“Superbonus” edilizio: l’esibizione di fatture oggettivamente inesistenti, destinate a creare crediti fiscali illegittimi, costituisce il fumus dei reati di falsa fatturazione e indebita compensazione

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 38161/2024, rinnova il principio secondo cui le frodi correlate all’abuso delle agevolazioni fiscali previste dalla normativa sul c.d. “superbonus” possono – in astratto – essere dirette sia nei confronti degli istituti di credito, sia dello Stato, con condotte concorrenti; le stesse generano un profitto identificabile sia nel denaro derivante dalla monetizzazione del credito, sia nella proiezione cartolare di tale credito, ceduto alle banche.

Il meccanismo truffaldino – che caratterizza la maggior parte delle azioni fraudolente connesse all’abuso delle agevolazioni fiscali previste dal D.L. 34/2020 – richiede dunque la presentazione di fatture per operazioni di fatto inesistenti, ma idonee a generare un credito fiscale illegittimo, cedibile e monetizzabile.

La pronuncia in commento esamina in dettaglio il ricorso presentato da alcuni contribuenti avverso la pronuncia del Tribunale per le misure cautelari reali competente territorialmente che – decidendo in merito all’appello avanzato dal PM contro l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che aveva respinto la richiesta di sequestro preventivo “impeditivo” delle società facenti capo ai medesimi – ha:

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In particolare, il contesto penalmente rilevante esaminato attiene ai reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti, indebita compensazione, falso, e illecito reimpiego, condotte attuate e consumate attraverso l’abuso delle agevolazioni fiscali previste dal D.L. 34/2020 che ha introdotto la misura del c.d. “superbonus” edilizio.

Al riguardo, e in via generale, come già rimarcato dalla Suprema Corte nella precedente sentenza n. 42012/2022, la fruizione dei bonus fiscali per gli interventi edilizi è indissolubilmente vincolata all’esecuzione completa degli interventi stessi, secondo quanto indicato nei relativi atti abilitativi e nei tempi previsti dagli atti stessi. Le agevolazioni sono infatti concesse per l’esecuzione di interventi edilizi: per questo i suddetti interventi devono essere completati, e sempre per questo – ad esempio – per un intervento di riduzione del rischio sismico con c.d. sismabonus non è sufficiente ultimare le opere strutturali e collaudarle, ma occorre comunque terminare l’intervento come dedotto nel titolo edilizio.

Il principio generale per discernere le spese agevolabili da quelle che non lo sono prevede che le stesse, per poter essere detratte con i vari bonus, devono essere fatturate e pagate durante il periodo di vigenza dei bonus stessi, quindi entro la scadenza, come chiaramente indicato ad esempio per il c.d. superbonus dalla circolare n. 24/E/2020, punto 4 (“criterio di cassa”).

La menzionata nota di prassi, peraltro, rileva che ai fini dell’individuazione del periodo d’imposta in cui imputare le spese stesse occorre fare riferimento:

  • per le persone fisiche, compresi gli esercenti arti e professioni, e gli enti non commerciali, al criterio di cassa e, quindi, alla data dell’effettivo pagamento, indipendentemente dalla data di avvio degli interventi cui i pagamenti si riferiscono. Ad esempio, un intervento ammissibile iniziato a luglio 2019, con pagamenti effettuati sia nel 2019 che nel 2020 e 2021, consentirà la fruizione del c.d. superbonus solo con riferimento alle spese sostenute nel 2020 e 2021;
  • per le imprese individuali, le società e gli enti commerciali, al criterio di competenza e, quindi, alle spese da imputare al periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2020 o al 31 dicembre 2021, indipendentemente dalla data di avvio degli interventi cui le spese si riferiscono e dalla data dei pagamenti. Si ritengono assimilabili a tali soggetti, altresì, le imprese minori di cui all’articolo 66, Tuir che, come chiarito con la circolare n. 11/E/2017, sono sottoposte a un regime “improntato alla cassa”.

Lo stesso Legislatore, infatti, ha richiamato per alcuni componenti di reddito – che mal si conciliano con il criterio di cassa – la specifica disciplina prevista dal Tuir, rendendo di fatto operante per tali componenti il criterio di competenza. Ciò, in particolare, avviene per la deduzione delle quote di ammortamento che rappresentano la tecnica contabile mediante la quale le spese qui in esame concorrono alla formazione del risultato di periodo.

Per le spese sostenute da soggetti diversi dalle imprese individuali, dalle società e dagli enti commerciali relative a interventi sulle parti comuni degli edifici, rileva, ai fini dell’imputazione al periodo d’imposta, la data del bonifico effettuato dal condominio, indipendentemente dalla data di versamento della rata condominiale da parte del singolo condomino.

In tale quadro, viene dunque proposto dalle diverse parti in causa ricorso per cassazione, articolato nel dettaglio sulle motivazioni in ordine alle violazioni di legge, riconducibili rispettivamente, per quanto qui di interesse, alla violazione delle prescrizioni recate dall’articolo 321, c.p.p. che, in particolare, ai primi 2 commi testualmente prevede che “quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, a richiesta del pubblico ministero il giudice competente a pronunciarsi nel merito ne dispone il sequestro con decreto motivato. Prima dell’esercizio dell’azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari”.

“Il giudice può altresì disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca”.

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Su tali basi, il sequestro preventivo impeditivo disposto nei confronti di una delle società coinvolte, sarebbe illegittimo in quanto l’appello del PM non si sarebbe confrontato con il contenuto del provvedimento reiettivo e sarebbe, pertanto, da considerarsi inammissibile.

In via analoga, non sarebbero stati indicati i reati posti a base del vincolo, né quelli la cui esecuzione avrebbe dovuto essere impedita; segnatamente, non sarebbe stata dimostrata la funzionalità della attività di falsa fatturazione all’evasione.

Il provvedimento impugnato, inoltre, sarebbe mancante sotto il profilo del fumus dei reati contestati, con riferimento sia al reato di indebita compensazione (non sarebbe, infatti, stato indicato in che misura sarebbe stata effettuata la compensazione illecita) sia con riferimento alle ipotesi ex articoli 483 e 479, c.p..

In via contestuale, le parti ricorrenti rilevano come non sarebbe stato identificato il “collegamento strumentale” tra le attività delle società vincolate e non vi sarebbe nessuna motivazione in ordine al pericolo cautelare in relazione alla richiesta di sequestro preventivo impeditivo; più in particolare, l’Autorità giudiziaria competente – a fronte delle argomentazioni del primo giudice – si sarebbe limitata a riproporre la precedente richiesta non affrontando proprio il tema del pericolo cautelare; l’ordinanza impugnata, inoltre, sarebbe illegittima perché non avrebbe dimostrato il “durevole asservimento” delle società vincolate alla consumazione dei reati in contestazione.

Con riferimento alla misura ablativa in questione[1]: “le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che anche il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca – e non solo quello disposto per le finalità di cui all’articolo 321, comma 1, c.p.p. – debba contenere la concisa motivazione anche del “periculum in mora”, spiegando le ragioni che rendono necessaria l’anticipazione dell’effetto ablativo della confisca rispetto alla definizione del giudizio, perché, nelle more del giudizio, il bene potrebbe essere modificato, disperso, deteriorato, utilizzato o alienato (si veda SS.UU., sentenza n. 36959/2021). Detto pericolo, in linea generale, prescinde dalla disponibilità della res da parte dell’autore del reato, nulla impedendo, in linea di principio, che il sequestro possa essere disposto ed eseguito anche quando il relativo oggetto sia nella disponibilità di terzi o finanche, quanto meno formalmente, sia di loro proprietà. Ne discende, allora, che …omissis… nella sua motivazione il giudice deve soffermarsi sulle qualità del terzo detentore soltanto se e nei limiti in cui queste possano incidere sull’esistenza del periculum”.

La questione in particolare attiene alla natura stessa del sequestro in disamina, che – come noto – può esser disposto:

  • al fine d’impedire l’aggravamento o la protrazione delle conseguenze del reato o la commissione di altri illeciti (c.d. “sequestro impeditivo”, a norma dell’articolo 321, comma 1, c.p.p.); ovvero
  • in funzione anticipatoria dell’eventuale confisca (ai sensi del successivo comma 2 dello stesso articolo 321, c.p.p.) e, in questo caso, di quale tipo di confisca, vale a dire diretta (articolo 240, c.p.) o per equivalente (articolo 12-bis, D.Lgs. 74/2000), ovvero, ancora, se esso sia strumentale ad ambedue gli scopi.

Come rimarcato dalla Suprema Corte con la pronuncia n. 41798/2024, la questione non è soltanto terminologica, o comunque formale, perché, a seconda che si tratti dell’una o dell’altra specie di sequestro, cambia il possibile oggetto.

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Il sequestro “impeditivo”, infatti, può attingere le “cose pertinenti al reato”, categoria più ampia del “corpo di reato” (articolo 253 c.p.p.), ma anche del catalogo previsto dall’ articolo 240 c.p., poiché comprende non solo le cose sulle quali o a mezzo delle quali il reato è stato commesso o che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche quelle legate solo indirettamente alla fattispecie criminosa, salvo che si tratti di collegamento puramente occasionale.

Nel caso, invece, di sequestro a fini di confisca, è la natura di quest’ultima che delimita il novero delle cose suscettibili di apprensione anche in fase cautelare. Ne discende che, laddove si tratti di confisca diretta, esse saranno quelle indicate dal menzionato articolo 240, c.p., le quali presuppongono tutte un collegamento più o meno stretto con il reato e, qualora si tratti – come nel caso che qui interessa – di prodotto o profitto di esso, incontrano il limite dell’appartenenza a persona estranea allo stesso.

Detto collegamento con il reato, invece, non è necessario in caso di confisca per equivalente, la quale, però, può colpire soltanto cose che siano nella disponibilità del reo, quand’anche questi formalmente non ne sia proprietario né abbia sulle stesse un diritto più limitato, reale o personale di godimento”.

 

La posizione della Corte

In tale preliminare cornice, la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso presentato dalle parti ricorrenti, ha preliminarmente rilevato che ai fini dell’adozione della misura cautelare del sequestro preventivo delle cose “pertinenti al reato” finalizzato a evitare la protrazione del reato, non è necessario accertare, a differenza di quanto richiesto per il sequestro ai fini di confisca, l’esistenza di un collegamento strutturale fra il bene da sequestrare e il reato commesso, in quanto la “pertinenza” richiesta dal comma 1 dell’articolo 321, c.p.p. comprende non solo le cose sulle quali o a mezzo delle quali il reato fu commesso o che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche quelle legate solo indirettamente alla fattispecie criminosa[2].

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L’espressione “cose pertinenti al reato”, cui fa riferimento il citato articolo 321, c.p.p., è infatti più ampia di quella di corpo di reato, così come definita dall’articolo 253, c.p.c., e comprende non solo qualunque cosa sulla quale o a mezzo della quale il reato fu commesso o che ne costituisce il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche quelle legate anche indirettamente alla fattispecie criminosa[3].

Non a caso e sempre in tema di sequestro preventivo impeditivo relativo al delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, la stessa Corte, con la precedente pronuncia n. 40865/2022, ha già avuto modo di rimarcare come siano suscettibili di apprensione i crediti dei terzi cessionari di cui all’articolo 121, comma 1, lettera b), D.L. 34/2020, convertito, con modificazioni, dalla L. 77/2020 (oggetto del c.d. “superbonus 110%”), posto che gli stessi, derivando dal diritto alla detrazione di imposta spettante al committente delle opere, costituiscono cose pertinenti al reato, senza che rilevi la condizione soggettiva di detti terzi.

Nella sentenza qui in commento, la Suprema Corte – contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti e in linea con la valutazione già espressa dal competente Tribunale – ha ritenuto corretta l’impostazione del PM che, nel suo atto di appello, ha puntualmente censurato le valutazioni del GIP in ordine alla insussistenza del pericolo cautelare; in particolare, la prefata Autorità giudiziaria ha rilevato che la libera disponibilità dei beni di cui si chiedeva il vincolo – anche tenuto conto delle intestazioni fittizie – rischiava di aggravare le conseguenze dei reati in contestazione e di favorire la consumazione di reati di analoga natura.

Non a caso, a conforto di tale assunto, nell’atto di appello viene rimarcato come i cantieri edili fossero ancora aperti e attivi e che soltanto l’azione dell’amministratore giudiziario nominato dal Tribunale per le misure di prevenzione era riuscita ad arginare la situazione di allarmante illegalità creata dagli indagati con grave pericolo anche per le finanze pubbliche.

In via sostanziale:

  • non sussiste la necessità di dimostrare il “collegamento strutturale” tra il bene vincolato e il reato;
  • ai fini del sequestro impeditivo è, infatti, sufficiente dimostrare il durevole e costante utilizzo del bene a fini illeciti;
  • il fatto che le società fossero state attinte da vincolo di prevenzione non ostava all’applicazione del vincolo penale tenuto conto della differente natura e finalità dei sequestri.

Per quanto concerne poi la contestazione circa la mancata dimostrazione del fumus dei reati posti alla base del vincolo, anch’essa è da considerarsi infondata atteso che il giudice nella valutazione appunto del “fumus commissi delicti”, quale presupposto del sequestro preventivo, non può limitarsi alla semplice verifica astratta della corretta qualificazione giuridica dei fatti prospettati dall’accusa, ma deve tener conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali, delle contestazioni difensive sull’esistenza della fattispecie dedotta e dell’effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, indicando, sia pur sommariamente, le ragioni che rendono sostenibile l’impostazione accusatoria e plausibile un giudizio prognostico negativo per l’indagato, pur senza sindacare la fondatezza dell’accusa (in tal senso si veda Cassazione, sentenza n. 8152/2023).

Secondo tale orientamento, dunque, anche a fondamento di una misura cautelare reale devono sussistere elementi di fatto, quantomeno indiziari, che consentano – tenendo conto della fase processuale – di ricondurre l’evento punito dalla norma penale alla condotta dell’indagato, pur non dovendo assurgere, il compendio complessivo, alla persuasività richiesta dall’articolo 273, c.p.p. per le misure di cautela personale.

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Il controllo del giudice, dunque, non deve fermarsi alla verifica della astratta sussumibilità del fatto in una ipotesi di reato, ma deve estendersi alla verifica dell’esistenza di un vincolo fra la cosa ed il reato per cui si procede, che deve essere a sua volta assistito da gravità indiziaria. Il fumus richiesto per l’adozione del sequestro preventivo è costituito dalla esistenza di indizi di reato, cioè dalla esistenza di elementi concreti che facciano apparire verosimile che un reato sia stato commesso, sicché è necessaria una verifica puntuale e coerente delle risultanze processuali, in base alle quali vengono in concreto ritenuti esistenti il reato configurato e la conseguente possibilità di ricondurre alla figura astratta la fattispecie concreta” (in tal senso, cfr. Cassazione, sentenza n. 20341/2024).

Si tratta, prosegue la Suprema Corte, di una giurisprudenza che puntualizza, senza contrastarlo, il principio di diritto già affermato dalle Sezioni Unite (si veda, nel merito, sentenza n. 7/2000) secondo cui in tema di sequestro preventivo la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare, da parte del Tribunale del riesame (e della stessa Suprema Corte) non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità del soggetto indagato in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale ipotizzata, mediante una valutazione prioritaria della antigiuridicità penale del fatto.

Le condizioni generali per l’applicabilità delle misure cautelari personali, indicate nel citato articolo 273, c.p.p., non sono estensibili, per la loro peculiarità, alle misure cautelari reali, e da ciò deriva che, ai fini della verifica in ordine alla legittimità del provvedimento mediante il quale sia stato ordinato il sequestro preventivo di un bene pertinente a uno o più reati, è preclusa ogni valutazione riguardo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza, alla gravità di essi e alla colpevolezza dell’indagato.

Diversamente, precisa la Corte, si finirebbe con l’utilizzare surrettiziamente la procedura incidentale di riesame per una preventiva verifica del fondamento dell’accusa, con evidente usurpazione di poteri che sono per legge riservati al giudice del procedimento principale.

In tale quadro, dunque, si rileva nel caso qui in commento che le frodi correlate all’abuso delle agevolazioni fiscali previste dalla normativa sul c.d. “superbonus”:

  • possono – in astratto – essere dirette sia nei confronti degli istituti di credito, sia dello Stato, con condotte concorrenti;
  • generano un profitto identificabile sia nel denaro derivante dalla monetizzazione del credito, che nella proiezione cartolare di tale credito, ceduto alle banche.

Il meccanismo truffaldino – che caratterizza la maggior parte delle azioni fraudolente connesse all’abuso delle agevolazioni fiscali previste dal D.L. 34/2020 – richiede dunque la presentazione di fatture per operazioni di fatto inesistenti, ma idonee a generano un credito fiscale illegittimo, cedibile e monetizzabile.

In merito, come già affermato dalla Suprema Corte con la già menzionata pronuncia n. 42012/2022, integra il “fumus” del delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti la condotta di chi, avendo monetizzato il credito derivante dalla realizzazione di opere suscettibili di fruire dell’agevolazione fiscale del c.d. “superbonus 110%” mediante la sua cessione o lo “sconto in fatturaex articolo 121, D.L. 34/2020, effettui la fatturazione “in acconto” di spese relative a opere non ultimate o per le quali non sia stato emesso, da un tecnico abilitato, uno “stato di avanzamento lavori” attestante l’esecuzione di una porzione dell’intervento “agevolabile” e la congruità delle spese per esso sostenute, posto che l’emissione di tali fatture mira a simulare l’esistenza di spese in concreto non ancora sopportate e a creare fittiziamente il presupposto costitutivo del diritto alla detrazione.

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Peraltro, sempre in tema di reati tributari, la stessa Corte di Cassazione già aveva rimarcato che anche i crediti di imposta ceduti ai sensi del prefato articolo 121, possono dar luogo, in quanto derivanti direttamente dal diritto originario in capo al committente alla detrazione d’imposta di costi in realtà non sostenuti, al delitto previsto dall’articolo 10-quater, comma 2, D.Lgs. 74/2000, se utilizzati in compensazione dal cessionario, avendo natura di crediti non spettanti o inesistenti (cfr. al riguardo, Cassazione, sentenza n. 45558/2022).

Nella prefata sentenza, peraltro, si precisa che:

  • in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex articolo 321, comma 2, c.p.p., è persona estranea al reato, nei confronti della quale non può essere disposta la misura di sicurezza ai sensi dell’articolo 240, comma 3, c.p., colui il quale non abbia tratto vantaggi dall’altrui attività criminosa e che sia in buona fede, non potendo conoscere, con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, l’utilizzo del bene per fini illeciti;
  • in tema di confisca, rientra nella nozione di “persona estranea al reato”, in danno della quale non possono essere confiscate cose o beni a essa appartenenti ai sensi dell’articolo 240, comma 3, c.p., richiamato dall’ultimo comma dell’articolo 2641, cod. civ., il soggetto che non ha concorso alla commissione del reato, né ha tratto vantaggio dall’altrui attività criminosa, serbando una condotta in buona fede; inoltre, è persona estranea al reato nei cui confronti non può essere disposta la misura di sicurezza in esame, ai sensi dei commi 2 e 3 dell’articolo 240, c.p., il soggetto che non abbia ricavato vantaggi e utilità dal reato e che sia in buona fede, non potendo conoscere – con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta – l’utilizzo del bene per fini illeciti o il rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato.

È pur vero, conclude la Corte, che nel caso esaminato, come dedotto, mancano le querele degli istituti di credito che hanno monetizzato i crediti inesistenti e che, pertanto, i reati di truffa ai danni delle banche sono improcedibili (la truffa ai danni dello Stato infatti non risulta – alla data di esame – contestata) ma è altresì vero che è stato dimostrato, con motivazione persuasiva ed esaustiva, il fumus dei reati di falsa fatturazione, indebita compensazione, riciclaggio e autoriciclaggio, il che legittima l’applicazione del vincolo cautelare contestato.

In conclusione, secondo la Suprema Corte, non superano la soglia di ammissibilità le doglianze che contestano la motivazione, deducendo (senza allegazione degli elementi di prova travisati) che le società erano operative in quanto avevano dei dipendenti; si tratta, in definitiva, di contestazioni non autosufficienti dirette a contestare non una violazione di legge, ma una parte – peraltro non decisiva – della motivazione, in contrasto con lo statuto delle impugnazioni che governa la materia delle misure cautelari reali.

 

[1] Si veda, in dettaglio, Cassazione n. 41798/2024.

[2] Si veda, in dettaglio, Cassazione n. 9149/2015 nella quale, in applicazione del principio enunciato, la Corte ha rigettato il ricorso avverso il sequestro preventivo, a fini impeditivi, di una vettura abitualmente adoperata per attività di cessione di sostanza stupefacente.

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[3] In tal senso si veda Cassazione n. 34986/2013, in cui, la Corte ha ritenuto cosa pertinente al reato di tentata truffa ai danni dello Stato una somma di denaro corrispondente alle disponibilità detenute all’estero e che si intendeva far rientrare in Italia in base al c.d. “scudo fiscale“, simulando l’esistenza delle condizioni richieste a tal fine dalla legge.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Accertamento e contenzioso.



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