Collezionare è il mio modo per condividere l’arte

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Ho incontrato la prima volta Giulio Raffaele, e parte della sua collezione, in uno dei quattro eventi collaterali della mostra “Memoria Emotiva” inaugurata nella galleria “Colla.Super a Milano”. L’avevo ascoltato mentre raccontava la sua esperienza di giovane collezionista e condivideva il sogno di dar vita, in futuro, ad un progetto per condividere e far fruire le opere che ora sono a casa sua. Alcuni temi di quella conversazione tornano in questa speciale chiacchierata nata anche grazie alla sua pagina social. Silent Art Explorer, questo il suo profilo instagram, è anche il nome del progetto che porta avanti da qualche tempo e la cui missione è supportare i talenti emergenti dell’arte e della cultura in generale. Giulio si è dato almeno tre obiettivi: il primo è acquisire opere di emergenti, valorizzarle e condividerle con la comunità dell’arte, il secondo è dare supporto a progetti di professioniste e professionisti dell’arte e della cultura, spaziando dalle residenze d’artista, alla curatela di mostre, alle performance di teatro contemporaneo. Il terzo obiettivo è “facilitare la costruzione di una comunità coesa e virtuosa dell’arte emergente”. Sono sue parole sue e svelano un approccio anche politico, come mi spiegherà meglio durante la chiacchierata per cui mi sono fatto invitare a casa sua. Gli ho chiesto di raccontarmi, quasi pezzo per pezzo, la storia che c’è dietro ogni suo acquisto o di quelle opere che gli sono state regalate in cambio del finanziamento di un progetto, come è successo per Iva Lulashi e il padiglione dell’Albania all’ultima Biennale di Arte a Venezia. Mi avvisa, poi, che mancano delle opere, alcune non ancora appese e altre due che si trovano a Napoli: una di grande formato, per cui non c’è spazio nell’abitazione milanese e che attualmente è nella casa dei suoi genitori; l’altra, invece, è nell’ingresso di SuperOtium, un boutique art hotel con cui collabora per diversi progetti.

Iva Lulashi

Giulio possiede opere di qualsiasi genere e su qualsiasi supporto: pittura, scultura, poesia visiva, fotografia, libri d’artista, serigrafie, tecnica mista, acquerello, e aggiunge che c’è spazio anche per fanzine, magazine e poster. Non ha ancora acquisito videoarte, anche se non lo esclude, anzi sta prendendo lentamente confidenza con questa pratica che lo attrae moltissimo. Alle pareti vedo opere e lavori di Jacopo Benassi, Sevana Holst, Thomas Berra, Rebecca Moccia, Nico Vascellari, Giovanni De Francesco, Kensuke Koike, Erk14 e tanti altri. Mi indica la prima opera acquistata, “Solo” un quadrittico del designer Giorgio Scorza Priano e poi l’ultima arrivata che è “Ieri I”, opera su carta dell’artista ucraina Alissa Marchenko che ha realizzato una serie di performance e opere per un progetto di ricerca supportato da Silent Art Explorer in collaborazione con la galleria BianchiZardin.

Tra le tante cose mi mostra anche un taccuino su cui sta costruendo una speciale collezione parallela di micro-contributi di artiste e artisti a cui chiede di dedicargli una traccia del loro immaginario artistico. “Data l’impronta di improvvisazione, viene fuori di tutto, è molto divertente” ha precisato. Prima di incontrarci gli avevo chiesto se c’è, e quale potrebbe essere, il filo conduttore della sua collezione e mi ha scritto che la sua convinzione è “che il privato sia sempre politico e che l’arte sia sempre politica. Credo che una persona che colleziona arte contemporanea, soprattutto se emergente, costruisce e custodisce una narrazione politica del proprio tempo. Dunque, concentro la ricerca della collezione su temi che percepisco come rappresentativi dell’epoca storica che stiamo vivendo e che credo vadano coltivati per sviluppare e diffondere una visione politica, poetica e filosofica della condizione umana presente. Presto molta attenzione alla ricerca e alla pratica artistica sui temi della solidarietà e della solitudine, del senso del tempo, del femminismo e dell’identità di genere, dell’elaborazione della memoria e delle emozioni”. Effettivamente molte opere sono di artiste donne e tra tutti i soggetti prevalgono quelli che richiamano un certo senso di solitudine. Gli ho chiesto se le opere d’arte fanno compagnia e la risposta che mi ha dato non è scontata per un collezionista. Non la anticipo, la trovate nella chiacchierata.

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In alto Jacopo Benassi; in basso Sevana Holst.

SD: Umberto Eco ha scritto “la principale funzione della biblioteca, almeno la funzione della biblioteca di casa mia e di qualsiasi amico che possiamo andare a visitare, è di scoprire dei libri di cui non si sospettava l’esistenza, e che tuttavia si scoprono essere di estrema importanza per noi”. Potrebbe valere anche per una collezione d’arte e cioè sorprendere?

GR: Concordo pienamente, credo che una collezione d’arte abbia anche l’importante funzione di sorprendere chi la contempla secondo due prospettive: attraverso la scoperta delle singole opere e attraverso la scoperta del dialogo delle opere tra di loro e con la realtà in cui esse vivono. Nella prima prospettiva, custodisco una foto scattata da Mario Schifano – su cui l’artista è intervenuto con colori a smalto – parte di una serie più ampia di foto che ha scattato nel tempo a soggetti della natura più varia. Credo che chi vede l’opera per la prima volta, si sorprenda del fatto che anche un collezionista con un budget molto limitato come me, conducendo una ricerca molto paziente, può acquisire opere di grandi talenti dell’arte storicizzati. In merito alla seconda prospettiva, credo che una delle cose che sorprendono della mia collezione sia ciò che la tiene insieme, il fatto che spazi tra opere, azioni e visione senza soluzione di continuità. L’attività che conduco va oltre l’acquisto e l’accumulo di oggetti artistici: si fonda sulla costruzione di relazioni umane, sull’intuire le potenzialità di un progetto e supportarlo fidandosi completamente di chi lo ha ideato, sul concepire l’arte come un organo fondamentale dell’ecosistema della vita quotidiana, sul percepire una responsabilità etica e morale di contribuire a costruire un mondo migliore attraverso l’arte.

SD: “La poesia è poesia quando porta in sé un segreto” dice Ungaretti in un’intervista. Potremmo dire che è così per l’arte in generale e per quella contemporanea in particolare? Pensi che opere che hai collezionato contengono un qualche segreto?

GR: Mi associo alle fila di chi crede che una delle caratteristiche fondamentali dell’arte è condurre le persone a porsi domande, spesso senza trovare una risposta. Forse è questo il segreto che contiene la collezione che costruisco, fare in modo che, nel contemplarla, sia io che le persone a cui la mostro ci ritroviamo a porci domande che conducono ad altre domande, in una ricerca senza fine del senso delle cose.

SD: “Ogni immagine più che del soggetto ci parla dello sguardo dell’autore” si legge nel libro di Gayford e Hockney. Possiamo pensare che una collezione ci parli molto dei collezionisti, la tua cosa dice?

GR: In linea di massima, basandomi sulla conoscenza diretta e indiretta di collezioniste e collezionisti in giro per il mondo, credo che sia così. Ma bisognerebbe anche ricordare che vi sono persone che comprano arte come oggetti d’investimento da tenere in un caveau in attesa di rivenderli per generare un profitto, e credo che queste persone si pongano in una prospettiva impersonale rispetto alle proprie collezioni. Sia ben chiaro, lo ritengo un approccio del tutto legittimo, ma in questi casi la collezione può rivelare poco, o addirittura nulla, della persona che colleziona. Riguardo alla mia collezione, forse dice di me che credo nel prendersi cura delle persone che cercano di mostrare nuovi modi di interpretare la realtà e nel supportarne il lavoro. È un modo per restituire la guida e il supporto che ho ricevuto, e ancora oggi ricevo, dalle persone che sono state e sono miei mentori di vita.

Giovanni de Francesco, opera di restituzione per il finanziamento del progetto LOVE-LIES-BLEEDING di Phoebe Zeitgeist.

SD: Riprendo Thomas Bernhard che in ‘Antichi Maestri’ scrive “Per quanto ciò sia assurdo, quando leggo un libro ho comunque la sensazione e la convinzione che il libro sia stato scritto solamente per me, se guardo un quadro ho la sensazione e la convinzione che sia stato dipinto solamente per me…”. Come collezionista d’arte hai mai provato la stessa cosa davanti ad un’opera e hai mai avuto la tentazione di commissionare qualcosa che fosse solo per te?

GR: Assolutamente sì, questa cosa mi è successa con un’opera di Rebecca Moccia, artista emergente rappresentata dalla Galleria Mazzoleni. Eravamo al Miart 2023 e la galleria mi ha mostrato alcune recentissime opere di Moccia, parte della sua ricerca sulla solitudine come emozione collettiva, culminata nel corpus “Ministry of Loleliness”. L’opera in questione è una fotografia scattata con una macchina fotografica termica di una pagina di una copia de “The Human Condition” di Hannah Arendt, conservata nell’Hannah Arendt Center, e su cui Arendt stessa aveva scritto delle annotazioni a penna. In quel periodo, stavo leggendo proprio questo libro che stava contribuendo a trasformare profondamente il mio modo di concepire il mondo. Appena ho visto l’opera ho pensato “è destino, quest’opera è fatta per me” e l’ho comprata immediatamente. Nella collezione custodisco anche tre opere che ho commissionato, nate da conversazioni casuali o meno con le persone che le hanno realizzate. Un’opera l’ha realizzata il mio caro amico Marco Ferra, si tratta di un quadro di due metri e mezzo per settanta centimetri che ritrae un polpo. Le altre due opere sono due sculture realizzate da Vera Berardi. Una di queste è nata per puro caso, in seguito alla rottura di una scultura di ceramica mentre era in forno. Ho visto la foto della scultura in frantumi che l’artista aveva pubblicato su Instagram e le ho scritto “Non buttarla, la compro io!”. L’artista ci ha riflettuto un po’ e ha ideato una nuova opera dalle rovine della precedente.

SD: Alan Bennett nel suo scritto ‘I quadri che mi piacciono’ confessa: “Il mio criterio di giudizio è piuttosto superficiale, e mi riesce difficile separarlo dall’idea di possesso. Così so che un quadro mi piace solo quando ho la tentazione di portarmelo via nascosto sotto l’impermeabile”. Concordi?

GR: Su questo sono in disaccordo. Da qualche tempo sto conducendo un’attività molto profonda di decostruzione delle dinamiche psicologiche e comportamentali derivanti dall’educazione che ci viene impartita nel sistema patriarcale e capitalistico occidentale. Uno degli aspetti su cui sto lavorando di più è proprio il senso del possesso. Sto cercando di abbandonare questo approccio su molti fronti della mia vita, nelle relazioni amorose, nel lavoro e anche nel rapporto con le opere d’arte che acquisisco. Da questo punto di vista, sto lavorando sul reinterpretarmi come un custode temporaneo di opere che sono di mia proprietà solo per una mera questione contrattuale, ma che in realtà appartengono al genere umano intero. In questo senso, direi che so che un quadro mi piace quando sento di volermene prendere cura finché vivrò.

SD: Pierre Le-Tan, parlando dei collezionisti che aveva incontrato, scrive “un collezionista avveduto compra sempre pezzi estranei alle mode”. Ti senti di condividere questo pensiero che sembra un consiglio?

GR: Condivido il consiglio pienamente. Acquisisco opere e sostengo progetti solo quando rispecchiano il mio gusto, le mie emozioni e la convinzione che raccontino una storia di valore per comprendere la nostra epoca, oggi e in futuro. Come in tutti i settori, le mode sono fortemente influenzate da fattori contingenti di mercato e possono rivelarsi inconsistenti appena si guarda oltre il breve periodo. Personalmente, cerco di concentrarmi su emergenti che individuano tendenze dell’umano che avranno influenza nel medio-lungo periodo. Poi c’è anche una considerazione molto pratica, le opere che vanno di moda, spesso, costano molto di più della media e nella maggior parte dei casi non potrei neanche permettermele.

A sinistra, Cristina De Paola; in basso a destra Hao Wang; in alto a destra Agnese Garrone

SD: “Gli oggetti sono sempre stati trasportati, venduti, scambiati, rubati, recuperati e perduti. Le persone hanno sempre fatto regali. Quello che conta è come racconti la loro storia” si legge nel romanzo “Un eredità di avorio e ambra”. C’è una storia che vorresti raccontare legata ad un’opera d’arte?

GR: A proposito di regali, c’è un’opera del 2024 di Iva Lulashi che racchiude in sé una delle mie storie preferite della collezione. È la storia della nascita di un legame profondo tra artista e collezionista che va ben oltre l’acquisizione di un’opera. Era l’agosto del 2021 e scorrendo il feed di Instagram mi ero imbattuto in un post in cui il collezionista Giuseppe Iannaccone raccontava un episodio spiacevole avvenuto, qualche giorno prima, durante una mostra personale dell’artista Iva Lulashi. Iannaccone e Lulashi avevano organizzato la mostra in una chiesa di Corniglia, città cara al collezionista, e alcune persone avevano protestato per il fatto che i soggetti rappresentati da Lulashi fossero esposti in chiesa. Il compromesso cui si giunse fu che alcune opere fossero rimosse dalla mostra e il collezionista ritenne poi opportuno esporre in pubblico il proprio punto di vista riguardo a quanto accaduto. Venni così a conoscenza del lavoro di Iva Lulashi, le scrissi su Instagram esprimendole solidarietà per la spiacevole vicenda e le chiesi di poter consultare un catalogo delle sue opere. Da lì a qualche mese, andai a vedere dal vivo le opere di Lulashi e comprai “Sveglia!” una tela di piccolo formato di cui mi ero completamente innamorato. Da quel momento, ho avuto l’opportunità di conoscere meglio Iva un po’ alla volta. Nel tempo, ha preso forma una bella amicizia, fondata sulla stima reciproca, ho compreso che persona stupenda sia Iva, ho iniziato a frequentare le mostre e le feste che Iva organizza nella sua casa-studio, ho potuto apprezzare il suo impegno nel dare visibilità ad artiste e artisti emergenti, e ho conosciuto tante persone altrettanto fantastiche che fanno parte della sua vita. Flash forward a gennaio 2024: arriva la meravigliosa notizia che l’Albania ha scelto Iva Lulashi per rappresentare il Paese alla 60° Biennale di Venezia. All’immensa gioia per questo evento così importante per la sua carriera, segue subito la necessità di ideare, progettare e realizzare il padiglione dell’Albania e tutto il suo programma pubblico, avendo a disposizione poco più di due mesi. Iva organizza una squadra fantastica composta da eccellenti professioniste e professionisti dell’arte e viene deciso di lanciare una raccolta fondi per sostenere la realizzazione del progetto. Quando ho ricevuto l’invito a sostenere il padiglione dell’Albania, ho provato immediatamente una fiducia completa e incondizionata nei confronti di Iva e della squadra, anche senza sapere cosa avessero in mente di realizzare. Dunque, ho deciso di fornire il mio contributo concreto al progetto e ne ho seguito con trepidazione gli aggiornamenti fino al fantastico giorno dell’inaugurazione del padiglione intitolato “Love as a glass of water”, il 19 aprile 2024. Il padiglione dell’Albania è stato uno dei più apprezzati dal pubblico della Biennale ed io sono immensamente fiero di Iva e di tutta la squadra che ha animato il progetto. Iva ha voluto ringraziare chi ha dato un particolare supporto al progetto con un’opera realizzata appositamente per l’occasione. Ed è così che, oggi, nell’ingresso di casa mia si trova l’angolo di Iva Lulashi, che raccoglie due opere, uno stupendo calice di vetro che ci hanno regalato come ricordo del padiglione, e il catalogo del progetto.

SD: Maurizio Cattelan in un’intervista ha paragonato le sue opere a degli orfani in cerca di una nuova famiglia. Ti piace pensarti nei panni di un genitore adottivo di un’opera d’arte e forse anche di un artista?

GR: Direi che mi vedo assolutamente così, addirittura una volta ho letteralmente adottato un’opera del mio caro amico Valerio Sarnataro (in arte Erk14) per sostenere l’organizzazione di una sua mostra personale a Napoli, a Palazzo Fondi. Qui torna il principio che menzionavo prima riguardo all’essere custode temporaneo dell’arte. Negli ultimi anni ho raggiunto la consapevolezza che la mia missione è offrire tutto il sostegno che posso alle artiste e agli artisti emergenti, adottandole e adottandoli come se fossero figlie e figli in età adulta con cui costruire un dialogo che possa essere loro di aiuto nello sviluppare la propria ricerca e la propria pratica. Riguardo all’opera in sé, dico sempre che, nel momento in cui acquisisco un’opera, diviene mia responsabilità condividerla con la comunità di cui faccio parte e valorizzarla nel tempo. Allo stesso modo, quando mi avvierò sul viale del tramonto della mia vita, sarà mia responsabilità trovare una o più persone a cui affidare la collezione per farla vivere attraverso le generazioni. Parafrasando Hannah Arendt, c’è questo di stupendo nelle opere d’arte e cioè che è nella loro natura intrinseca di sopravvivere a chi le ha create e a chi le custodisce.

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Giulio Raffaele

SD: Quando scegli un’opera segui più l’orecchio (i “cosa si dice” sull’artista) o il cuore (e cosa ti dice)?

GR: Seguo l’innamoramento, che nella maggior parte dei casi mi porta verso opere di cui approfondisco la ricerca. Se all’innamoramento corrisponde la convinzione che la ricerca dietro quell’opera sia di valore, allora acquisisco l’opera.

SD: Gertrude Stein diceva agli amici che per fare una collezione è sufficiente risparmiare sul proprio guardaroba. A cosa rinunceresti o rinunci per un’opera d’arte?

GR: Più che rinunce, le chiamerei scelte consapevoli di dare la priorità alla missione dell’arte. Ad ogni modo, per mettere da parte i soldi che poi uso per la collezione, riduco all’essenziale pranzi e cene fuori casa, i viaggi che non sono strettamente necessari, l’acquisto di vestiti e scarpe e pratico tante altre piccole accortezze economiche della vita quotidiana. Detto questo, credo sia importante specificare che attraverso periodi anche abbastanza lunghi (come in questi mesi ad esempio) durante i quali sospendo completamente l’acquisizione di opere e il finanziamento di progetti, faccio riposare le mie finanze e ne approfitto per concentrarmi sulla ricerca di emergenti e sull’organizzazione di progetti a budget “quasi zero”.

SD: Potremmo paragonare un collezionista ad un giardiniere che cura il suo giardino, ad un editore che sceglie i libri da pubblicare, ad un padre o ad una madre che adottano. Ti sei mai paragonato a qualcosa?

GR: Ultimamente ho paragonato il progetto Silent Art Explorer a un’astronave il cui obiettivo è custodire l’arte in un viaggio attraverso lo spazio e il tempo, verso altre stelle. In questa astronave, potrei essere un membro dell’equipaggio che si assicura, da un lato, che l’astronave vada nella direzione ottimale e, dall’altro, che le opere siano opportunamente raccontate alle viaggiatrici e ai viaggiatori.

One of them di kensuke koike

SD: Mark Rothko aveva scritto “Un quadro vive in compagnia, dilatandosi e ravvivandosi nello sguardo di un visitatore sensibile. Muore per la stessa ragione. È quindi un gesto arrischiato e spietato mandarlo in giro per il mondo”. Le opere d’arte fanno compagnia?  

GR: Sì, a volte fanno compagnia quasi come le persone. Anche se preferisco sempre e comunque stare in compagnia di esseri umani e altri esseri viventi di varia natura.

SD: Molti collezionisti usano i social network per condividere le opere d’arte che collezionano o quelle che vorrebbero possedere: questo potrebbe essere visto come un modo per contaminare il flusso dello scrolling dei social network, un modo per far entrare l’arte contemporanea nel quotidiano?

GR: In linea di massima, credo che pubblicare sui social network contenuti di opere d’arte che fanno parte della collezione o che si desidera acquisire sia sempre positivo, soprattutto se consente di dare visibilità ad artiste e artisti emergenti. Credo che si debba però considerare che per uno sbilanciamento intrinseco degli algoritmi dei social network, Instagram per esempio, si vada a creare un circolo chiuso per cui sono sempre persone della comunità dell’arte e dintorni che si imbattono nei contenuti di collezionismo. È molto difficile che le persone che sono al di fuori di questa comunità ritrovino contenuti di collezionismo d’arte nei propri feed. Sarebbe stupendo se questi contenuti potessero essere disseminati in comunità normalmente estranee all’arte contemporanea e suscitare la curiosità di esplorare questo mondo.

SD: Raramente c’è un unico motivo che spinge le persone a interessarsi all’acquisto d’arte: me ne potresti dire uno, che senti tuo?

GR: Voglio lasciare una traccia nel mondo, un solco in cui le persone possano continuare a seminare e a far crescere le proprie idee.

SD: Ci consigli un posto, anche e soprattutto fuori dai soliti giri, che un appassionato di contemporaneo non può non conoscere e/o frequentare? 

GR: Anche più di uno! A Milano: Armenia Studio; la casa-studio di Iva Lulashi; la galleria “CollaSuper”; gli studi di via Teocrito. A Roma: FOROF. A Napoli: SuperOtium e Quartiere Latino. In giro per l’Italia e online: le assemblee dell’associazione culturale Art Workers Italia (di cui sono socio).

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SD: Hai un libro che consigli a chi vuole capire e studiare l’arte contemporanea?

GR: Sono abbastanza ignorante sui libri di teoria e storia dell’arte contemporanea. Consiglierei però di leggere “Cacciatori d’arte. I mercanti di ieri e di oggi” di Yann Kerlau pubblicato da Johan & Levi editore, in cui l’autore racconta le storie di importanti collezioniste e collezionisti che hanno scoperto e sostenuto alcuni tra i più grandi talenti dell’arte moderna e contemporanea. Poi una piccola chicca “Rovine e macerie. Il senso del tempo” di Marc Augé, Bollati Boringhieri editore, una raccolta di brevi saggi in cui si parla anche di arte da un punto vista antropologico.

Cacciatori d’arte. I mercanti di ieri e di oggi di Yann Kerlau.

SD: Elio Fiorucci in un’intervista disse che per dormire bene lui pensava ad una donna nuda. A cosa pensa un collezionista prima di dormire?

GR: A nuovi modi di condividere l’amore per l’arte. 





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