Quanto vale la Groenlandia? – Alessandro Lubello

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Da quando Donald Trump ha messo gli occhi sulla Groenlandia – oltre che sul Canada e sul canale di Panamá – si è tornato a parlare dell’enorme isola ai margini del Circolo polare artico che dal 1979 costituisce un territorio autonomo della Danimarca. Agli occhi del presidente degli Stati Uniti la Groenlandia è sia un avamposto strategico dal punto di vista commerciale e militare, un crocevia fondamentale nelle rotte artiche, sia una potenziale fonte di materie prime, tra cui terre rare, petrolio e gas. Insomma, un territorio che non si può lasciare all’influenza delle potenze rivali, soprattutto della Cina.

L’attenzione intorno all’isola è salita da quando il possibile scioglimento dei ghiacci nel mar Glaciale artico promette di aprire nuove rotte, rompendo i vecchi equilibri in quella zona del pianeta. La Russia ha riaperto decine di vecchie basi militari risalenti all’era dell’Unione Sovietica, mentre la Cina sta cercando di rafforzare i suoi traffici intorno all’Artico. Per questo, anche prima della sua entrata in carica, Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti “hanno bisogno dell’isola per la loro sicurezza nazionale”, pur essendo già presenti con una base militare e altre infrastrutture di sicurezza. Il presidente si è dichiarato pronto a comprare il territorio, ma non ha voluto escludere l’uso della forza militare.

Gli Stati Uniti, sottolinea l’Economist, hanno una lunga esperienza nella gestione delle relazioni internazionali con un approccio commerciale: nel 1803 il presidente Thomas Jefferson comprò la Louisiana, raddoppiando le dimensioni del paese; 64 anni più tardi la Casa Bianca pagò alla Russia 7,2 milioni di dollari (circa 160 milioni attuali) per avere l’Alaska. In entrambi i casi il tempo ha dimostrato che Washington fece due ottimi affari. Non sappiamo se il giudizio della storia sarà benevolo anche con Trump, soprattutto se dovesse strappare la Groenlandia alla Danimarca usando la forza.

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Forse il discorso sarebbe diverso se la conquistasse in modo pacifico: sarebbe sicuramente l’affare del secolo, commenta il settimanale britannico, perché rafforzerebbe la sicurezza degli Stati Uniti e di conseguenza quella dei suoi alleati della Nato, infliggerebbe un duro colpo alle autocrazie e potrebbe avvantaggiare i 56mila abitanti dell’isola, che comunque dovrebbero essere chiamati a pronunciarsi sull’affare.

Ma quanto potrebbe costare l’isola? L’Economist ha provato a fare due conti. Innanzitutto si parte dal valore del pil, che nel 2021 è stato di tre miliardi di dollari, cioè un goccia nell’oceano rispetto agli oltre 27mila miliardi di quello statunitense. Inoltre gran parte del pil deriva dai dipendenti statali, che costituiscono il 43 per cento della forza lavoro. Più della metà del bilancio pubblico è in realtà pagato dalla Danimarca, che ogni anno versa alla Groenlandia cinquecento milioni di dollari. Ora, escludendo l’amministrazione pubblica e supponendo che la crescita economica dell’isola resti stabile e che gli Stati Uniti incassino entrate pari al 16 per cento del pil (ipotizzando che resti l’attuale livello di prelievo fiscale nell’isola) e godano dei tassi applicati ai loro titoli di stato trentennali, il prezzo finale dell’isola potrebbe essere di cinquanta miliardi di dollari, cioè circa un ventesimo del pil statunitense.

La cifra non è insostenibile per Washington. Ma l’investimento lo sarebbe? Alcuni sono convinti di no, almeno nel breve e medio periodo. È il caso di Javier Blas, esperto di materie prime di Bloomberg. Ogni tanto, scrive il giornalista spagnolo, il settore delle materie prime viene travolto da una moda passeggera che promette di risolvere tutte le carenze del mondo. La lista è lunga: si va dell’estrazione di minerali dalle profondità degli oceani allo sfruttamento degli asteroidi nello spazio sconfinato. Oggi è la volta di qualcosa di più terrestre: la fredda e sterminata Groenlandia, a cui sono attribuite tutte le ricchezze minerarie di cui il mondo ha bisogno. “Il problema”, sottolinea Blas, “è che quest’idea è una completa sciocchezza”. In effetti l’isola ha dei giacimenti, e alcuni sono abbastanza grandi. “Ma finora non hanno mai dato risultati. Fin dagli anni settanta si parla molto del petrolio della Groenlandia, a cui si è aggiunto il ferro dopo il 2000, ma al momento l’isola non estrae neanche un barile di greggio e l’unica compagnia mineraria che ha cercato di sfruttare un giacimento di ferro è fallita”.

Uno studio del Nationale geologiske undersøgelser for Danmark og Grønland uscito nel 2023 ha identificato almeno cinquanta siti che potrebbero contenere giacimenti di minerali. Ma più della metà si trova a nord del Circolo polare artico, fatto che ne rende molto difficile e costoso lo sfruttamento, se non impossibile. Solo una piccola parte, nella zona meridionale dell’isola, è libera dai ghiacci, ma quasi sempre si tratta di piccoli giacimenti. L’unico forse davvero interessante è Tanbreez, che contiene terre rare. Secondo lo studio, la Groenlandia ha 1,5 milioni di tonnellate di terre rare, dato che la pone tra i primi dieci paesi al mondo, insieme alla Cina, al Brasile, al Vietnam, all’India e all’Australia. Ma in tutti questi paesi, alle condizioni attuali, estrarre terre rare è più facile ed economico che nell’isola danese.

Perché l’estrazione diventi conveniente è necessario che da un lato i prezzi salgano vertiginosamente e dall’altro che la crisi climatica sciolga i ghiacci, facilitando il lavoro delle aziende minerarie. Al riguardo l’Economist ricorda che “l’Artico si sta scaldando quattro volte più velocemente del resto del mondo, provocando ogni anno una riduzione del ghiaccio pari alla superficie dell’Austria. Dagli anni ottanta il volume del ghiaccio è diminuito di almeno il 70 per cento”.

Múte Egede, il primo ministro della Groenlandia, ha respinto al mittente le avance di Trump, che tra l’altro aveva fatto una proposta già durante il suo primo mandato, nel 2019. Egede ha ricordato che gli abitanti dell’isola più che l’unione con gli Stati Uniti vogliono l’indipendenza dalla Danimarca. Ma per raggiungere quest’obiettivo bisogna sviluppare l’economia locale, incassando risorse che permetterebbero di rinunciare ai milioni assicurati da Copenaghen. Anche per questo, spiega il Financial Times, la Groenlandia collabora da sempre con Washington e vede con favore gli investimenti delle aziende statunitensi e un’alleanza a scopi difensivi. Per ora, tuttavia, sull’isola ci solo due miniere aperte, anche se le autorità locali hanno concesso più di cento licenze. Di queste solo una è nelle mani di un’azienda statunitense (Canada e Regno Unito ne hanno 23 a testa).

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Oltre alle difficoltà rappresentate dal clima, la Groenlandia ha pochi insediamenti, ancora meno strade, la navigazione sulle coste è difficile e in più avrebbe bisogno di ospitare molti lavoratori stranieri. La recente decisione di vietare l’estrazione di uranio, inoltre, tiene ulteriormente lontani gli investitori. Per il momento, scrive il Wall Street Journal, l’amministrazione statunitense dovrebbe prendere atto che, per quanto la Groenlandia sia affascinante e promettente, il paese ha già in mano una regione che offre le stesse cose sia dal punto di vista economico sia da quello strategico e della sicurezza: l’Alaska.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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