Assistenti digitali guidati dall’Intelligenza Artificiale, il controllo dei nostri dati e il possibile smembramento delle grandi aziende tecnologiche: è il futuro di Internet immaginato, forse sperato, da Tim Berners-Lee, il fisico britannico che assieme al collega Robert Cailliau 35 anni fa al CERN di Ginevra dette vita al World Wide Web. “Doveva essere uno strumento per dare potere all’umanità, ma negli ultimi dieci anni ha visto erodersi molti valori”, ha spiegato il fisico in diverse interviste rilasciate la scorsa primavera.
Da tempo Berners-Lee esprime preoccupazione per le trasformazioni avvenute dalla sua creazione: nata come rete per condividere informazioni soprattutto in ambito scientifico (web 1.0 o statico), si è velocemente trasformata nel web 2.0 (o dinamico), che certo ha permesso agli utenti di interagire tra loro, ma ha pure provocato la concentrazione del potere in mani private senza quasi alcun limite e consentito la profilazione dei dati personali, il che ha portato al controllo delle informazioni che riceviamo.
Una nuova realtà in vista
In questi ultimi anni sta invece emergendo un nuovo modello che, come accadeva alle origini, pone al centro gli individui piuttosto che i modelli di business. Per Berners-Lee si tratta di un’opportunità per rimodellare il futuro digitale e ridare priorità al benessere, all’equità e all’autonomia degli utenti. È il cosiddetto web3, di cui tutti parlano ma che nessuno finora ha visto, perlomeno non nella sua interezza.
Questa evoluzione si basa sulla tecnologia blockchain (la stessa utilizzata anche per le monete digitali), e dovrebbe permettere di aggiungere alle due già note – leggere e scrivere (web1) e interagire (web2) – una terza caratteristica saliente: il controllo, ossia la possibilità di verificare tutto ciò che circola su Internet in modo appunto da ridare potere agli utenti e togliere il monopolio alle grandi multinazionali del settore.
In effetti, se ora a dettare le regole sono colossi come Google, Meta, Microsoft, Apple e Amazon, in futuro gli utenti potranno partecipare direttamente alla gestione del web, diverranno proprietari dei loro contenuti e potranno monetizzarli a loro piacimento, potranno creare o far parte di una o più comunità o organizzazioni online, tutte decentralizzate, e forse anche comunicare senza la mediazione di un server.
Ostacoli e limiti di una decentralizzazione del potere
Il web3, con le sue applicazioni decentralizzate (dapp), dovrebbe insomma ridare agli utenti il controllo, proteggendo i loro dati personali e ponendo fine, o perlomeno circoscrivendolo molto, al potere delle attuali aziende big-tech. Il tutto con una trasparenza maggiore e con l’obiettivo di creare una rete globale e interconnessa, in teoria molto democratica.
Tutto perfetto? Non proprio. Dato che al momento ci sono questioni tecnologiche ancora irrisolte, i costi del web3 sono piuttosto elevati e ne limitano l’accessibilità e la fruibilità e, di conseguenza, la diffusione. Senza dimenticare che, come per le monete digitali, la blockchain richiede un consumo di energia molto elevato, per cui la sua sostenibilità è tutt’altro che certa.
Al web3 si aggiunge il web semantico, o web 3.0, che mira a trasformare la rete in un’infrastruttura più intelligente e interconnessa, fornendo ai dati una struttura organizzativa che crei relazioni logiche e significative tra loro, dando origine ad applicazioni che utilizzano le informazioni in modo più intelligente e personalizzato. Entrambi i concetti sono complementari e lavorano verso lo stesso obiettivo: creare un web più a dimensione “umana”.
L’intervista
La rete del futuro
Cesare Pautasso è Professore presso la Facoltà di scienze informatiche dell’Università della Svizzera italiana (USI). Le sue attività di insegnamento e formazione coprono argomenti relativi alla ingegneria del web, alle architetture del software, all’uso della
blockchain per la gestione dei processi aziendali e alle tecnologie emergenti dei servizi web. È perciò con lui che abbiamo parlato della rete del futuro.
Circa 35 anni fa nacque il World Wide Web. Oggi dove siamo arrivati?
Il web attuale è molto più grande e c’è molta più varietà rispetto a quello delle origini, che era prioritariamente orientato agli accademici che volevano condividere i loro articoli scientifici. Oggi invece è diventato un sistema di informazione e di comunicazione sociale in cui possiamo trovare di tutto, una rappresentazione globale della cultura umana.
Si parla di web di terza generazione. Di cosa si tratta?
Ci sono stati diversi tentativi di definirlo. Intorno all’anno 2000 si è iniziato a parlare di web semantico (web 3.0), una versione che cerca di dare più profondità ai dati in modo che il loro significato diventi comprensibile alle macchine, mentre da circa 10 anni il web3 è collegato alla blockchain. Sono però etichette che si mettono per attirare l’attenzione: chi vuole portare avanti un programma afferma che si tratta della prossima versione del web, così sembra chissà cosa. In realtà bisogna vedere cosa sia effettivamente.
Per cui non c’è una reale evoluzione?
L’evoluzione c’è se si osserva come viene strutturato il controllo sui dati, chi ha in mano le chiavi di accesso, chi la possibilità di accendere o spegnere il sistema, chi decide quello che si pubblica.
Nel web 1.0 nessuno doveva chiedere il permesso per creare un sito web o inserire un link e rimandare a un altro sito web; questa è stata una delle cose rivoluzionarie che ha favorito lo sviluppo esponenziale del sistema. Nel web 2.0 invece il controllo lentamente è andato in mano ad alcuni siti che ospitano i contenuti prodotti dagli utenti, siti che col tempo sono cresciuti enormemente.
Le cosiddette aziende big-tech?
Sì, sono dei siti web che non hanno contenuti propri, ma raccolgono e filtrano quelli prodotti dalla collettività, da tutte le centinaia di milioni di utenti che pubblicano su un loro sito. Il problema è che questi contenuti li posseggono, assieme ai dati degli utenti, per cui decidono cosa farne: se liberarli, se bloccarli, se farli vedere, se non farli vedere, se venderli e a chi… Il web3, anche grazie alla blockchain, cerca di eliminare questo controllo, democratizzandolo e ridistribuendolo fuori da queste concentrazioni.
Uno dei problemi del primo web è che chiunque poteva pubblicare, ma essere letto era un’altra cosa.
Vero: posso pubblicare tutto quello che voglio, ma se nessuno sa che esiste o dove trovarlo, nessuno lo leggerà mai. Per questo sono nati i motori di ricerca: se sto facendo una ricerca su un argomento, mi suggeriscono dove andare a trovare i siti o le pagine migliori. Nella versione originale funzionava così.
Poi cosa è cambiato?
Visto che tutti siamo obbligati a passare da lì per trovare informazioni, è iniziata una corsa tecnologica per fare in modo che i propri siti finissero in cima alla lista, in prima pagina. Poi c’è stato chi ha iniziato a pagare per questo, per cui il criterio di ricerca prioritario è diventato sempre meno la rilevanza rispetto ad altri, più commerciali. Perché se il risultato è dato in base al contenuto l’approccio è corretto, se invece lo è grazie a uno scambio di denaro allora è pubblicità, per cui abbiamo un problema etico, perché stiamo confondendo le persone quando non è più possibile chiaramente distinguere risultati organici da quelli sponsorizzati.
E con i social come la mettiamo?
Oggi stanno nascendo reti sociali federate, ad esempio Mastodon, dove non esiste più un centro ma una collezione di siti: chiunque può pubblicare su uno di questi, che poi si collegano fra di loro in modo da ottenere lo stesso risultato di un sistema centralizzato tipo Facebook. La differenza è che essendo federato ognuno localmente può prendere le decisioni sulla moderazione e sui contenuti e può filtrare e gestire il flusso di post. Questo è un approccio molto diverso rispetto a quello in cui tutte le decisioni sono prese dal centro, per tutti allo stesso modo e in modo opaco. Senza dimenticare che quando tutto è nelle mani di uno, questi possiede l’enorme potere di decidere quali informazioni la gente può vedere e quali no.
Detto così sembrerebbe molto semplice: togliamo un po’ di sovrastruttura e torniamo dove siamo partiti. Da un punto di vista informatico invece?
Si è andati in questa direzione per convenienza e semplicità: prima del web 2.0 essere in rete richiedeva passaggi tecnici complessi e costosi, e pure la gestione non era semplice; oggi invece chiunque può aprire una pagina su un social con un paio di clic. La sfida odierna è riproporre questa convenienza, questa semplicità estraendola dal controllo centralizzato.
Web libero e social media però non è che diano grandi garanzie, sia etiche sia di legalità. Come risolviamo questo problema?
Il web è un riflesso delle luci e delle ombre della società, e come diceva Umberto Eco i social hanno sdoganato i discorsi da bar. Oggi quando accedo al web lo faccio usando un browser che mi avvisa quando sto per entrare in un sito problematico, ma questo significa che qualcuno ha deciso al mio posto cosa sia accettabile e cosa no. Esiste anche un quadro legale da rispettare, però la tecnologia ha una velocità di evoluzione tale che la legge non riesce a seguire. Inoltre, ci sono molti siti che vengono filtrati e poi rispuntano da un’altra parte.
Il problema è chi prende queste decisioni, se la collettività o un’azienda privata. In reti più piccole il controllo potrebbe essere relativo, perché conosco e mi fido delle persone che vi partecipano, mentre nel momento in cui crescono di dimensione il livello di attenzione dovrebbe alzarsi. L’approccio web 3.0 potrebbe riuscire a gestire questi problemi in modo decentralizzato e flessibile.
Quindi, se vogliamo, è un pendolo continuo fra la libertà individuale di comunicare e l’esigenza di una collettività qualsiasi, in questo caso digitale, di avere delle forme di controllo, che bannino o amplifichino il messaggio?
Sì, direi di sì. Da sempre nell’umanità convivono una pluralità di voci (individui, organizzazioni, autorità [in senso filosofico, ndr], media…), anche contrastanti, cui attingiamo. Il web è la stessa cosa, però amplificata: invece di avere a disposizione una decina di possibili canali mediatici, abbiamo milioni e milioni di siti web. Il browser diventerà un filtro sempre più importante, sia per verificare le informazioni che leggiamo sul web sia per proteggere quelle personali che riveliamo durante la navigazione.
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