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Mentre l’Italia e il mondo erano concentrati a seguire l’inserimento di Donald Trump alla Casa Bianca, la Corte Costituzionale si è pronunciata sull’ammissibilità del quesito referendario sull’autonomia differenziata, giudicandolo inammissibile e segnando indubbiamente un punto a favore del governo.
Non si è trattata di una “vittoria di Pirro” come qualcuno ha troppo frettolosamente etichettato la notizia. Sicuramente per l’esecutivo si tratta di un ostacolo in meno da superare e dell’ennesimo riconoscimento della legittimità della riforma, come già evidenziato dalla pronuncia precedente della Consulta. In attesa di leggere le motivazioni, la Corte evidenzia come: “L’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari. Ciò pregiudica la possibilità di una scelta consapevole da parte dell’elettore”. Un colpo per le opposizioni che già intravedevano la possibilità di uno scontro diretto con il governo sul terreno referendario, consapevoli che il referendum per loro stessa natura celano l’incompatibilità tra le forze d’opposizione, per storia, programmi e finalità.
Il governo respira e può dunque concentrarsi sulle modifiche da apportare alla Legge Calderoli come indicato dalla Corte Costituzionale, senza dover percorrere una campagna referendaria che avrebbe spaccato il paese, per i toni e per le motivazioni addotte dalle opposizioni nel contrasto ad una riforma che se non altro ha il merito di definire e sistematizzare quella riforma del titolo V realizzata in fretta e furia a colpi di maggioranza nelle ultima settimane di vita del governo Amato II, era il 2001. Per questo è parso risibile a molti, soprattutto a chi a memoria, che in Italia è di per sé corta, che si oppone alla riforma oggi, sono gli stessi o gli eredi politici di chi quella modifica costituzionale la fece.
Per Giorgia Meloni è anche l’opportunità per concentrare le forze nelle altre due grandi riforme, quella del “premierato”, e quella della “giustizia”, entrambe percepite come necessarie e urgenti, ma affrontare nel dibattito pubblico in maniera differente. Sulla prima lo scontro è politico e ideologico, con la sinistra unita nell’opporsi in toto a quella che giudicava – con la solita enfasi tardo aventiniana – come una minaccia alla “democrazia”.
Diversa la questione della riforma Nordio, dove lo scontro è tra governo e magistratura, intesa come Anm e Magistratura Democratica, con un’approvazione politica che spazia ben oltre i confini del centrodestra e con la sinistra oltranzista a fare da spalla a chi si oppone dall’interno della magistratura alla riforma. Il padre della riforma, il ministro Calderoli, esultava e, al Corriere della Sera, dichiarava che “finalmente posso lavorare in pace senza più avvoltoi che mi girano sopra la testa”. Del resto la sentenza della Corte sull’Autonomia aveva di per sé – come avevamo scritto – inficiato il quesito referendario.
Per il governatore del Veneto Zaia è il momento di procedere e dichiara: “Avanti tutta”, soggiungendo però che adesso è il momento per un “dialogo costruttivo per migliorare la legge insieme”. Invito che anche il vicepremier e segretario azzurro Tajani rilancia, sostenendo che ora “tocca al parlamento migliorare la legge”. La soddisfazione leghista fa bene a tutta la coalizione provata dal dibattito interno sul terzo mandato, e sulla questione Veneto e sarà l’occasione per rinsaldare le fila in parlamento, mentre per le opposizioni dovrebbe – ma il condizionale è d’obbligo – approcciarsi con maggiore coerenza storica a una materia che è già parte integrante della nostra legge fondamentale dal 2001.
Il tema dell’autonomia però è anche una richiesta che viene dal basso, dalle comunità locali, dalla sempre maggiore legittimazione che esse godono agli occhi dei cittadini e in un certo qual modo dalla distanza percepita verso la burocrazia dello stato centrale. La questione dell’Autonomia è un tema storico, che ha accompagnato in forma e con sostantivi diversi lo sviluppo delle nostre istituzioni. Un’altra pagina incompleta da definire.
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