Si sono presentati puntuali alla porta della redazione.
La faccia pulita, gli abiti colorati su cui campeggiano i loghi di noti brand e la voglia di raccontare alla redazione della Tribuna una gioventù trevigiana che è diametralmente opposta da quella di cui si riempiono le cronache locali.
Sono sette, Pietro Cercato, Anna e Caterina Guerretta, Giovanni Grippo Belfi, Eleonora Maso, Christian Pizzato e Gianmarco Sarno.
Hanno tutti tra i 18 e i 20 anni, frequentano gli istituti cittadini o i corsi delle università della zona. Uno di loro, il 15 gennaio, è stato vittima di una rapina: un quindicenne lo ha aggredito in piazza Pio X alle 19 mentre aspettava l’autobus e gli ha portato via le cuffiette bluetooth, che però avevano il geolocalizzatore e quindi il rapinatore è stato rintracciato e fermato poco dopo dai carabinieri di Treviso.
Ci hanno raccontato cosa vuol dire girare di notte in città tra i luoghi più a rischio («mia mamma mi ha insegnato fin da bambino ad evitare certi luoghi») con la spensieratezza di chi ha voglia di fare tardi con gli amici («Non è giusto a 20 anni camminare guardandosi alle spalle»). Hanno anche parlato di come la situazione sia effettivamente degenerata negli ultimi anni, delle baby gang e del ruolo centrale che giocano la moda, la musica e, persino, i reel su Instagram.
Violenti per moda
«Più passa il tempo più sono convinto che sia una questione di moda, che i ragazzi comincino a delinquere proprio per assomigliare a quelli che vedono nei video, la moda del momento impone un comportamento violento e loro lo emulano in tutto e per tutto», afferma Gianmarco, 19 anni.
«È una moda proveniente dal mondo artistico, dalla musica, credo che sia un modo per esprimere la propria virilità, lo fanno tramite questi atti criminali per sentirsi forti, farsi apprezzare, finire in un video da migliaia di visualizzazione.
Hanno 15 o 16 anni e, facendo così, si sentono più grandi, più potenti, più uomini». Il gruppo è d’accordo. Sotto accusa la musica trap, con i suoi contenuti che inneggiano alla violenza, all’uso delle armi, alla misoginia. «Vogliono emulare i trapper e replicano quello che vedono negli schermi nella realtà», aggiunge Pietro, «la musica incita i ragazzi alla violenza, anche se può sembrare un discorso un po’ obsoleto o da boomer, credo che non si possa negare. Basta vedere anche l’abbigliamento con cui si vestono, uguale ai cantanti trapper».
E per quanto concerne la quota rosa? Risponde Anna, la più piccola del gruppo: «Anche le ragazze ascoltano la musica trap, l’ascolto anche io perché credo sia un prodotto artistico, ma loro oltre ad emulare i cantanti, devono farsi vedere più cattive e più pericolose dei coetanei maschi».
L’origine
«Inizialmente si pensava che questi baby criminali fossero solo immigrati di seconda generazione, io credo che siano soprattutto persone con forti disagi in famiglia»: è il punto di vista Giovanni, «tra le persone che frequentano la nostra scuola o gli ambienti dove andiamo noi non c’è nessun baby bullo, ci sono diversi ambienti che anche influenzano il percorso di un ragazzo», aggiunge Eleonora.
«Secondo me sono proprio delle categorie di giovani che si fanno tirare in mezzo a questi generi, capita quando vivono in situazioni difficili. È più comprensibile che succeda a chi ha problemi rispetto a un ragazzo che viene magari da una buona famiglia, educato bene, che non ha avuto passati di criminalità».
Come sta Treviso
«Treviso però non è quella dipinta dai fatti di cronaca. A me non è capitato di essere rapinato ed esco tranquillamente con gli amici», dice Giovanni. Pietro aggiunge: «non percepisco un clima di tensione, di paura nei confronti della gente che mi circonda». In realtà succede, «È successo a qualche nostro amico», puntualizza Gianmarco, «Io invece ho sempre vissuto Treviso come una città anche protetta, in quanto piccola, e quindi mi sono sentito sempre al sicuro, non c’è molto da fare la sera».
Scavando un po’ viene fuori che i ragazzi hanno sfiorato la rissa all’osteria Canova del novembre scorso e diversi dei loro amici sono stati rapinati. Fuori dal coro è la testimonianza di Christian Pizzato.
Per lui Treviso non è affatto tranquilla: «Non mi sento più sereno, mi guardo alle spalle. Prima di essere aggredito ho visto i miei rapinatori che facevano a botte con un altro ragazzo, se fossi andato via non mi sarebbe successo nulla. Bisogna prestare attenzione a quello che ci succede attorno».
Le soluzioni: zone rosse o no?
«Ci sono zone in cui è più facile trovare baby gang», dice Caterina, «vicino alla stazione dei treni e delle corriere, per esempio, e in tutte le zone poco illuminate, come le mura, luoghi in cui è possibile incontrare tante persone in un arco di tempo minore». Pietro entra ancor più nel dettaglio: «Tra queste c’è anche la parte del centro all’interno delle mura in cui ci sono zone più povere dal punto di vista sociale ed economico. Resta il fatto che la maggior parte arriva da fuori città».
Chiediamo loro se stanno seguendo il dibattito sull’istituzione delle zone rosse: «Non ne trovo il senso, se si istituissero in un determinato luogo, allora le baby gang andrebbero a delinquere in un altro posto e quindi le zone che noi magari riteniamo sicure ora potrebbero diventare pericolose in futuro», dice Eleonora. «È un fenomeno che si sta verificando in modo dirompente e sta aumentando, per cui cambierebbero solo i posti dove ci sono le risse o ti rapinano, ecco perché secondo noi non servono a nulla, servono ben altre soluzioni».
Il ruolo della scuola
Sono gli stessi protagonisti del forum a parlare del ruolo della formazione: «La scuola tende a istruire le persone e non a educarle. Nel senso che questi ragazzi non hanno un’educazione fornita dalla propria famiglia e allora la ricercano nella scuola», spiega Caterina.
«A scuola dovrebbe esserci l’ora di educazione civica, ma non si parla di questo, non c’è un programma dedicato, dei corsi. E una materia che viene svolta dai professori che si occupano di altre discipline, non le viene data importanza», dicono tutti. «Io credo che a un certo punto una persona sappia quali siano le leggi che è tenuto a seguire per vivere in una società civile», rimarca Gianmarco.
«Penso che ci sia un momento nella vita in cui uno capisce che la cosa che sta facendo è sbagliata, è incivile e non può essere fatta, questi ragazzi la compiono ugualmente. Quindi secondo me a un certo punto è proprio una questione di scelta personale, di scegliere da che parte stare».
Mi chiamo Caterina, ho 20 anni, sono nata a Treviso ma studio a Trento. Anche se mi trovo spesso fuori dalla mia città per motivi di studio, la cronaca ma ancor di più la mia vita di tutti i giorni mi mettono di fronte a una questione di grande attualità, la criminalità giovanile.
Nella mia esperienza quotidiana, non posso negare che il problema sia sempre stato presente, più o meno documentato a seconda dei casi, e in questo momento mi tocca da vicino: le vittime di queste violenze sono spesso miei coetanei.
Sono due gli aspetti del problema che mi hanno maggiormente colpita e partono dal confronto tra le città in cui vivo: la mia vita universitaria a Trento mi ha permesso di osservare le dimensioni del fenomeno fuori dalla piccola realtà di Treviso, che appunto in quanto più contenuta ritenevo meno soggetta a queste problematiche; in realtà, la vita a Trento mi ha mostrato che l’incidenza del problema non necessariamente aumenta all’aumentare delle dimensioni della città: mi sento di poter dire che, a Trento, il fenomeno è circoscritto ad alcune zone della città, mentre a Treviso è sparso in più zone della città e la percezione di insicurezza aumenta.
Un punto di vista che credo sia spesso tralasciato è il ruolo sempre maggiore delle ragazze all’interno di questi gruppi, anche se io stessa sono caduta nella trappola della narrazione più classica e stereotipata del bullo. Ciò che ritengo ormai superato è il concetto di violenza considerato da una prospettiva interamente maschile, insieme all’analisi dei motivi che spingono le donne, in questo caso ragazzine, a delinquere: i problemi economici e i disagi interni alla famiglia sono un fattore determinante che accomuna entrambi i sessi ma credo sia decisiva, nella scelta di una giovane che entra a far parte di uno di questi gruppi, la volontà di emanciparsi da preconcetti sociali errati per dimostrare di essere capaci delle stesse azioni dei coetanei maschi.
Ma se sempre più giovani donne si rendono colpevoli di comportamenti violenti, l’altra faccia della medaglia è rappresentata dalle vittime, ragazzi e soprattutto ragazze della stessa età; dialogare con conoscenti e familiari mi ha permesso di cogliere alcune differenze nel modo in cui maschi e femmine prendono atto del tema.
Anche se le violenze non fanno distinzioni di genere, dalle testimonianze femminili emerge maggiormente una sensazione di pericolo per se stesse, come racconta Eleonora Maso, studentessa 19enne
Ho sempre considerato Treviso una città piccola e protetta, anche se ultimamente mi sento meno sicura quando cammino da sola o in compagnia
Anche Anna Guerretta, 18 anni, concorda sul punto, pur precisando che «né io né le mie amiche abbiamo subito attacchi diretti».
Oltre che sotto l’aspetto più individuale, è stato interessante per me, Anna e ed Eleonora cercare di delineare una panoramica diversa della questione: se i ragazzi con cui ho discusso hanno ricondotto la violenza al fattore delle mode e alla cattiva interpretazione di canzoni e rimandi artistici, Anna ha precisato: «Non credo siano sempre i testi di alcune canzoni a condizionare i comportamenti dei ragazzi ma la situazione familiare che vivono tutti i giorni», mentre Eleonora ha sottolineato il ruolo della scuola nella soluzione del problema, laddove i ragazzi sono stati meno ottimisti: «Di recente ho letto un articolo in cui si dice che la scuola tende a istruirci e non ad educarci, secondo un metodo puramente nozionistico. Mi sento di concordare e penso sia necessario cambiare questo sistema, anche attraverso le ore di educazione civica».
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link