La sostenibilità sociale non è un costo, perché aiuta le aziende a crescere: lo conferma la ricerca realizzata per Economy da Gpf Inspiring Research che trovate in queste pagine. In anni recenti lo hanno compreso e autorevolmente affermato personaggi ai vertici del gotha finanziario ed economico globale. Larry Fink, Ceo di BlackRock, il più grande gestore patrimoniale del mondo, nella sua lettera agli investitori del 2021 ha dichiarato che la responsabilità sociale è fondamentale per il successo a lungo termine. Due anni prima, nel 2019, Jamie Dimon, chief executive di JP Morgan alla guida della Business Roundtable, l’associazione che riunisce gli amministratori delegati delle 181 maggiori corporation americane, da Facebook a General Motors, da Apple a Boeing, ha affermato: «I principali datori di lavoro stanno investendo nei loro dipendenti e nelle loro comunità perché sanno che è il solo modo per avere successo nel lungo periodo».
E in Italia? Lo avevamo già capito alcuni secoli prima. Come racconta l’economista Stefano Zamagni nell’intervista che trovate in questo numero di Economy, Leonardo da Vinci era un imprenditore, e siccome era un genio, nella sua bottega artigiana teneva delle lezioni ai suoi collaboratori. Questi erano contentissimi di imparare da un tale maestro, e quindi rendevano molto di più.
La via italiana alla sostenibilità sociale insomma viene da lontano, ed è fatta di coinvolgimento dei lavoratori e valorizzazione dei loro talenti. Ha un’origine ancora più antica con l’esempio dei monaci benedettini, e passa dalla tradizione dell’economia civile settecentesca, con Antonio Genovesi, primo titolare di una cattedra di Economia, e Gaetano Filangieri a Napoli, Pietro Verri, Cesare Beccaria e Carlo Cattaneo (nell’Ottocento) a Milano. Arriva nel Novecento ed entra nell’articolo 41 della Costituzione, che anche prima della recente modifica in senso ambientale sanciva che l’iniziativa economica, pur libera, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale; e ispira un imprenditore del calibro di Adriano Olivetti, che affermò: «Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo». E ancora: «La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica». E anche Michele Ferrero, altro precursore del welfare aziendale, che diede tra gli altri questo consiglio ai suoi colleghi dirigenti: «Rendete partecipi i collaboratori dei cambiamenti e discutetene prima della loro attuazione con gli interessati».
Ecco dunque che la rinnovata attenzione al fattore sociale, la S di Esg fin qui oscurata dalla E di quello ambientale, è un’occasione a livello globale per rivedere un modello di sviluppo che ha portato alla crisi climatica e sociale che stiamo attraversando – «ma è sbagliato tracciare linee così nette tra queste categorie. Ad esempio, il cambiamento climatico sta già avendo un impatto sproporzionato sulle comunità a basso reddito in tutto il mondo: è una questione E o S?», non l’ha detto Papa Francesco bensì il Ceo di BlackRock. Ma lo è in modo particolare per l’Italia: l’occasione di ricordare che la sostenibilità sociale è nel nostro Dna fin da quando abbiamo inventato l’impresa nel Rinascimento, l’occasione per renderci conto che chi ha saputo raccoglierne il testimone, come appunto Olivetti e Ferrero, ha fatto la fortuna non solo dei suoi lavoratori, ma anche della sua azienda. Per usare le parole della ricerca di Gpf Inspiring Research, «l’applicazione di strategie di successo di sostenibilità sociale crea una situazione tipica win-win, o meglio una situazione ‘a molteplici win’: ne guadagna l’azienda in quanto tale, i suoi dipendenti come singole persone, l’ecosistema degli stakeholder di riferimento, la società».
Un’occasione che riguarda anche il movimento cooperativo per rilanciare le sue ragioni fondative, con particolare riferimento alle cooperative di comunità, come spiega nell’intervista che trovate nelle prossime pagine il presidente di Legacoop Lombardia Attilio Dadda, che ricorda come in momenti di estrema complessità e incertezza come quello che stiamo vivendo, la risposta umana è sempre stata quella di mettersi insieme, piuttosto di restare isolati.
Questo non significa che non ci siano difficoltà e resistenze, in primis da parte del modello opposto a quello partecipativo, ovvero quello taylorista, secondo il quale i lavoratori sono pagati per non pensare – per riprendere il ragionamento del prof. Zamagni. E così come c’è il greenwashing, c’è anche il social washing, che Domenico Iodice di Firts Cisl e Fondazione Fida definisce con questa domanda a proposito della trasformazione green e social di cui sono oggetto anche le banche: c’è davvero il coinvolgimento dei lavoratori nel condividere le modalità di trasformazione dei modelli di business? Se non c’è, allora il rischio è di trovarsi appunto a che fare con forme di social washing.
Un altro ostacolo importante all’affermazione della sostenibilità sociale è la sua scarsa conoscenza, perfino tra i giovani. Secondo il Rapporto 2024 stilato dal Social sustainability lab di Eikon Strategic Consulting “Giovani e sostenibilità sociale”, con una ricerca condotta su un campione di duemila giovani italiani ed italiane di età compresa tra i 16 e i 34 anni, pubblicato in occasione della Social sustainability week tenutasi a Roma a inizio dicembre, mentre di sostenibilità ambientale ha sentito parlare il 90% del campione e dice di sapere di cosa si tratta il 57%, queste percentuali si abbassano drasticamente per la sostenibilità sociale: il 64% degli intervistati ne ha sentito parlare, ma solo il 24% sa di cosa si tratta. Eppure la sensibilità ai temi sociali non manca a millennials e Gen Z: tra gli Obiettivi dell’Agenda 2030 di carattere sociale, ritengono prioritari i Goal 1, 3 e 8, che si riferiscono rispettivamente alla lotta alla povertà, a salute e benessere, e al lavoro dignitoso – e su quest’ultimo tema il 78% ritiene che le istituzioni non facciano abbastanza per promuovere l’occupazione giovanile. Tra chi lavora, il 67% percepisce un’attenzione insufficiente da parte delle aziende al benessere psico-fisico dei dipendenti, e il 59% nota discriminazioni professionali verso le donne quando diventano madri. La rinnovata attenzione al fattore S si sta facendo largo anche tra le imprese italiane, che stanno così gradualmente riscoprendo il loro Dna sociale. Una delle espressioni di questa rinascita è la crescita delle Società Benefit, introdotte in Italia – primo Paese al mondo a promuovere una normativa in materia – con la Legge di Stabilità del 2016, che scelgono di modificare il proprio status giuridico e i relativi obiettivi, mettendo accanto al profitto il beneficio comune, ovvero il miglioramento dell’ambiente naturale e sociale nel quale operano. A fine 2023 le Società Benefit erano 3.619, con una crescita del 38% rispetto al 2022; a fine 2024 potrebbero aver raggiunto quota 5mila. Secondo la prima ricerca nazionale sulle Società Benefit realizzata da Assobenefit, tra il 2019 e il 2022 le SB hanno fatto registrare una crescita del fatturato più che doppia rispetto alle non benefit: 37% contro 18%.
In Italia essere Società Benefit è diventato un prerequisito per diventare Benefit Corporation o B Corp: si tratta di aziende che con il loro business mirano a creare un impatto positivo sociale e ambientale. Sono nate negli Stati Uniti per iniziativa della non profit B Lab, che ha sviluppato il benefit impact assessment, uno strumento per misurare il profilo di sostenibilità di un’impresa; più precisamente, per capire se sta producendo più o meno valore di quanto ne utilizzi per poter funzionare. In Italia le B Corp – che secondo il premio Nobel Robert Shiller, «avranno migliori performance rispetto alle aziende tradizionali» – a metà dicembre erano 322, con oltre 32mila occupati e un fatturato che supera i 16,8 miliardi; a fine 2023 erano 266 – il 26% delle quali fondate, guidate o partecipate da donne – ed erano già cresciute del 41% rispetto all’anno precedente, secondo i dati che emergono dal report realizzato da B Lab Italia, l’organizzazione non profit che coordina il movimento delle B Corp in Italia. Siamo al secondo posto in Europa dietro la Francia, che nel 2023 ne aveva 376, mentre in tutto il Vecchio Continente sono oltre duemila, e nel mondo vanno verso le diecimila.
Certo quella di B Corp non è una vera e propria certificazione, in quanto non effettuata da un organismo di certificazione, e in quanto non fa riferimento a regole accettate a livello internazionale come le norme Iso. Di qui una serie di polemiche e anche accuse di green e social washing, cui B Lab ha risposto con un atteggiamento di apertura: «Attualmente è in corso una revisione sostanziale dei nostri standard per la certificazione B Corp, che comprende una revisione della struttura di base in modo da concentrarsi su argomenti sempre più fondamentali e requisiti più specifici. Questo potenziale cambiamento, tuttavia, non mette in discussione il valore degli standard così come sono attualmente configurati”. «Nel nostro Paese, più che altrove, vantiamo un tessuto imprenditoriale di piccole e medie imprese che nel proprio Dna nutrono una visione improntata alla sostenibilità, avvicinandosi ai valori e ai principi, anche operativi e organizzativi, del movimento delle B Corp» dice Anna Puccio, Managing Director di B Lab Italia.
E a proposito di Dna italiano, l’importanza del coinvolgimento dei lavoratori è stata analizzata anche dal punto di vista dell’impatto economico dal rapporto Gallup State of the Global Workplace 2023. Il basso grado di coinvolgimento dei collaboratori costerebbe all’economia globale 8.800 miliardi di dollari, circa il 9% del Pil globale: una cifra enorme, che permetterebbe di far fronte anche alla crisi climatica con ben altra efficacia. Gallup ricorda che una cattiva gestione dei collaboratori porta alla perdita di clienti e profitti, ma anche a vite infelici. La ricerca rileva che in molti casi avere un lavoro che si odia sia addirittura peggio che essere disoccupati; e le emozioni negative vengono poi riportate a casa, influenzando i rapporti con la famiglia. Se ne sono resi conto anche gli americani, che ad Harvard hanno lanciato il modello olocratico, che dà letteralmente potere a tutti i lavoratori di esprimere il loro talento a beneficio dell’azienda: proprio quello che l’imprenditore Leonardo da Vinci praticava più di 600 anni fa.
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