tempo, visto che anche le indicizzazioni future saranno applicate ad importi ridotti, specie quando i tagli sono ripetuti nel tempo, quasi abitualmente e con accanimento, nonostante i ripetuti ammonimenti della Corte Costituzionale  a Governo e Parlamento a non perseverare.

Speriamo almeno che la Corte Costituzionale si esprima prossimamente con una pronuncia in merito alla indicizzazione delle pensioni medio-alte, riconoscendo le argomentazioni, rispettose della lettera e dello spirito della nostra Carta, contenute nella Ordinanza n. 33/2024 della Corte dei Conti della Regione Toscana: sincerità e giustizia impongono di non far più “finta di non vedere”.

Gli unici pensionati sempre tutelati dall’inflazione ufficialmente riconosciuta sono stati, invece, solo i titolari di assegni fino a 3 volte il minimo INPS (fino a 4 volte il minimo, dal 2020).

Le Istituzioni possono certo mirare all’aumento delle pensioni minime, che però sono quelle con inadeguate storie lavorative e/o basi contributive, ma le risorse devono derivare dalla fiscalità generale e non dai tagli delle indicizzazioni delle pensioni medio-alte, essendo assistenza e previdenza realtà ben distinte.

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Anche senza le penalizzazioni anzidette, la perequazione automatica delle pensioni non raggiunge mai il pieno ristoro dall’inflazione per almeno i seguenti principali motivi: 1) perché il recupero interviene in tempi successivi rispetto al momento dell’insulto inflattivo; 2) perché il “paniere” ufficiale che pesa l’incremento del costo della vita per le famiglie di operai ed impiegati non è specifico per le persone anziane; 3) perché, anche in via ordinaria, la percentuale di rivalutazione è riconosciuta in misura progressivamente decrescente al crescere dell’importo della pensione goduta. Ma i criteri di cui alla legge 388/2000, ripresi dal Governo Draghi e dalla legge di bilancio 2025, garantiscono complessivamente almeno una rivalutazione attorno all’80%, per le pensioni medio-alte, rispetto all’inflazione accertata.

Le pensioni ENPAM non subiranno nel 2025 variazioni significative nella loro rivalutazione: + 75%  indice ISTAT  (= + 0,60 % di aumento) per gli importi fino a 4 volte il minimo INPS; +  50% ( = + 0,40 %) per gli importi da 4 volte il minimo INPS in su. In realtà l’ENPAM non segue i criteri INPS degli indici previsionali e definitivi di rivalutazione per cui l’adeguamento delle pensioni 2025 richiederà 4-5 mesi in più (con gli arretrati relativi ai mesi stessi), oltre che il parere dei Ministeri vigilanti, ma solitamente gli indici finiscono per allinearsi a quelli dell’INPS (come si è già stimato con la simulazione all’inizio di questo paragrafo).

Le pensioni di reversibilità ENPAM (aliquota 70%) non subiscono abbattimenti in base ai redditi del beneficiario superstite, mentre quelle INPS-ex INPDAP (aliquota ordinaria 60%) non subiscono tagli sulla base dei redditi del superstite avente titolo solo fino a 3 volte il minimo INPS ( 23.532,60 €/anno con tredicesima); vengono poi decurtate: del 25% per i redditi tra 3 e 4 volte il minimo INPS (oltre 23.532,60 e fino a 31.376,80 €/anno); del  40% per i redditi tra 4 e 5 volte il minimo INPS (oltre 31.376,80 e fino a 39.221,00 €/anno); del 50% per i redditi del beneficiario che superino le 5 volte il minimo INPS (oltre 39.221,00 €/anno, sempre con tredicesima).

In conclusione, le nostre pensioni potrebbero vivere sonni tranquilli se:

  • venissero tutte indicizzate annualmente all’inflazione, pensioni di reversibilità comprese, senza discriminazioni e/o ingiustizie, in coerenza con l’art. 38 della Costituzione;
  • non si abusasse sulla concessione degli anticipi pensionistici rispetto ai limiti di età e di contribuzione, salvo rari e documentati casi di necessità socio-familiari;
  • si evitassero i favori delle “decontribuzioni” in entrata (per promuovere le assunzioni) o in uscita  (per ritardare la pensione dei lavoratori in possesso dei requisiti) perché dannose all’istituzione previdenziale ed al suo equilibrio finanziario;
  • si separasse finalmente, nei bilanci INPS, la previdenza dall’assistenza, per evitare osmosi improprie tra risorse che devono rimanere distinte, visto che: già oggi 1 pensione su 5 é di tipo assistenziale; che l’assistenza è spesso inquinata da discrezionalità ed abusi politici; che su 347 mld. erogati dall’INPS nel 2023 solo 254 mld., circa, hanno alimentato prestazioni previdenziali;
  • ci si impegnasse, con risorse e servizi sociali, contro la denatalità e l’esodo dal nostro Paese di giovani già formati e qualificati, promuovendo altresì un “piano-casa” a favore delle giovani coppie, così da anticipare, oltre che l’entrata nel lavoro, anche la nascita del loro 1° figlio/a: i sistemi pensionistici tendenzialmente a ripartizione, se non tengono conto di questi equilibri, muoiono;
  • si combattesse l’evasione fiscale attraverso riforme vere che, accantonate le false soluzioni (rottamazioni, condoni, concordato preventivo biennale, flat tax, ecc.), ponessero fine ai seguenti scandali: su circa 45 mil. di potenziali contribuenti, il 45% circa non paga l’IRPEF; il 22% circa dichiara redditi che, al netto di detrazioni e deduzioni, azzerano l’imposta; invece il 15% circa (6,4 mil.), che dichiara oltre 35-40.000 € lordi/anno, paga il 63,4% dell’IRPEF totale. E che dire del lavoro autonomo e dei titolari di imprese artigiane, commerciali, agricole, o libero professionisti puri, che spesso dichiarano redditi inferiori a quelli dei propri dipendenti? (da “Itinerari Previdenziali”);
  • si abbandonassero le mode, su tutti i bonus elettoralistici (in particolare il più vergognoso: superbonus del 110%) perché incapaci di risolvere i problemi, ma capacissimi di dissestare il bilancio statale italiano, per concentrarsi invece sulle nostre vere ricchezze: l’ambiente (che non sappiamo proteggere), il lavoro (che va reso più sicuro e meglio remunerato), le acque (che non sappiamo gestire), il patrimonio storico-artistico (che non sappiamo promuovere e mantenere).

Su questi temi dovrebbe discutere e decidere questo Parlamento.

Decidere dei problemi reali degli italiani, lavoratori attivi o pensionati.

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Non lo si è fatto negli ultimi decenni: da ciò lo sfascio della “cosa pubblica” (istituzioni, regole, funzioni) e l’astensione dal voto di buona parte della maggioranza degli italiani…

Per fortuna CONFEDIR, FEDER.S.P.eV. e Aps-Leonida ci sono e rimangono in trincea col ceto medio, quello vero, che studia, lavora, paga tasse e contributi per ….. ricevere schiaffi.

Fino a quando?



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