Thomas Bernhard, il più malato di pensiero è lo scrittore

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In nessuno scrittore l’anima di un libro si manifesta come negli incipit di Thomas Bernhard e in nessun incipit di Bernhard quest’anima si manifesta come nell’incipit di Correzione (Adelphi, traduzione di Giovanna Agabio, pp. 291, € 20,00). Nel primo lungo periodo del romanzo, pieno fino al parossismo di volute e incisi, la voce narrante ci informa di essersi recata nella soffitta di un imbalsamatore di nome Höller, nella valle dell’Aurach, in Austria, per esaminare e riordinare le opere postume di un suo amico d’infanzia, tale Roithamer, che in quella soffitta si è suicidato dopo averci vissuto e meditato a lungo, lasciando migliaia di fogli tra cui un voluminoso manoscritto intitolato, A proposito di Altensam e di tutto ciò che è connesso ad Altensam, con particolare riferimento al cono. Ci annuncia in sostanza l’intera materia del romanzo, salvo il fatto che il cono cui allude il manoscritto è un edificio a forma di cono che Roithamer ha progettato e costruito per la sorella, morta anche lei suicida alla vista di quella abitazione inusitata.

Un dettaglio certo rilevante ma che viene comunque portato alla nostra conoscenza nel giro di poche pagine, con una modalità tipica dello scrittore, ovvero secondo un movimento a spirale, ruotando cioè intorno a quanto rivelato dell’incipit, allargando progressivamente il raggio, con ripetizioni continue. Correzione è appunto esemplare in questo senso. Che sia anche l’esito migliore di Bernhard è altra questione. Alcuni punti possiamo tuttavia darli per fermi. Il primo è che il romanzo precede Autobiografia, la lunga cavalcata in cinque volumi delle memorie. Rappresenta cioè il culmine di un percorso, di un preciso modo di scrivere, non sempre compreso a pieno perché spesso apprezzato per i tratti vistosi, a cominciare dal più noto, la ripetizione; talmente noto da diventare una sorta di griffe, facile da emulare e ancor più da imitare. E infatti molta letteratura europea recente ne è stata contaminata, da Sebald a Geoff Dyer fino al nostro Vitaliano Trevisan, per limitarsi ai casi più dichiarati. Che poi Trevisan fosse pure un attore è un dato per niente trascurabile. Aveva scelto di parodiare Bernhard proprio perché Bernhard aveva a sua volta interpretato sé stesso in maniera caricaturale, costruendo un personaggio in cui confluivano sia l’immagine di una vita – l’autoritratto, se vogliamo – sia la vita intesa come ipotesi, possibilità di stare al mondo. In altri termini, come in un attore, in Bernhard convivevano e ancora convivono due uomini, nessuno dei quali esisteva davvero se non nella pagina scritta.

Se le ripetizioni e la prosa spiraliforme sono ormai la griffe indiscussa di questo autore o del suo personaggio, meno evidente è perché egli scrivesse a questo modo. Il romanzo d’esordio, Gelo, e quello in cui la griffe giunge alla forma compiuta, Correzione, propongono stili molto diversi. Malgrado la voce resti comunque riconoscibile, in Gelo non troviamo un blocco di testo continuo che occupa l’intera gabbia per pagine e pagine. I periodi sono già estesi, gli accapo infrequenti, diciamo pure inesistenti per certi versi, ma vengono comunque concesse soste, divisioni in capitoli, in paragrafi addirittura, che fanno respirare l’occhio. Anche la punteggiatura non è identica. In Correzione, diversamente da Gelo, il lettore è chiamato a fronteggiare un uso insistito e quasi scriteriato della virgola. Se poi ci concentriamo su Amras, Perturbamento e La fornace, apparsi tra l’uno e l’altro, assistiamo a un’evoluzione precisa e incessante – qualcuno direbbe forse involuzione – fatta di cambiamenti.

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La fornace è fatalmente quello che più somiglia a Correzione, ma in questo lungo e articolato processo, pur con tutti i suoi cambiamenti, il punto di vista dei vari narratori rimane lo stesso. L’oggetto di Gelo è un pittore misantropo che dopo aver bruciato i suoi quadri si isola in un paesino gelido e inospitale tra le montagne. Non lo conosciamo dalla sua viva voce né da un convenzionale narratore onnisciente, bensì grazie al giovane medico che lo raggiunge nel suo eremo con il compito di accertarne lo stato di salute.

Anche in Perturbamento il racconto ci viene offerto da un giovane medico, anzi un giovane studente in medicina, che accompagna il padre, medico condotto, nel suo giro di visite, fornendoci tanto un ritratto del padre che dei suoi pazienti. Nella Fornace il gioco si complica perché, anche se visto da fuori come negli altri romanzi, l’uxoricida Konrad ci viene descritto da un coro di voci tra cui quella dello stesso Konrad, e queste voci non ci arrivano in maniera diretta, ma sono sempre riportate maniacalmente, parola per parola, ripetute insomma.

In questo scenario, Amras sembra rappresentare un’eccezione. Il libro che Bernhard considerava il suo «prediletto» è però anch’esso, come La fornace, un mosaico polifonico costruito per frammenti e vede al suo centro due fratelli. Di uno dei due ci arriva la voce, dell’altro soltanto l’ombra, come sono ombre il pittore di Gelo, il medico condotto di Perturbamento, il saggista uxoricida della Fornace e il costruttore di Correzione. Spesso sono ombre pure quelle degli emuli, per esempio l’Austerlitz dell’omonimo e unico vero romanzo di Sebald. Ora, se è vero che le narrazioni indirette, extradiegetiche, non costituiscono un’invenzione di Bernhard, è altrettanto innegabile che a renderle uniche in un genere letterario praticato da sempre, sia nella scrittura saggistica sia in quella d’invenzione, è il tipo d’uomo facente funzioni di ombra.

Prendiamo l’Austerlitz di Sebald: è uno storico dell’architettura come il costruttore di Correzione. Il reale punto di contatto tra i due non è però l’architettura che peraltro entrambi frequentano da esterni, non essendo architetti, ma loro somiglianza con Wittgenstein, il quale finì anche lui per abbracciare la medesima sfera di interesse progettando una casa per la sorella Greti, né più né meno come il Roithamer di Correzione. Le somiglianze tra questo personaggio e il filosofo sono tanto palesi, tanto spinte al limite della parodia, che è tempo perso individuarle una per una. Vale invece la pena soffermarsi su ciò che disse lo scrittore a proposito di Roithamer: «Non è Wittgenstein, ma è Wittgenstein».

Thomas Bernhard nel 1957 (foto di Helmut Baar via Getty Images)

Una risposta simile Bernhard l’aveva data qualche anno prima nel declinare un invito a scrivere sul filosofo austriaco per una rivista: «Sarebbe come se dovessi scrivere io qualcosa (proposizioni!) su me stesso, e ciò non è possibile». È una chiara allusione al famoso imperativo con cui il filosofo chiudeva il Tractatus: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Il paradosso è tuttavia solo apparente. Lo scrittore ci sta infatti dicendo di adoperarsi con tutto sé stesso per essere come lui, ben sapendo non soltanto di non poterci riuscire ma anche quanto sia vano, se non comico, provarci.

Bernhard e i suoi personaggi sono in sostanza suoi emuli, sue ripetizioni, ma la loro peculiarità non consiste tanto nell’avere scelto Wittgenstein quale modello quanto nell’avere un modello, qualcuno da emulare, una vita e comportamenti da replicare. C’è poi un altro aspetto, un’altra somiglianza importante, sebbene poco nota ai più. I romanzi della prima fase di Bernhard, sembrano ricalcare, nel punto di vista, la biografia del 1958 in cui il filosofo Norman Malcolm traccia un ritratto al contempo comico e commovente di Wittgenstein costruito intorno a ricordi personali, rivelando bizzarre manie, perfette sia per un personaggio di Bernhard sia per lo stesso scrittore, come quella di lavare i piatti nella vasca da bagno con acqua caldissima e tanto sapone, non dissimile dalla voce che voleva la pareti di casa Bernhard dipinte di nero fino al soffitto. Nelle successive edizioni, il memoir di Malcom venne inoltre arricchito dalle lettere di Wittgenstein, assumendo una struttura di fatto identica a quella di Correzione, dove gli scritti di Roithamer posti nella seconda parte del libro integrano il racconto della prima.

Ciò che Bernhard emula non è dunque Wittgenstein ma il racconto, il mito, l’aura che ne definisce la figura; non la persona ma il personaggio. D’altro canto neanche Wittgenstein era Wittgenstein pure essendolo. Inseguiva anche lui un suo personaggio, un sé ideale. Certi tentativi – la casa per la sorella nonché gli sconfinamenti non meno noti nei campi della scultura e della musica, tutti evocati per un verso o per l’altro nella narrativa di Bernhard – lo collocano al di là della pura filosofia. Agli occhi dello scrittore, e in fondo non soltanto ai suoi, era cioè un filosofo artista, una possibilità inattuabile.

Tendeva a essere un tipo d’uomo più che esserlo davvero, e questa tensione ne faceva un altro emulo, forse il più grande di tutti gli emuli ma pur sempre un emulo, colui che più di altri si è avvicinato a un esule dello spirito, al pensatore romantico. E se pensiamo a quel che diceva Isaiah Berlin quando parlava di romanticismo come di «uno stato o attività che è in linea di principio inattingibile – qualcosa in una vita o in un movimento o in un’opera d’arte che è parte della sua essenza, ma rimane inspiegato, e forse inintelligibile», acquista senso un’altra caratteristica dei narratori di Bernhard, quella di girare intorno ai loro oggetti di studio e ossessione, ai loro modelli, senza mai giungere davvero a un centro, dicendo poco se non niente di concreto o esplicito, come se il pensiero di un uomo fosse traducibile in parole soltanto attraverso il suo esempio di vita, descrivendone l’esistenza, ingabbiando nell’indicibile ciò che egli ha in testa.

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Non per niente, al vertice degli omaggi a Wittgenstein c’è Ritter, Dene, Voss, in cui non vi è più separazione tra sublime e ridicolo e la vita è talmente ridotta a mera rappresentazione che il titolo di quest’opera teatrale prende il nome dai tre attori che hanno vestito i panni del filosofo e delle due sorelle in occasione della prima messa in scena. Non per niente, nella narrativa di Bernhard, questi esuli da emulare sono o architetti o musicisti o pittori. Come non è un caso che Bernhard trovi molti ammiratori soprattutto tra gli artisti, che più degli scrittori conoscono e comprendono il valore della ripetizione. Lo testimonia alla perfezione Gerhard Richter, che conserva nel suo studio un’immagine dello scrittore, il quale si fece fotografare mentre girava in tondo in sella a una bici, proprio come nello scatto che compare sulla copertina dell’ultima edizione italiana della sua Autobiografia. Infine, tra le opere più bernhardiane  di Richter, c’è il recente Moving Picture (946-3) Tokyo Version, monumentale film in cui pittura e musica si fondono in un susseguirsi di ripetizioni e variazioni, realizzando l’architettura perfetta, quella camera dello spirito – prigione e paradiso a un tempo – che ogni romantico va cercando dai tempi del Viandante sul mare di nebbia. Di fronte a ciò, alla parola non che resta manifestarsi quale ripetizione, messe di appunti, opera fallita o incompiuta, «azione compulsiva, che non si interrompe mai e che dimostra come lo scrittore, fra tutti i soggetti malati di pensiero, sia probabilmente il più inguaribile».



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