Una nuova era della politica americana – Alessio Marchionna

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Più si avvicina la cerimonia di insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca (comincerà oggi quando in Italia saranno le 6 di pomeriggio), più emergono i segnali di un grande riallineamento conservatore nella politica e nella società. Segnali inequivocabili soprattutto se confrontati con tante cose che abbiamo visto succedere solo pochi anni fa.

Il più evidente riguarda lo spostamento delle grandi aziende tecnologiche. Sembra ieri quando gli imprenditori del settore venivano accusati di cavalcare in modo ipocrita l’indignazione contro il razzismo e le discriminazioni (di essere “woke”, come in questo monologo del comico Ricky Gervais alla cerimonia per la consegna dei Golden Globes nel gennaio 2020). All’epoca Trump e il trumpismo erano considerati tossici per gli affari. Oggi gli stessi imprenditori fanno di tutto per entrare nelle grazie del nuovo presidente, rivelando la forza della reazione politica e culturale che ha contribuito a riportare Trump alla Casa Bianca e che ha cambiato inevitabilmente le valutazioni economiche delle aziende.

Gli amministratori della Apple, della Microsoft, di Google, di Amazon e di altre aziende del settore hanno fatto donazioni per la cerimonia di insediamento, e molti di loro saranno a Washington domani. Tra tutti il più spregiudicato nel riavvicinamento al prossimo presidente è Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, che giorni fa, intervistato da Joe Rogan, ha detto che il mondo delle imprese ha perso la capacità di usare l’”energia maschile”, una frase che difficilmente sarebbe uscita dalla bocca di un grande capo d’azienda fino a poco tempo fa.

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Questo vuol dire che Trump potrà contare sul sostegno di un’alleanza di oligarchi in un momento in cui i contrappesi al suo potere sono sempre più deboli.

La stampa, prima di tutto. Nel febbraio del 2017, un mese dopo l’insediamento di Trump, il Washington Post, giornale di proprietà di Jeff Bezos, fondatore di Amazon, annunciava orgogliosamente il nuovo slogan che sarebbe comparso sotto la testata: la democrazia muore nelle tenebre. In quel modo la redazione sottolineava il suo impegno a non sottomettersi al racconto del paese fatto dal nuovo presidente, una posizione che negli anni del primo mandato di Trump ha permesso al Washington Post di guadagnare credibilità e lettori.

Il giornale ora si affaccia alla seconda era Trump in un momento di crisi gravissima, segnata dalle difficoltà economiche e dagli scontri interni sulla linea editoriale, che riguardano soprattutto il modo di porsi nei confronti della nuova amministrazione. In un contesto editoriale in cui i giornali perdono inesorabilmente il potere di orientare il dibattito pubblico a vantaggio dei social network (controllati dalle stesse aziende che ora si avvicinano a Trump), la necessità di sopravvivere porterà a scelte che hanno poco a che fare con la difesa dell’informazione libera e corretta. Come il proprietario del Washington Post, anche quello del Los Angeles Times ha imposto alla redazione di non pubblicare un endorsement di Kamala Harris prima delle elezioni, mentre Abc News (di proprietà della Disney) ha fatto una donazione da 15 milioni di dollari alla “futura fondazione e museo presidenziale” di Trump per risolvere una causa per diffamazione intentata dal prossimo presidente. Trump ha sempre avuto una capacità sorprendente di imporre la sua visione degli eventi – lo dimostra platealmente il modo in cui è riuscito a riscrivere la storia del 6 gennaio 2021 – e tutto fa pensare che nei prossimi anni lo farà ancora più facilmente.

Anche perché oggi non c’è traccia dell’opposizione che otto anni fa si preparava a dare battaglia, nelle strade (il 21 gennaio 2017 centinaia di migliaia di persone parteciparono alla marcia delle donne a Washington) e al congresso, per contrastare il programma politico di Trump, che peraltro era meno radicale di quello attuale. I democratici sono scoraggiati e in piena crisi d’identità dopo la sconfitta di novembre, e la forza della reazione politica e culturale di cui parlavo prima li porta ad allinearsi o perlomeno a considerare accettabili alcune delle proposte di Trump.

Sul New York Times Nate Cohen ha scritto che la seconda vittoria di Trump ha inaugurato una nuova era della politica americana: “Il populismo conservatore di Trump ha vinto il dibattito politico in modo abbastanza decisivo. Per quanto riguarda la sicurezza delle frontiere, la produzione di energia interna, il commercio, i rapporti con la Cina e la deregolamentazione, i democratici si stanno muovendo verso il cuore del programma di Trump. Le due principali eccezioni – l’aborto e le minacce alla democrazia – sono state ferite autoinflitte dai repubblicani, che hanno impedito una vittoria più ampia di Trump e hanno oscurato la misura in cui il populismo conservatore ha conquistato il centro della politica statunitense”. Ne vediamo gli effetti ancora prima che Trump entri alla Casa Bianca. In questi giorni ha fatto molto discutere la decisione di un gruppo di democratici alla camera di votare a favore del Laken Riley act, una legge che prevede la detenzione degli immigrati senza documenti arrestati per reati non violenti come il furto.

Dall’altra parte i repubblicani sono sempre più docili, e Trump lo sa. Otto anni fa non avrebbe mai pensato di sfidare il senato con nomine radicali come quelle di Robert F. Kennedy Jr. (scelto come segretario per la salute e i servizi umani), Tulsi Gabbard (direttrice della National intelligence), Kash Patel (Fbi) e Pete Hegseth (Pentagono). Le audizioni per la conferma delle nomine sono cominciate in settimana, e per ora non sembra che i repubblicani vogliano mettersi di traverso.

Inevitabilmente la reazione conservatrice si farà sentire anche nel mondo della cultura, per esempio a Hollywood e soprattutto nelle università d’elite, cioè i posti dove in questi anni ha cominciato a montare l’indignazione contro la sinistra, il politicamente corretto e l’ideologia woke.

In altre parole le forze politiche, legali, istituzionali e civiche che hanno limitato e spesso frustrato Trump durante il suo primo mandato si sono tutte indebolite (a questo va aggiunto il fatto che oggi la corte suprema è molto più a destra rispetto a otto anni fa). A differenza del primo mandato, ora il destino di Trump sarà nelle sue mani, e questo è un’opportunità e allo stesso tempo un rischio per i repubblicani statunitensi: possono consolidare la loro presa sulla società per molti anni a venire, ma possono anche facilmente sperperare il loro capitale sotto la guida di un presidente lunatico ed estremista. La vittoria di Trump a novembre è stata significativa per come è riuscito ad allargare la coalizione repubblicana, ma è stata meno schiacciante di quanto cerchi di far credere il presidente eletto: ha ottenuto meno della metà dei voti espressi e i margini di vittoria negli stati decisivi sono stati ridotti.

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Giorni fa è stato diffuso il ritratto presidenziale di Trump (a destra): l’inquadratura della foto e l’espressione ricordano la foto segnaletica diffusa dopo una delle sue incriminazioni del 2023 (al centro), più che il ritratto presidenziale fatto per il primo mandato (a sinistra).

(The library of Congress, Epa/Ansa)

Come ha scritto Ronald Brownstein sull’Atlantic, “se un Trump senza freni prenderà direzioni che troppi elettori non vogliono seguire – provvedimenti contro i vaccini, l’uso della giustizia per colpire gli avversari, la separazione degli immigrati senza documenti dai figli che sono cittadini statunitensi –, potrebbe rapidamente perdere consensi e restringere di nuovo la sua coalizione. E se il suo programma economico riaccenderà l’inflazione, come prevedono molti analisti indipendenti, il contraccolpo sarà ancora più forte. Anche in un’epoca di grande polarizzazione politica, il sistema bipartitico americano continua a funzionare come un sistema idraulico: quando un partito perde consensi, l’altro inevitabilmente cresce. Lo abbiamo visto succedere anche alle ultime presidenziali, quando gli elettori insoddisfatti della direzione del paese hanno scelto Trump chiudendo un occhio sui suoi tanti limiti. Le persone insoddisfatte di Joe Biden si sono rivolte all’altro candidato. Potrebbe succedere di nuovo in futuro a parti invertite”.

Per costruire un cambiamento solido e di lungo periodo serve quella disciplina politica che i repubblicani hanno sempre faticato a trovare dopo l’ascesa di Trump. Già a dicembre è cominciato il prevedibile scontro tra le due fazioni che si contendono l’attenzione del presidente, i nazionalisti del Make America great again contro i miliardari globalisti. La maggioranza molto ridotta dei repubblicani alla camera e le divergenze tra leader del partito nei due rami del congresso sono fattori che potrebbero alimentare conflitti e confusione.

Cosa aspettarsi quindi nei primi giorni di Trump?

Appena insediati di solito i presidenti approvano una raffica di ordini esecutivi, cioè decreti che indirizzano il lavoro delle agenzie governative, e che servono soprattutto a mostrare l’impronta che si vuole dare all’amministrazione. Ci si aspetta che Trump ne firmi tanti, anche un centinaio, molti dei quali imporranno un giro di vite sull’immigrazione, redatti da Stephen Miller, il consigliere più estremista del presidente in materia. Altri decreti serviranno a promuovere l’uso dei combustibili fossili e ad annullare alcuni regolamenti voluti da Biden per ridurre le emissioni e l’inquinamento e per limitare le trivellazioni. Ci si aspetta qualcosa anche sulle politiche di genere, gli obblighi vaccinali e altro.

Trump si occuperà molto probabilmente della questione TikTok, il social network di proprietà della cinese ByteDance, che è stato bloccato negli Stati Uniti per via dei timori legati ai rapporti dell’azienda con il governo cinese e quindi alla sicurezza nazionale. Il blocco, deciso da una legge del congresso, è stato confermato venerdì dalla corte suprema. Trump aveva chiesto ai giudici di sospendere il provvedimento per dargli tempo di trovare una soluzione politica. Secondo i giornali statunitensi, sta valutando la possibilità di firmare un ordine esecutivo per annullare temporaneamente il blocco, ma non è chiaro se questo possa bastare a non farlo entrare in vigore.

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Per quanto riguarda i progetti di lungo periodo, Axios ha scritto che la Casa Bianca pensa di sottoporre al congresso un mastodontico progetto di legge che includerebbe grandi tagli alle tasse, tanti soldi per la frontiera e misure per la deregolamentazione energetica. Sarebbe uno dei provvedimenti più costosi della storia degli Stati Uniti (solo i tagli fiscali costerebbero cinquemila miliardi di dollari in dieci anni) e renderebbe necessari tagli enormi alla spesa federale in altri settori.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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