«15 mesi di ecocidio, Gaza non sarà più come prima»

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«Da Gaza mi arriva gioia: la mia famiglia, i miei amici, la gente è felice che lo sterminio sia finito. Ma è una gioia temporanea: il futuro fa paura, sono senza casa e senza lavoro. La sofferenza patita in 15 mesi continuerà ad accompagnarci, anche nei sogni. Eppure Gaza ha resistito, per questo è sicura di risorgere come una fenice».

Fadil Alkhaldy è nato e cresciuto nel campo profughi di Jabaliya. Lavora con Uawc, l’Union of Agricultural Work Committees, tra le più note e radicate organizzazioni della società civile palestinese. Una delle sei che nel 2021 Israele mise al bando bollandole come associazioni terroristiche: «Una decisione politica volta a scoraggiare Uawc dal suo importante ruolo di sostegno al settore agricolo. Operiamo in conformità con la legge palestinese e internazionale», risponde Alkhaldy.

È in Italia per una serie di iniziative, da Torino a Napoli dove domani 23 gennaio alle 15.30 parlerà all’Università Federico II. Racconta dell’ecocidio commesso da Israele nella Striscia, prima e dopo il 7 ottobre. «Questi 15 mesi hanno visto lo sterminio di tutte le forme di vita – dice al manifesto – Lo sterminio della terra e degli esseri umani. L’ecocidio si è realizzato con lo sradicamento degli alberi, la distruzione di aree agricole e pozzi d’acqua, l’uccisione dei contadini. Con l’inquinamento delle falde acquifere per il pompaggio di acqua di mare nei tunnel e l’abbattimento deliberato degli animali da allevamento».

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PRATICHE militari che si sommano all’immenso livello di inquinamento provocato dall’esplosivo cadute sulla Striscia, 75mila tonnellate a ottobre 2024. «L’ecocidio – continua Fadil – passa per la migrazione forzata degli uccelli causata dal rumore dei bombardamenti…Dopo tutto questo di che ambiente parliamo? Parliamo di una realtà che ha bisogno degli sforzi di tutte le componenti della società civile per ripristinare ciò che è stato distrutto. La situazione è catastrofica, ci vorranno anni per tornare alla normalità. E sarà diversa da quella che abbiamo vissuto».

Gaza è stata per secoli una delle zone più ricche della Palestina: porto, granaio, nodo di scambio. La Nakba del 1948 è stato il primo passo di un declino artificioso, che ha raggiunto l’apice nel 2007, l’assedio totale da parte israeliana.

«Da allora agli agricoltori sono state imposte grandi restrizioni all’importazione di macchinari e attrezzature e al flusso di esportazioni. Sono stati uccisi e arrestati con il pretesto della sicurezza in quella che Israele ha imposto come zona cuscinetto. Nel 2008 era profonda 300 metri, lungo il confine orientale. Poi si è espansa. Agli agricoltori è vietato l’accesso alle fattorie e i pesticidi spruzzati lungo la recinzione hanno bruciato la terra. I terreni agricoli a Gaza costituiscono il 41% della superficie totale. Solo il 16% è davvero utilizzato».

Fadi Alkhaldy si gode la gioia della sua gente, a distanza. Il dolore patito, dice, «non è riassumibile in un minuto o due, in un quarto d’ora o in un giorno. Quello che è successo è una cosa grande, che nessun essere umano può tollerare».

Ora c’è finalmente una tregua, ma «un cessate il fuoco da solo non costituisce giustizia. Giustizia è avere una terra liberata». Non lo è ancora: ieri i droni israeliani hanno ferito due palestinesi, un pescatore in mare e un civile nel quartiere di Sabra a Gaza City, mentre i cecchini hanno aperto il fuoco a Rafah uccidendo tre persone, tra cui un bambino. La città più meridionale della Striscia è un cimitero a cielo aperto. La rimozione delle macerie fa tornare alla luce decine di corpi, alcuni irriconoscibili. 137 il secondo giorno di tregua, 72 ieri.

SI CONTINUA a morire in tanti modi e gli ordini emessi ieri dall’esercito israeliano sono una minaccia concreta: le truppe resteranno dispiegate in alcune zone, precluse ai civili pena il fuoco; il corridoio Netzarim, che va attraversato per tornare verso nord, è categorizzato come «pericoloso», chi si avvicina lo fa a proprio rischio. E poi il valico di Rafah, la fascia orientale, il mare: tutto pericoloso, di fatto off limits.

Gli aiuti entrano, raccontano i giornalisti palestinesi: cibo del World Food Programme e di Unrwa, kit sanitari e igienici, uova, riso e farina dal settore privato. Gli ostacoli alla consegna rimangono: «Le persone sono in movimento – riporta la reporter Hind Khoudary – E poi molti dei magazzini sono stati distrutti dalle forze israeliane. Le persone sono felici, ma la felicità è incompleta. Non ci sono case, è tutto grigio».

Ieri Hamas ha fatto sapere che il prossimo sabato saranno rilasciate quattro donne israeliane ostaggio. La comunicazione è giunta in parallelo alle dimissioni del capo di stato maggiore israeliano Herzi Halevi, il giorno dopo l’attacco sferrato dal ministro dell’ultradestra Bezalel Smotrich che lo ritiene inadatto a proseguire la guerra. Lascerà l’incarico il 6 marzo, ha detto, perché l’esercito «sotto il mio comando ha fallito nella missione di protezione dei cittadini israeliani». Il riferimento è al 7 ottobre 2023, per cui Halevi ha chiesto una commissione d’inchiesta slegata dalle forze armate.

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CHE LA TREGUA reggerà ci crede poco anche chi se n’è intestato il merito, il neo presidente degli Stati uniti, Donald Trump. Dopo aver dato il temuto ma prevedibile via libera all’allargamento delle operazioni militari israeliane in Cisgiordania, ieri si è detto «non sicuro» che l’accordo possa avere un futuro: «Non è la nostra guerra, è la loro. Ma non sono fiducioso».

Ha proseguito: «Ho visto una foto di Gaza. È un immenso cantiere di demolizione…una posizione sul mare fenomenale». C’è tanto in quella frase: l’invisibilità ai suoi occhi del genocidio e un’idea di ricostruzione come quella del genero Jared Kushner che sui residence per israeliani a Gaza ha già investito parecchio.



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