Almeno una volta nella vita, noi occidentali ci siamo imbattuti in storie, testimonianze o reportage che mirano a sensibilizzare la realtà che le donne afghane sono obbligate a vivere quotidianamente. La narrazione dominante spesso le riduce a vittime passive del sistema in cui vivono. Tuttavia, questa rappresentazione tende ad essere semplificata, stereotipata e distorta.
Le donne afghane, infatti, sono protagoniste di una storia complessa e sfaccettata che merita una comprensione più profonda, lontana dalle immagini di oppressione totale che troppo spesso l’Occidente ha scelto di raffigurare.
Per comprendere la condizione delle donne afghane, è necessario fare un passo indietro per esplorare le radici storiche e culturali.
Durante la prima metà dello scorso secolo sono state varate diverse riforme improntate alla liberalizzazione della società, anche in campo femminile. Le riforme erano tese a conferire alle donne maggiore emancipazione e indipendenza; incentivare e migliorare l’accesso all’istruzione e liberarle dalla pratica del matrimonio forzato. Venne garantito loro anche il diritto di voto ed elezione al Parlamento, avvenimento all’avanguardia per un Paese dove più del novanta per cento della popolazione professa la religione islamica.
Tutto sembra presagire un miglioramento della donna nei decenni a venire anche grazie al ruolo svolto dalle Associazioni femministe locali intenzionate ad acquisire sempre più diritti e libertà.
La situazione precipita, però, negli anni 90’ quando il Paese cade in preda alla guerra civile. Tra le vittime dei disordini vi sono le donne, alle quali, tra le tante privazioni, viene imposto l’obbligo di indossare il burqa. Le immagini raffiguranti le donne con indosso abiti corti, simbolo della libertà acquisita nei decenni precedenti, rimangono solo un ricordo.
Nel 1996, la guerra civile termina a causa della presa di potere dei Talebani. Vengono emesse diverse disposizioni restrittive riguardanti le donne: divieto di uscire di casa se non accompagnate da un parente maschio, divieto di ridere in pubblico e la condanna a morte in caso di adulterio.
Nel 2001, il governo talebano viene deposto dalle truppe americane che occupano il Paese per i successivi vent’anni. Questo avvenimento permette alle donne di riacquistare i loro diritti in ogni ambito, compreso quello politico. Bisogna, tuttavia aspettare vent’anni per vedere istituito il “Ministero per la condizione della donna”, guidato da Sima Samar. Questo però non ferma le ripercussioni nei confronti del genere femminile. Tra i tanti fatti noti alla cronaca c’è quello di un gruppo di studentesse e insegnanti che venne aggredito da un gruppo di ignoti. La loro “colpa” era quella di volere accesso all’istruzione. Le donne non si fermano davanti a questi soprusi e le voci delle attiviste si fanno sempre più rumorose sia nel Paese che all’estero.
La situazione peggiora nuovamente quando, nel 2021, l’amministrazione statunitense annuncia che le sue truppe avrebbero lasciato il Paese. La decisione viene sfruttata dai Talebani che in pochi giorni riescono a conquistare anche Kabul, città che da sempre è al centro delle rivendicazioni dei diritti delle donne. Il regime del terrore imposto dai talebani viene definito dalla comunità internazionale come un vero e proprio “apartheid di genere”.
L’Occidente, pur offrendo aiuti economici e umanitari, spesso ignora la necessità di sostenere le organizzazioni locali di donne, che potrebbero essere in grado di produrre cambiamenti sostenibili. La centralità della voce delle donne afghane nei processi di ricostruzione e di pace è fondamentale per il futuro del Paese.
Spesso nella narrazione occidentale, le donne dei Paesi dove la fede islamica predomina vengono rappresentate come degli individui che accettano la loro condizione di svantaggio e che sottostanno alla figura maschile.
Eppure, così non è.
A testimonianza di ciò, ci sono le parole di Aziza Borhani, ragazza afgana che nel 2022 ha dovuto lasciare Kabul, in seguito all’arrivo dei talebani, grazie all’evacuazione organizzata dal Ministro degli affari esteri olandese. Aziza è potuta sfuggire al regime grazie al suo lavoro presso il “Cordaid”, un’organizzazione di soccorso di emergenza e sviluppo che opera a livello internazionale.
Ho avuto il piacere di parlare con lei e poterle chiedere di raccontarmi la sua esperienza diretta di come una donna vive nel suo Paese.
Sei nata negli anni del regime dei Talebani, cosa ti hanno raccontato i tuoi genitori di quel periodo?
Ho saputo da mio padre che la nostra famiglia ha avuto una vita difficile, anche in passato, a causa della nostra appartenenza ad un gruppo etnico molto discriminato, gli Hazara di religione islamica sciita. I Talebani hanno reso ancora più difficile la nostra vita, soprattutto alle donne della mia famiglia che non hanno più potuto godere dei diritti di cui godevano prima del loro arrivo.
Le donne anziane della tua famiglia hanno vissuto gli anni senza i Talebani, ti hanno raccontato come era?
Mia nonna ha studiato e imparato a leggere e scrivere in una scuola religiosa locale. Quando è diventata più grande, ha dovuto smettere di andare a scuola a causa del fatto che le infrastrutture e le opportunità, nel villaggio, erano molto limitate. Nelle città, specialmente Kabul, la situazione,invece, era molto diversa: lì, le donne avevano maggiore libertà e opportunità per studiare e lavorare.
E tu, quando eri piccola, hai avuto l’opportunità di andare a scuola?
Nonostante i pochi servizi nel villaggio in cui sono nata e cresciuta, i miei genitori mi hanno mandato a scuola fin da subito. Dato che l’istruzione per le bambine, prima dell’arrivo delle truppe americane, era vietata, in prima elementare alcune mie compagne di classe erano molto più grandi di me anagraficamente.
Come vedi il futuro delle donne afghane?
Il futuro sembra terribilmente orribile finché non si permette loro di studiare. Non hanno più una vita, nessuna libertà o diritto. Ho una sorella più piccola, di 16 anni, che ha completamente perso la speranza. Sto cercando di mantenerla motivata circa il futuro ma non posso fare a meno di vedere quanto frustrante sia questa situazione per lei.
Cosa potrebbe contribuire a migliorare la situazione?
Credo che dovremmo fare pressione per attirare maggiore attenzione su questa terribile situazione e creare delle possibilità per queste bambine e giovani donne. È un vero peccato che non si prendano dei provvedimenti concreti per aiutarle. Secondo me dovrebbero essere create opportunità di apprendimento “alternativo” per dare loro speranza per un futuro migliore. Per quanto ne so, alcune ONG e organizzazioni internazionali hanno svolto un ruolo cruciale in termini di diritti delle donne. Ora però, non ci sono né organizzazioni né politiche di sostegno che lavorino su questo tema. Questo rende ancora più lampante il fatto che le donne afghane sono state lasciate da sole.
Venendo in Europa, hai notato qualche differenza nel modo in cui gli occidentali percepiscono la storia del tuo Paese rispetto a come è veramente?
La visione delle persone occidentali in merito al mio Paese è quella che la narrazione dei media occidentali ha diffuso. Mi è stato chiesto più volte come sono arrivata in Olanda e perché non sarei potuta rimanere in Afghanistan. E’ difficile…delle volte mi sento amareggiata e questo mi fa capire che la gente sa molto poco di quello che sta succedendo realmente alle nostre nonne, mamme e sorelle.
Dalle parole di Aziza emerge tanta tristezza e allo stesso tempo rabbia per la situazione che ha lasciato nel suo Paese. Ho provato ad immedesimarmi nella sua storia, nel dover lasciare il proprio Paese natale e la propria famiglia per sentirsi libera e padrona della propria vita.
Questa libertà a noi ci è concessa dalla nascita, la diamo per scontato ma non è così per tante, troppe bambine nel mondo.
Le donne afghane non sono solo vittime.
Nella loro storia ci sono state anche eroine che hanno combattuto per la dignità e libertà mettendo a rischio la loro stessa vita. Le loro voci devono essere ascoltate e diffuse e questo compito spetta proprio a noi che abbiamo la possibilità di scrivere, informare e denunciare.
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