Claudio Maria Ciacci
24 gennaio 2025 12:20
di CLAUDIO MARIA CIACCI e NICCOLÒ RUSCELLI
Il 28 gennaio, agricoltori da tutta Italia scenderanno di nuovo in strada, pronti a lottare per le loro istanze e per il futuro del settore agricolo. Non è solo una protesta contro l’aumento vertiginoso dei costi energetici, ma un grido di allarme contro una serie di politiche europee che minano la competitività delle nostre imprese agricole e l’autosufficienza alimentare del Paese. La crescente importazione di prodotti da paesi terzi, spesso privi dei controlli di qualità e delle normative ambientali che regolano la produzione in Europa, sta mettendo a rischio la sostenibilità delle nostre coltivazioni e la vita di migliaia di agricoltori.
L’Italia, che in passato è stata una delle punte di diamante della produzione agricola mondiale, rischia di vedere sacrificata la propria identità produttiva su un altare ideologico che predica la transizione ecologica, ma che in realtà promuove politiche che avvantaggiano paesi come la Cina, con produzioni inquinanti e a basso costo. È ora di capire che le vere soluzioni per l’ambiente non si trovano nei compromessi ideologici, ma nel dialogo tra chi vive e lavora la terra e chi, al contrario, decide da lontano senza comprendere le vere necessità di chi è sul campo.
Il 28 gennaio non si tratta solo di un blocco delle strade, ma di una manifestazione di sopravvivenza per un’intera categoria che si sente sempre più abbandonata dallo Stato e da politiche che, purtroppo, non ascoltano le sue esigenze. Se vogliamo veramente costruire un futuro sostenibile, dobbiamo tornare a dare ascolto a chi è in prima linea nella protezione del nostro territorio e nella produzione di cibo sano e di qualità, alcuni punti degli agricoltori chiedono che:
governo e regioni dichiarino lo stato di crisi socioeconomico della produzione primaria per assumere azioni urgenti e straordinarie e salvare le aziende produttive e che si avvii un piano strategico per il superamento delle crisi di comparto delle aziende produttive rilanciandone la funzione sociale e aprendo una nuova stagione di riforme fondate sulla sovranità alimentare.
Se l’ecologia è il futuro, allora lasciamo che siano gli agricoltori a governare la terra e non i teorici che, in nome del verde, hanno già distrutto l’economia e il buon senso.
Il dibattito sull’ambiente è diventato terreno di scontro per chi cerca di conquistare consensi, in un gioco politico che spesso sfrutta i temi ecologici come una bandiera, anziché come una reale esigenza per il futuro delle nostre generazioni. Pochi, infatti, sono coloro che realmente difendono l’ambiente con visione e coerenza, senza cadere nel tranello del populismo o dell’opportunismo elettorale.
Un esempio lampante è la recente onda di attivismo che ha travolto la scena politica con personaggi come Greta Thunberg, che non sono stati i primi a lanciarsi in battaglie ecologiche. Già nel 1982, il leader missino Pino Rauti firmava la prima proposta di legge in difesa dell’ambiente, un’iniziativa che rappresentava una visione lontana da quella che oggi vediamo nei movimenti più estremisti e ideologizzati. Ancora prima, il pensiero ecologista di Rutilio Sermonti e l’iniziativa di Fare Verde, fondata da Paolo Colli, testimoniavano una volontà di salvaguardare il nostro ambiente con un approccio pragmatico, sostenibile e concreto.
Oggi, invece, siamo costretti ad assistere all’ipocrisia di alcuni gruppi, come gli “eco vandali” di Ultima Generazione, che sostengono falsamente che le emissioni continuino ad aumentare senza guardare alle statistiche ufficiali che raccontano un altro scenario. Dal 2004 al 2019, le emissioni di CO2 in Italia sono crollate da 8 tonnellate per abitante a 5, mentre in Cina, il paese che più di tutti contribuisce al riscaldamento globale, le emissioni sono triplicate. Eppure, chi si fa portavoce di un’ideologia ecologista senza fondamento non guarda questi numeri, preferendo additare i paesi europei come i colpevoli principali.
Il paradosso della transizione ecologica è sotto gli occhi di tutti: si impongono vincoli e paletti a nazioni come l’Italia, con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale, mentre la Cina continua a esportare prodotti inquinanti grazie al suo basso costo di produzione, alimentato da enormi fonti inquinanti come il carbone. Nel contempo, l’Europa viene messa in ginocchio da politiche che distruggono l’economia, in nome di un Green Deal che non ha mai dato i risultati sperati.
Questa “dittatura ecologica” rischia di trasformarsi in una vera e propria catastrofe per i nostri territori. Chi vive e lavora nei luoghi più sensibili, come gli agricoltori e i cittadini delle zone rurali, è costretto a fare i conti con decisioni politiche prese da lontano, da chi non ha alcuna conoscenza del territorio e dei suoi equilibri. La manutenzione dei fiumi, ad esempio, è un compito che dovrebbe essere affidato a chi conosce la terra e la vive ogni giorno, e non a chi impone leggi astratte che ignorano le reali necessità locali.
L’idea di lasciare che la manutenzione del territorio venga gestita da cittadini e lavoratori che ogni giorno affrontano le sfide di un paesaggio naturale complesso è forse la chiave per salvare l’Italia da disastri naturali, frane e alluvioni che si ripetono ogni anno. La politica dovrebbe supportare questi soggetti, anziché ostacolarli con regolamenti inutili e dannosi.
Il futuro non può essere costruito su ideologie che in nome dell’ecologia rischiano di distruggere l’economia e il benessere sociale. Se vogliamo davvero preservare l’ambiente, non possiamo ignorare la necessità di un approccio realistico, che combini la protezione della natura con il supporto a chi lavora e vive sul territorio. Solo così si può costruire un futuro davvero sostenibile, in cui la crescita economica e la salvaguardia dell’ambiente non siano in contrapposizione, ma si rafforzino a vicenda.
Il controllo delle risorse, la manutenzione dei territori e il rispetto delle esigenze locali devono essere al centro della politica ambientale, anziché inseguire ideologie che rischiano di compromettere l’intero equilibrio sociale e produttivo del nostro paese.
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