La mafia dei poveracci e quella dei potenti, Fava racconta Cosa Nostra

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Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Mettiamo che uno voglia vendere fiori, anzi più esattamente ghirlande di fiori per funerali. Attrezza la bottega, assume due o tre lavoranti, espone una bella insegna, cerca un accordo con un coltivatore di fiori che gli possa fornire ogni giorno tante dalie, tanti gladioli, tante rose. Ora io non so onestamente se gladioli e rose si adattino alle ghirlande da morto, ma stiamo parlando a mo’ di esempio. Dunque il nostro uomo ha tutto quello che gli serve, ma ha contrattato una fornitura di fiori solo per la metà di quello che gli serve.

Gli altri fiori di cui avrà bisogno se li procurerà in un cimitero, sfilando i più freschi, qua e là, dalle ghirlande che rendono omaggio a coloro cui è toccato trapassare giusto quel giorno. E molto più semplice di quanto non si pensi: naturalmente è necessario che sia d’accordo anche uno dei custodi del cimitero. L’esempio non è macabro, anzi è quasi divertente.

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Ogni sera il nostro solerte operatore in ghirlande da morto, va a prendersi al cimitero i fiori che gli servono per completare i suoi bouquet. Paga bene, per quanto ovviamente possano essere ben pagati i fiori rubati sulle tombe. Purtroppo la sua iniziativa ha turbato un accordo preesistente fra il custode del camposanto (possono essere anche piccoli camposanti di provincia) e altri operatori economici del settore che avevano avuto la brillante idea e assunto l’iniziativa qualche tempo prima. Il mercato dei fiori da morto usati, insomma, viene turbato.

Un giorno il nostro uomo sta dinnanzi alla sua bottega, già abbastanza fiorente; dal vicolo sbuca lentamente un’auto dal cui finestrino si protendono per un attimo due canne mozze. Due detonazioni. Da pochi metri è come se arrivasse una cannonata che solleva l’uomo d’un palmo e lo fa cadere a braccia e gambe spalancate in mezzo alla corbeilles. Fiori usati probabilmente anche per il suo funerale. Oppure accade che il custode del camposanto, il quale ha concluso patti di esclusiva, sottobanco venda fiori anche a un concorrente. Adempiuta la sua pietosa bisogna quotidiana egli sta facendo ritorno a casa: la strada che dal cimitero conduce all’abitato è in discesa e l’uomo la percorre in bicicletta, lievemente, senza pedalare.

Dal buio due lampi gli sfondano le spalle, l’uomo oramai morto resta miracolosamente in bilico sulla bicicletta ancora per una ventina di metri. Un numero di acrobazia inaudita. E accaduto! Mettiamo ora invece che in una valle al centro della Sicilia ci siano distese di terra senza un albero, senza una casa; pietre e sterpi, rigagnoli di fango, solo qualche abituro di pastore che, nelle sue migrazioni, si è costruito un riparo ammucchiando le pietre controvento e coprendo quei muri con un tetto di canne.

Così per decine di chilometri, un’altura dopo l’altra. Quella terra vale zero. Non c’è acqua, non c’è riparo, non esiste humus, non cresce nemmeno l’erba per gli armenti. Qualcuno certo è proprietario di quelle estensioni, magari sono centinaia o migliaia di piccoli proprietari, ma è come se possedessero vento.

Invece, improvvisamente, accade che qualcuno cominci a comperare quella terra, individua i proprietari, li contatta uno ad uno, racconta magari che vuol tentare un allevamento di bestiame (senza acqua, senza erba, mah…!) e, ad uno ad uno, compera gli appezzamenti, centinaia, migliaia di ettari, il deserto. Naturalmente paga un prezzo infinitesimale: che prezzo può avere una terra che non produce nemmeno fieno e che molti degli stessi proprietari si sono persino scordati di possedere?

Il fatto è che, nelle altissime stanze dove si amministra il denaro pubblico, è stato deciso finalmente di redimere al lavoro umano quella zona, di tentare il recupero agricolo di una plaga, e quindi di costruire una diga che, utilizzando le acque disperse di torrenti, ruscelli e fiumiciattoli, praticamente utilizzerà come bacino tutta quella vallata che abbiamo descritta.

Per costruire la diga e coprire di acque quella terra, bisogna che lo Stato comperi la terra stessa, quelle centinaia, quelle migliaia di ettari. E il prezzo degli espropri non è mai un prezzo reale, è un prezzo politico, deve tenere conto di una infinità di considerazioni, di cavilli, di necessità, di urgenze, naturalmente qualche volta anche di amicizie. Cioè è un prezzo che paga troppo poco, oppure troppo. Ed ecco che colui il quale (informato con mesi, anzi con anni di anticipo, da coloro che sanno) ha comperato tutta quella terra pagandola due soldi, improvvisamente ora può chiedere per l’esproprio dieci volte, venti volte di più.

Si spende un miliardo e se ne guadagnano venti. Si investono dieci miliardi e se ne guadagnano duecento. D’un tratto però primo colpo di scena. Dopo tormentose meditazioni, nelle altissime stanze si è capito che quella zona non è la più adatta per l’invaso delle acque, il terreno è argilloso, ci sono smottamenti, si perdono troppe acque che invece sono sicuramente recuperabili più a valle o più a monte, sicché è stato deciso di spostare la diga dieci chilometri più in basso, o dieci chilometri più in alto, oppure nella valle adiacente.

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Secondo colpo di scena: qui le terre sono state però già acquistate da misteriosi trust di finanziatori che avevano saputo conoscere ancora più esattamente il futuro tecnico della diga e prevederne le modificazioni. Improvvisamente accade così che un personaggio, magari molto rispettato, o potente veda sbucarsi dinnanzi tre uomini armati di mitra e calibro trentotto. Gli stanno pagando l’equivalente di dieci o venti miliardi. Non ha nemmeno il tempo di farsi la croce. Prima di lui o dopo di lui altri sono morti così o moriranno, per i capricci di quella diga che prima di erogare acqua distribuisce miliardi: piccole pedine di un ingranaggio gigantesco, legati l’uno all’altro da fila invisibili che solo loro conoscono.

E infatti, in questi casi, soltanto chi muore riesce a capire perché sta morendo. Quasi mai colui che lo uccide poiché è solo un esecutore; gli è stato dato mandato di eseguire quella sentenza e la esegue perché, per suo conto, è legato da altre invisibili fila, in altra direzione. Non può dire di no! E stato assunto per uccidere, senza chiedere mai perché.

Abbiamo portato due esempi precisi (i fiori da morto e la grande diga) di interessi mafiosi possibili, quello infimo e quello immenso, la mafia dei poveracci che si scannano per le cose miserabili della vita e la mafia dei domineddio. Nel paradigma della violenza: l’una e l’altra hanno avuto sempre in comune un elemento: la corruttibilità del custode del camposanto e del custode del pubblico denaro.

Ogni tanto dalla mafia degli stracci, questa palude feroce, un groviglio di cani affamati e insanguinati, emerge qualcuno, più feroce o intelligente degli altri e lentamente cerca di portarsi al livello dei potenti. Quasi sempre viene ricacciato giù, oppure ci lascia la pelle per strada, ma talvolta miracolosamente, continuando sempre ad uccidere prima degli avversari, arriva ai domineddio. Che sono i padroni dei grandi affari, l’uomo politico che può manovrare venti o trentamila voti di preferenza, l’altissimo funzionario che ha potestà di spostare carte, progetti, appalti, forse anche il magistrato che, con una sola firma, può annientare una cosca e trasferire questa eredità di potenza al gruppo nemico.

Oh, certo, l’ex straccione non può sedersi accanto a loro, gli manca classe e cultura, la genitura sociale, ed oltretutto è quasi sempre compromesso, ma trattare alla pari sì, dare e pretendere, allearsi e colpire. Genco Russo, campagnolo saggio e prudente, fu uno di questi. Luciano Liggio avventuriero e spavaldo lo è ancora. Per intendere bene la Sicilia, questo grande spettacolo umano nel quale farsa e tragedia si rinnovano continuamente, bisogna intendere la mafia. Quanto meno conoscere e cercare di interpretare il suo diagramma esistenziale.

Allora torniamo indietro di dieci anni, cioè al periodo successivo alla strage di Ciaculli. C’era stato un tempo storico (parlando di mafia bisogna scomodare il vocabolo) in cui la mafia sembrava definitivamente padrona di tutto, non soltanto cioè delle attività economiche privilegiate, ma anche in larga parte della pubblica amministrazione. Il primo potere veniva esercitato accaparrando, con la violenza, qualsiasi attività che producesse e amministrasse ricchezza, gli appalti dei lavori pubblici, le aree edilizie, il rifornimento dei mercati cittadini; il secondo potere, più sottile e sfuggente, più difficile da conquistare e mantenere, veniva esercitato invece con il ministero dei voti elettorali, in modo che alcuni uomini politici, quelli che contavano nelle massime decisioni, sapessero da quale parte venivano migliaia di suffragi e come, spostati in altra direzione, avrebbero potuto far franare la sua potenza ed esaltare quella dell’avversario.

Il gioco era mortale e, da un punto di vista diabolico, affascinante, poiché tutto fondato su una ricerca continua di equilibrio fra i padroni della città. Bastava che quell’equilibrio si incrinasse un appalto di miliardi da una parte invece che dall’altra, diecimila preferenze a quel candidato invece che al suo collega di partito e succedeva la strage anzi più esattamente una sequenza di piccole stragi che lentamente, ricomponevano l’equilibrio giusto, la equa (pardon) spartizione della ricchezza, della influenza politica, delle commesse pubbliche. In un anno ci furono cento assassinii a Palermo.

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Ecco, c’è un particolare strano e inquietante, un rilievo quasi impercettibile, di cui bisogna prendere nota per capire i fatti di allora e soprattutto quelli di oggi. Morivano cioè manovali della mafia, piccoli killer, guardaspalle, sottocapi, talvolta qualche ras… In altre parole morivano solo mafiosi con la patente. Si sterminavano famiglie. In pochi mesi nello stesso posto, allo stesso modo furono uccisi il vecchio Gaetano La Porta e il figlio Sebastiano. Gli altri gli imperscrutabili, erano fuori dalla traiettoria dei proiettili, al di sopra. Intoccabili!

L’omicidio del commissario Tandoj, che allora parve la massima offesa allo Stato italiano (pensate quale tremenda caduta di dignità in pochi anni!) fu praticamente solo un equivoco, lo sgarro di alcuni volgari mafiosi di provincia. Poi avvenne la strage di Ciaculli. Una Giulietta carica di dinamite che avrebbe dovuto essere usata per una spedizione punitiva, dovette essere abbandonata in una strada di periferia; arrivarono alcune decine di carabinieri e un tenentino sollevò il cofano: ci fu un lampo che squassò il quartiere, del tenentino e di otto carabinieri si perse l’immagine, le cose più concrete che vennero ritrovate di loro furono un berretto, una scarpa e un dito con ancora l’anello matrimoniale. La nazione inorridì.

Cinicamente si può dire che erano ancora tempi civili quelli in cui la nazione poteva inorridire per una strage che, tutto sommato, era avvenuta per sbaglio, e di cui gli stessi autori furono probabilmente i primi a sgomentarsi. Il Parlamento tremò, e, sotto la spinta della pubblica emozione, decise di istituire finalmente la commissione antimafia. Venne applicato l’istituto del confino, furono rastrellati i cento mafiosi più feroci, persino Genco Russo, vecchio e quasi cieco venne inviato al confino in un paesino del lago di Garda.

Nell’ondata della paura, tutti alzarono le mani in modo che ognuno potesse pubblicamente controllare come fossero pulite, gli uomini politici non cercarono più voti mafiosi, né i mafiosi furono in condizione di offrirne, il pubblico funzionano assunse un cipiglio implacabile, gli inquirenti firmarono gli ordini di cattura, i poliziotti li eseguirono, migliaia di persone modificarono abitudini, amicizie e persino modo di vestire. Non ci fu nemmeno un omicidio mafioso fino al giorno della sentenza al processo di Catanzaro, per celebrare il quale si dovette costruire un gabbione speciale, tale da potere contenere la folla degli imputati.

Dentro c’erano quasi tutti, Pietro Torretta con la sua faccia famelica, il foulard di seta annodato al collo. Michele Cavataio corpulento e massiccio, imputato di dieci omicidi e tuttavia incline alla risata, Angelo La Barbera al quale un anno prima, mentre usciva da un night di Milano, avevano sparato una raffica di mitra, ed un proiettile gli era rimasto conficcato dentro il cervello; i chirurghi non avevano potuto estrarglielo e quel pezzettino di piombo gli galleggiava dentro al cranio, ogni tanto Angelo stralunava gli occhi e diceva due o tre parole prive di senso.

Dentro quel gabbione si ritrovarono proprio tutti gli uomini che, per un decennio, si erano impadroniti di Palermo e l’avevano insanguinata, che per un decennio si erano temuti, odiati, lottati e per i quali dall’una parte e dall’altra erano stati commessi decine, centinaia di omicidi. Ed ora invece, ogni mattina, s’incontravano al cancello di quel gabbione e si davano gentilmente la mano, si informavano della reciproca salute, si cedevano il posto sulla panca. commentavano malinconicamente insieme le notizie dei giornali: «Brigadiere, per cortesia, nell’intervallo ci fa portare due caffè!» Vestivano tutti di blu o di nero, le camicie bianche, un fazzolettino bianco al taschino.

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Avevano tutti gli occhiali neri. Sembrava una scena del «Caro estinto». Il processo durò mesi. Quasi tutti i testimoni ritrattarono, alcuni preferirono farsi condannare per falsa testimonianza, altri scomparvero e di loro non si seppe più niente, altri erano morti. Il processo finì con condanne insignificanti, la porta del gabbione si spalancò per quasi tutti, e fu un volo di uccelli neri in tutte le direzioni.

Alcuni ras tornarono a Palermo acclamati da piccole folle di fedeli, quelli che Sciascia chiama gli «ominicchi», cioè coloro che hanno il gusto della prepotenza, e tuttavia non hanno l’arte del comando e aspettano sempre qualcuno più intelligente o feroce di loro che governi i loro istinti ed interessi.

Altri ras invece presero la via del nord e furono quelli di naso più fino poiché avevano capito che, nel frattempo, sulle macerie della organizzazione mafiosa, un’altra se n’era fatalmente formata, i luogotenenti più audaci, i giovani più avidi e feroci, e comunque tutti quelli che erano riusciti a sfuggire alla cattura. Fra coloro che migrarono c’era anche Michele Cavataio, il quale, assolto dall’imputazione di quei dieci assassini, era stato condannato a tre anni con la condizionale per una inezia criminale, e sembrava aver capito esattamente quello che stava per accadere.

Attenzione al personaggio: possente, ridanciano, sfottente, manesco, lento nei movimenti come un pachiderma e tuttavia incredibilmente veloce nel trarre la pistola di tasca e sparare, ufficialmente designato alla successione di Pietro Torretta, il ras dalla faccia di lupo, uno dei pochissimi che era rimasto in carcere perché i cadaveri delle vittime glieli avevano trovati proprio nella stanza da pranzo. Dal ritorno di Cavataio a Palermo, infatti comincerà poi la nuova strage.

Una sera al viale Lazio dove la vita di Cavataio avrebbe avuto fine. Per qualche tempo tuttavia a Palermo non accadde niente. Nemmeno un crimine, uno scandalo, un attentato, sembrava che tutti stessero aspettando in angoscia le conclusioni della commissione parlamentare antimafia; una montagna di interrogatori e verbali dentro i quali si agitava una folla di personaggi, questori, prefetti, magistrati di rango, pretori, capi di polizia, deputati che erano stati ministri, ufficiali dei carabinieri, presidenti di banca, sindaci, direttori di enti pubblici, criminali di ogni genere, truffatori, assassini.

Accadde un miracolo! Per tutto un anno non ci fu un solo omicidio di mafia a Palermo. Ci fu solo un fatto comico: Luciano Liggio, processato alle assise di Bari per quindici omicidi, era stato assolto per insufficienza di prove. Nel carcere era stato curato del morbo di Pott che gli rodeva la spina dorsale, era ingrassato, fumava sigarette col bocchino. Alla lettura della sentenza ci fu persino un piccolo battimani. Essendo però accusato di altri dieci omicidi, per un processo ancora in fase istruttoria, Luciano Liggio, al momento stesso in cui usciva dal gabbione, avrebbe dovuto essere di nuovo catturato.

A Palermo il procuratore della repubblica Scaglione e il questore Zamparelli discussero a lungo, con ampi e colti richiami di giurisprudenza se il mandato di cattura era eseguibile sull’intero territorio nazionale oppure valido solo nel territorio di Corleone, paese natale di Liggio. Quando, infine, un oscuro maresciallo dei carabinieri andò a bussare ai cancelli della clinica romana dove Liggio aveva detto di farsi ricoverare, si apprese che già da quindici giorni era andato via. Fu il preludio comico alla grande tragedia che stava per ricominciare e che dura fino a oggi, stavolta con ben altri e terribili personaggi. È quello che stiamo cercando di capire.

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