All’incontro presenti anche Jonathan Haidt, Tristan Harris e Jimmy Wales: «Finora, infatti, molte istituzioni hanno mantenuto una posizione neutrale.Ora sempre di più si sta chiedendo di fornire raccomandazioni collettive e chiare»
Nei giorni scorsi sono stato invitato a intervenire a un evento organizzato all’interno del World Economic Forum di Davos, dedicato ai rischi dell’accelerazione digitale sulla nostra umanità. Due organizzazioni filantropiche impegnate sul tema dell’etica digitale, Human Change di Margarita Louis-Dreyfus e Project Liberty di Frank McCourt, hanno allestito un’agenda ricca di incontri. Si è trattato di un vero e proprio raduno internazionale degli studiosi e attivisti che lavorano sugli effetti collaterali della digitalizzazione, in particolare su bambini e adolescenti.
Tra i relatori, erano presenti figure di spicco come Jonathan Haidt, autore del recente bestseller La generazione ansiosa, Tristan Harris, ideatore del famoso documentario Netflix The Social Dilemma, Jimmy Wales, fondatore di Wikipedia, il direttore di Uefa Michele Uva. Il pubblico, in mezzo ai top manager e Ceo che sono usuali nella settimana di Davos, includeva anche diversi rappresentanti di un nuovo profilo professionale: il «digital wellbeing educator». Pare che in molti paesi queste figure siano sempre più richieste per affrontare il grande tema del benessere digitale, sia in famiglia che nelle aziende (Mario Sgarrella e Fernanda Maio erano due rappresentanti italiani di questo mondo emergente).
Gli interventi hanno evidenziato una crescente ondata di attivismo critico rispetto agli effetti che i media digitali, e in particolare le piattaforme online, stanno avendo sulla qualità della nostra vita, sulle relazioni, sul benessere psicologico ma anche sulla tenuta delle nostre democrazie. Opinione condivisa tra i relatori è che alcuni modelli economici, legati soprattutto all’uso degli algoritmi e della sorveglianza digitale, abbiano prodotto esternalità negative così rilevanti da rendere indispensabile un’azione urgente. E i più indifesi sembrano essere i bambini: su di loro le problematiche che emergono sono in alcuni casi molto pesanti. I dati più impattanti sono stati forniti sulla perdita di ore di sonno legate all’uso notturno dei dispositivi. Tristan Harris ha raccontato, invece, le prime situazioni finite in dramma legate all’uso non controllato di chat vocali di intelligenza artificiale generativa da parte dei bambini.
Da dove iniziare, però, in un contesto in cui le aziende proprietarie di queste piattaforme sono tra le più ricche e potenti al mondo? Cosa fare se ormai le nostre dinamiche personali e sociali si affidano quasi completamente a questi ambienti digitali? Frank McCourt, uno dei finanziatori dell’evento, ha fatto nei giorni scorsi una proposta di acquisto di TikTok per gestire il social con criteri più rispettosi dei suoi utenti. A parte questa ambiziosa iniziativa, i cui contorni non sono stati del tutto chiariti, tra i relatori è emersa una convergenza quasi unanime sulla necessità di tutelare i minori da un accesso precoce e autonomo alla rete. Si è parlato esplicitamente della promozione di Smartphone-Free Schools, scuole in cui, pur utilizzando una didattica digitale guidata dall’insegnante e con strumenti della scuola, è vietato l’utilizzo di dispositivi personali connessi alla rete. Si è anche parlato di leggi per regolamentare le piattaforme, la loro possibilità di utilizzare i dati personali e l’obbligo di verificare l’età degli utenti. Questi provvedimenti, oltre a migliorare l’ambiente relazionale scolastico, chiariscono la posizione delle istituzioni sul tema. Finora, infatti, molte istituzioni hanno mantenuto una posizione neutrale, una sorta di “sì, fanno male, ma fanno anche bene”, “non possiamo demonizzare”, “ogni famiglia deve scegliere in autonomia”. Ora, invece, da parte di molte famiglie e altre figure educative sempre di più si sta chiedendo di fornire raccomandazioni collettive e chiare. Per il momento, nell’assenza di una simile voce istituzionale, stanno nascendo in tutto il mondo gruppi dal basso, che si danno da soli le norme sociali che ora mancano. Per esempio decidono insieme sull’età di arrivo degli smartphone, sull’età di apertura di un profilo social, sugli usi significativi degli schermi adatti alle diverse età. Solo per citare quelle presenti a Davos: le americane Wait Until 8th, Mothers against Media Addiction (MAMA), Protect Young Eyes, l’inglese Smartphone Free Childhood e l’italiana “Patti Digitali”, di cui sono co-fondatore. Gli scettici dicono che si tratta di iniziative temporanee che svaniranno col tempo, come successo negli anni ’70 ai gruppi di genitori per la censura televisiva. A giudicare dall’atmosfera che si respirava a Davos, qui sembra essere invece in ballo una questione più generale: il rapporto con una innovazione tecnologica che sempre di più apre orizzonti tecnicamente possibili ma non per forza desiderabili. Vogliamo organizzarci per poterli controllare insieme oppure no?
Qui da noi in Italia, tanti segnali mostrano un crescente posizionamento in questo senso, politicamente trasversali. Lo scorso luglio, una circolare ministeriale ha vietato l’uso dello smartphone, anche per fini didattici, nelle scuole primarie e secondarie di primo grado. Il Comune di Milano, insieme alle altre istituzioni della città, ha pubblicato nei mesi scorsi delle raccomandazioni che vanno nella direzione di un accesso graduale e guidato collettivamente. Il prossimo 31 gennaio, l’università di Milano-Bicocca ospiterà il meeting annuale dei Patti Digitali, una rete di gruppi di genitori, scuole e istituzioni di ormai oltre 130 realtà che promuovono accordi locali per gestire insieme l’educazione digitale. Al meeting di quest’anno saranno presenti i firmatari dei quattro disegni di legge – anche qui politicamente trasversali – attualmente presenti in Parlamento in materia (Marianna Madia, Lavinia Mennuni, Giulia Pastorella, Gilda Sportiello e Devis Dori). Interverranno anche Anna Scavuzzo e Daniele Novara, promotori di due importanti iniziative su questi temi. Sarà un momento cruciale per mettere in relazione le esigenze che emergono dal basso e nei territori con chi è chiamato a legiferare. Grazie all’evento di Davos, c’è ora un canale di comunicazione più diretto per far conoscere gli esiti di questo dibattito italiano alle tante iniziative simili a livello internazionale. Un passo in più perché la richiesta di una guida democratica della sempre più veloce corsa digitale diventi una voce forte a livello globale.
*Marco Gui è professore di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca
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