“Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi.”
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, 1958)
Nei racconti la differenza ha lo spessore della sottigliezza.
Anche in questo racconto apparentemente rivoluzionario, lungo più di due secoli, che riguarda il Marsala e Marsala.
Non è una differenza meramente grammaticale quella fra il vino fortificato e il territorio che gli concede il nome, fra articoli e proposizioni, ma terminologica e ideologica. Differenze sottili tali da indurre in errore anche gli stessi attori del tragicomico teatro del vino.
Il Marsala è un vino, o meglio una tipologia di vino, Marsala è un territorio. Il Marsala gode di una denominazione, figlia del suo tempo certamente, dal 1969. Tutti gli altri vini di Marsala, legati a questo territorio, eccellenze o meno, no.
Non sempre vini e confini, tipicità e storia, coincidono. Ed è proprio questa mancata corrispondenza che innesca una diatriba ideologica senza fine e senza senso nonché un racconto territoriale che disorienta. Disorienta quando va oltre i confini. Quel che si sottolinea, purtroppo va detto, in questo caso di e del Marsala, è che la bussola è stata totalmente persa da anni anni.
Sarà stata l’assenza nel tempo di una visione collettiva, di inascoltate voci isolate, mancato slancio qualitativo (salvo rare eccezioni) se non verso il basso, inerzia nel comprendere i tempi, nonché interpretare un gusto e innovarlo.
Si aggiunga la scarsissima conoscenza da parte degli intermediari del vino, a partire dai venditori, nonché l’incompetenza diffusa fra gli operatori di sala dove anche in patria, in Sicilia, qualcuno fa ancora confusione tra il vino perpetuo e il Marsala, tra un Marsala vergine secco e un dolce. Ma tant’è. Giornalisti, blogger e qualche pseduo influencer, poi, hanno dato talvolta il colpo di grazia. Andiamo comunque con ordine perché è proprio quel senso di cui prima che qui in poche righe si intende restituire.
Diverse sono le penne che negli anni hanno offerto, anche di recente e in maniera piuttosto puntuale, la cronaca di questo mito sfortunato chiamato Marsala. Vino ossidativo, fortificato, mediterraneo, ricco di suggestioni gusto olfattive, tra storie, leggende, nomi importanti come John Woodhouse e Vincenzo Florio, di cui si conosce ampiamente la trama.
Se tutti oggi avessero avuto lo stesso sussulto di dignità, nonché di orgoglio, per questo vino, nella sua accezione di vino ossidativo prima che fortificato, così come lo ebbe Florio, è probabile che le cose potrebbero andare diversamente. Lodevoli gli sforzi, va detto, come durante l’ultimo appuntamento al Vinitaly, di riaccendere le luci sul Marsala e presentarlo nella sua meravigliosa versatilità gastronomica e in ottica mixology nel tentativo di svegliare questa girlfriend in a coma. Ci sta provando il rinnovato Consorzio, attivo nuovamente dal 2022 dopo un infausto stop dal 2016, produttori – pochi – inclusi.
Ma ha ancora senso parlare di Marsala o forse bisognerebbe farlo s-confinare? Hanno senso queste masterclass (poi per carità si torni a parlare di degustazioni) rivolte a un circuito chiuso? Hanno senso i press tour e le letture edulcorate che ogni tanto si trovano?
La risposta è no. Ed è no perché ancora si fa fatica a trovare nelle enoteche e nelle tavole un Marsala. Ma sarà invece molto più facile trovare un vino di Marsala, che sia questo perpetuo o fermo.
Veniamo subito al dunque. In primis, il Marsala dovrebbe sconfinare dalla sua logica produttiva. Andrebbe snellito. Non mi riferisco al grado alcolico ma al ventaglio troppo ampio di tipologie in base a colore, metodo, tempo. Oro, ambra, rubino. Conciato e non, fine, superiore, superiore riserva, stravecchio e così via, secco, semisecco e dolce. Ci si capisce poco. Si snellisca magari sulla base di ciò che più si avvicina alla tradizione che fu e, non meno importante, a ciò che le tavole richiedono per il motivo di cui sopra: si fa fatica a trovare nelle enoteche e nelle tavole un Marsala ma sarà invece molto più facile trovare un vino di Marsala.
A seguire, il Consorzio includa sotto la sua egida il perpetuo, il vino di Marsala più compreso o forse più comprensibile. Quello che qui c’è sempre stato e che si è sempre prodotto. Prodotto alla portata di chiunque. Un vino dal carattere ossidativo ma non fortificato, ovvero il perpetuo, alias pre-british, o ancora identificato con un un nome e una contrada, così ci si capisce meglio: Vecchio Samperi di Marco De Bartoli, primo imbottigliamento 1980.
Non possono coesistere Marsala perpetuo e Marsala fortificato? Niente di tanto diverso, peraltro proposto un paio di anni fa da Renato De Bartoli e Nino Barraco, con un perpetuo che però sarebbe potuto finire sotto la doc Sicilia. Ma tant’è.
Se la peculiarità, infine, che rende unico l’apprezzatissimo perpetuo, il vino di Marsala, è il suo rinnovarsi all’infinito non si può dire lo stesso del Marsala, nella sua accezione legislativa, un mito legato a una denominazione ingessata su un’idea di vino che per quanto sublime è rimasta appannaggio di pochi appassionati per incomunicabilità.
Infine, ma non meno importante, da non dimenticare anche tutti quei vini unici riconosciuti come Sicilia DOC o IGT Sicilia prodotti nell’agro marsalese inclusa la zona delle saline e di Mozia. Vini sorprendentemente di Marsala.
Sconfinare, dunque, vuol dire allargare emancipandosi. E forse è allargando le proprie visioni, cambiando, che si può preservare se stessi. Cambiare, includere, sconfinare per proteggere l’ultimo baluardo di speranza intorno a questo mito. Così, forse, come suggeriva Tancredi al principe Fabrizio.
Intanto il Marsala è morto, lunga vita a Marsala.
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