Chi ha paura del latte crudo? I buoni formaggi italiani verso il politicamente scorretto


Segnalare in etichetta il formaggio a latte crudo è giusto, soprattutto per i soggetti fragili, demonizzarlo o non mangiarlo più è una stupidaggine. Per l’economia italiana, per la biodiversità, per il gusto e per il buonsenso.

I modi per parlare di formaggi a latte crudo sono molti, il tema è complesso e al centro della cronaca recente (il ricovero di un bambino di 9 anni per intossicazione alimentare, probabilmente a causa di un pasto a base di Puzzone di Moena): il servizio peggiore che si può fare alla materia è quello di procedere per pregiudizi o arroccarsi su posizioni contrapposte, quello più utile è quello che consente di capire il valore e qualche dato più tecnico di un vero e proprio patrimonio culturale, oltre che – più ovviamente – gastronomico.

Il formaggio a latte crudo, tra idealizzazione e realtà

formaggi a latte crudo

Formaggi a latte crudo (o formaggi naturali) significa prodotti da latte non pastorizzato: l’immaginario comune conduce in malga, tra animali che pascolano ad un’altitudine sopra i 1600 metri, nutrendosi di erbe e flora autoctona, mungitura in quota e una lavorazione affidata a pastori e malgari in camicia a quadri. Un’iconografia certamente veritiera, quasi romantica, e tuttavia parziale che racconta solo una parte del mondo caseario che lavora a latte crudo. Oltre ai formaggi di malga infatti, l’universo latte crudo comprende molte DOP, che raccontano buona parte della tradizione casearia nazionale: Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Puzzone di Moena, Montasio, Fiore Sardo, Fontina, Caciocavallo Silano, Strachitunt, Castelmagno d’Alpeggio.

Lavorare il latte crudo non è semplice: l’immagine idealizzata del casaro che lavora con attrezzi di legno, con piglio appassionato e forse anche un po’ anarchico non solo non è realistica ma rende un cattivo servizio ad un mondo di artigiani che volontariamente e consapevolmente decidono di impegnarsi in un’impresa in cui standardizzazione e omologazione sono lasciate indietro, con i loro indiscutibili vantaggi in termini di gestione e resa. Si preferisce lavorare con una materia viva, mai uguale a sé stessa e dalla quale ha origine un prodotto che unisce le specificità delle razze, quelle del contesto di allevamento, dell’alimentazione e le capacità, oltre che l’esperienza, del casaro.

Lavorare il latte crudo è difficile: flora dei pascoli, erba fresca, foraggi, fieno influiscono in modo determinante sulla resa finale e sulle qualità organolettiche (oltre che sensoriali e gustative) del latte. Sale, caglio e competenza raramente vengono menzionati ma non sono certo secondari e sono elementi che aggiungono complessità. Governare e trasformare in formaggio una materia prima grezza, consentendo al latte di esprimere al meglio potenzialità e caratteristiche, storia e paesaggio, peculiarità delle razze e modalità di allevamento, equivale esattamente a quello che avviene in campo enologico. Ogni formaggio rappresenta la firma del casaro, ma è anche – contemporaneamente – un trattato di storia, geografia, agricoltura e allevamento. Quando si taglia un formaggio a latte crudo si assaggia un pezzo di un simile bagaglio. Ogni forma è, significativamente, un pezzo unico. Ogni forma, come una voce singola in una narrazione collettiva, permette di raccontare luoghi, animali, e persone, componendo una mappa ideale della biodiversità. Ogni forma è, di fatto, memoria condivisa.

Biodiversità e paure

fetta di fontina nel piatto

Il dibattito attorno al latte crudo non è tuttavia solo una mera questione gastronomica: sicurezza, igiene e assenza di rischi per la salute fanno da contraltare, in una contrapposizione spesso manichea (colpevolizzazione del latte crudo perché insicuro contro sicurezza del latte pastorizzato) decisamente fuori fuoco in cui – se si vuol fare un buon servizio al consumatore – alla fine perdono tutti. Il punto infatti non è la salubrità o meno del latte crudo quanto le condizioni di igiene e sicurezza in cui esso viene lavorato. E si torna allora ad uno dei punti di partenza: la competenza, la preparazione, la formazione e l’esperienza del casaro. Il pesce crudo è nocivo alla salute o il rischio si presenta quando non è correttamente abbattuto?

Il rischio microbiologico collegato al consumo di formaggi a latte crudo viene abbattuto attraverso la pastorizzazione: ma la pastorizzazione è il medesimo trattamento che di fatto annulla le specificità organolettiche del latte crudo. Lavorare latte pastorizzato e guidare le fermentazioni non è tuttavia soltanto più sicuro: è anche più semplice, intervenendo di fatto su una materia prima che di vivo non ha praticamente più nulla, con assai meno rischi in termini di resa. Il risultato è sicuro e costante. Ma è anche irrimediabilmente standardizzato e omologato.

Diversamente da quanto avviene per un consumo diretto di latte crudo, la caseificazione del latte non sottoposto a pastorizzazione e quindi lo sviluppo di una flora microbica che consente la caseificazione, serve a prevenire lo sviluppo di agenti patogeni e quindi a diminuire il rischio microbiologico. Se condotta con competenza e rispettando le norme igienico-sanitarie, se sottoposta a controlli, la caseificazione da latte crudo consente ai microrganismi di condurre alla realizzazione di un prodotto sicuro, il cui valore aggiunto rispetto alla produzione industriale risiede non solo nella componente sensoriale ma anche nella possibilità di conoscere un patrimonio immateriale dalla variabilità immensa: a livello organolettico, la pastorizzazione significa la perdita del 100% del patrimonio caseario. Oltralpe si fa del latte crudo una bandiera, sottolineandone il valore non solo gastronomico: sarebbe un peccato per il nostro paese perdere progressivamente un patrimonio che, peraltro, lo vede 3° produttore europeo di formaggi dietro Germania e Francia (Ufficio Studi di PwC Italia).

Quello lattiero-caseario è un comparto strategico per il made in Italy: nel 2023 il fatturato è stato di circa 19 miliardi di euro, di cui il 68% (circa 13 miliardi) grazie ai formaggi. Secondo l’ultimo rapporto Ismea, l’export – dopo i già ottimi risultati del 2023 quando il fatturato estero ha superato i 5,47 miliardi di euro – i primi otto mesi del 2024 hanno visto un aumento del valore delle esportazioni, per tutti i prodotti lattiero-caseari, del +7%, sfiorando i 4 miliardi di euro. A fare da traino, formaggi e latticini, su tutti Grana Padano e Parmigiano Reggiano (formaggi a latte crudo), con un +10,4% in volume e +9,5% in valore. Sono 57 le Indicazioni Geografiche per prodotti a base di latte e il comparto dei formaggi DOP e IGP è il più rilevante in termini economici con 5,23 mld di euro alla produzione e 8,64 mld al consumo, a fronte di una produzione complessiva stabile pari a 582mila tonnellate.

Mai come in questo caso parlare di patrimonio è corretto e se il valore economico è facilmente misurabile, quello culturale è probabilmente superiore.
Il latte crudo è una materia prima preziosa: lavorarlo è una vera e propria scelta di campo. Lavorarlo con attenzione, rispettando il latte, gli animali, le condizioni igieniche e la salute dei consumatori, e comunicarlo nel modo giusto, è il servizio più corretto che si possa fare.



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