Trump e Musk: in principio è l’azione

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Nel film Un volto nella folla (Elia Kazan, 1957) assistiamo all’inarrestabile ascesa di Larry “Lonesome” Rhodes, ex cantante country interpretato da Andy Griffith che, scoperto dalla conduttrice di una trasmissione radio, diventa presto un idolo delle folle, un influencer (allora si diceva testimonial), nonché un aspirante politico. Ma quando Marcia, la produttrice che purtroppo si è innamorata di lui, decide di punirlo dei suoi tradimenti, non deve far altro che lasciare acceso il microfono alla fine di un programma televisivo e poi diffondere la registrazione in cui Lonesome Rhodes, il campione del popolo, dà degli idioti a coloro che lo seguono. Il suo indice di gradimento crolla e la sua carriera politica è finita.

Questo nel 1957, ma oggi non è più così. Il nuovo populista non teme affatto di far sapere al suo elettorato quello che pensa di loro. Quando Trump ha detto: “Amo gli ignoranti” (“I love the uneducated”) non ha perso voti, anzi ne ha guadagnati. Il populista che disprezza il popolo viene osannato da un popolo che a quanto pare disprezza soprattutto se stesso. Ma è proprio così?

Michael Sandel, filosofo della politica e autore di La tirannia del merito (2020), ha argomentato che i recenti movimenti populisti, negli Stati Uniti e altrove, sono una rivolta delle masse contro le élites di coloro che si ritengono, per nascita e censo, “la metà migliore” (è un’espressione che userò ancora, in un contesto più preciso). Ma non sono sicuro che questo sia ancora vero. Il 20 gennaio 2025, durante l’inaugurazione della sua seconda presidenza, accanto a Trump non c’erano gli ex minatori della Pennsylvania o gli operai del Michigan; c’erano gli amministratori delegati delle grandi tech companies, gli uomini più ricchi e potenti del pianeta, nessuno dei quali ha mai nascosto la propria politica antisindacale e l’assunto in base al quale il miglior amministratore è quello che licenzia di più. Come si è realizzata questa unholy alliance, questo matrimonio osceno di populismo, tecnocrazia e sovranismo?

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Una risposta non effimera, anzi seriamente filosofica, la troviamo in un recente libro di Rocco Ronchi, Populismo / Sovranismo. Una illustre genealogia (pp. 164, Castelvecchi 2024). È un testo dal peso specifico troppo alto per essere semplicemente recensito; un breve riassunto delle sue tesi non gli farebbe giustizia. Di fatto, ogni capitolo potrebbe essere l’inizio di un libro a sé. Entrerò quindi in discussione con Ronchi cercando di esporre le sue idee principali e avvertendo il lettore dove aggiungerò del mio. Mi riferirò alla realtà americana perché è quella che conosco meglio, anche se il testo di Ronchi si rivolge soprattutto ai sovranismi/populismi europei.

La tesi iniziale è che populismo e sovranismo hanno la stessa genealogia, la quale non è poi così lontana da quella della democrazia. Ciò che i tre regimi hanno in comune è che non mettono mai in discussione la sovranità del “popolo”. Come poi articolano questa sovranità e che cosa intendono per “popolo” resta da vedere, ma la loro comune genesi sta nella “metafisica moderna della libertà” (p. 8) che li tiene insieme più di quanto sembri.

Innanzitutto, sostiene Ronchi, la critica della sinistra al populismo manca il suo obiettivo nel momento in cui “semplifica” il successo che il populismo sta avendo su scala planetaria, riducendolo ad un inganno di cui le masse sarebbero vittime. È un errore già commesso in passato, quando liberali, socialisti e comunisti avevano sottovalutato la portata “filosofica” del fascismo, che non era un’aberrazione del liberalismo bensì una vera e propria metafisica.

Una metafisica del potere? Dello Stato? Mi azzarderei a dire: dell’azione. Ronchi fa entrare qui la categoria del mito, o la politica del mito, che riprende da Georges Sorel (il pensatore le cui tesi potevano essere piegate a destra come a sinistra, e che forse più di ogni altro ha influenzato il giovane Mussolini). È il “mito dell’azione” a costituire allora la metafisica del fascismo, e troverei la sua prima radice nell’interpretazione che il Faust di Goethe dà del primo verso del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo”. No, dice Faust: “In principio era l’azione!”.

Con questa traduzione, azzardata ma non troppo (perché il Lógos / Verbum di Giovanni può essere inteso come performativo, come ciò che crea letteralmente – attraverso lettere – il mondo), si aprono i secoli dell’ingegneria sociale o, come si direbbe oggi, della biopolitica. Pare che una volta Joseph Goebbels abbia affermato: “Non amo affatto Goethe ma gli perdono molte cose per aver detto: ‘In principio era l’azione’”. Mussolini avrebbe potuto esprimersi nello stesso modo. Anche Lenin. Anche Fidel Castro o Mao. L’importante è agire; le conseguenze si vedranno dopo.

Il fascismo, sostiene Ronchi, non è stato un archetipo ma un “prototipo”, lo schema operativo di modelli a venire, anche molto diversi dal modello iniziale, ma che non possono ripudiarlo del tutto. Se oggi parliamo ancora di fascismo, direi allora che dobbiamo indicarlo come si farebbe con le automobili: come esiste una Bugatti 1932 o una Jaguar 1966, così esistono una democrazia 1945, una demagogia 1994 e un fascismo 2025. E il motore di quest’ultimo fascismo è l’insofferenza nei riguardi del sapere.

Ronchi riprende qui un’analisi condotta altrove del motto “Me ne frego!”, nato in una canzone del 1920, inno degli Arditi di Fiume, e poi divenuto passaparola fascista. Ricordo una scena di Anni difficili (Luigi Zampa, 1948): in un teatro d’opera, un gerarca fascista si scandalizza perché ci sono versi, nel libretto della Norma di Bellini, in cui si inneggia alla distruzione di Roma. Gli fanno notare che è stato scritto cent’anni prima. “Me ne frego!” tuona il gerarca. “Io l’ho sempre detto che gli intellettuali italiani sono degli sporchi antifascisti!”.

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La ragione filosofica del “me ne frego del sapere”, che può toccare tanto Vincenzo Bellini quanto i vaccini contro il Covid, non sta tanto nell’ignoranza della plebe, sostiene Ronchi, quanto in una “metafisica della libertà” le cui radici vanno cercate nell’illuminismo kantiano e, aggiungerei (ma è scontato), nell’empirismo inglese. A mo’ di postilla, osserverò che l’ignoranza della plebe come fattore politico non è però da sottovalutare. Le recenti elezioni americane sono state un’orgia di disinformazione come non se n’è mai vista, e che è solo un preludio ad orge ancora più devastanti. Ma oltre alla disinformazione c’è, potentissima e ignorata da tutti, la totale mancanza di informazioni. Il giorno prima delle elezioni, la domanda più frequente rivolta a Google negli Stati Uniti è stata: “È vero che Biden non si ripresenta?”.

Il senso dell’argomentazione di Ronchi però non cambia. L’illuminismo vuole che l’essere umano si faccia soggetto autonomo, che metta in discussione l’autorità, ogni autorità, tranne quella della ragione scientifica. Se però qualcuno si alza a dire che anche sottomettersi all’autorità della ragione scientifica non è diverso dal sottostare a una tirannia, ecco che l’edificio della razionalità comincia ad incrinarsi e, quel che è peggio, si incrina proprio grazie alle armi fornite da quella libertà nata per difendere la ragione.

Il profeta di questa demolizione è l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij (1864), il risentito contro il mondo che dalla sua topaia (perché la vera traduzione del titolo, come aveva fatto notare Nabokov, non è tanto Memorie dal sottosuolo quanto Memorie da una topaia) argomenta “filosoficamente” che non c’è vera libertà se non c’è il diritto di dire che 2+2=5. Se io voglio che 2+2=5, la mia volontà (che è altrettanto infinita quanto quella di Dio, e lo dice Cartesio nel Discorso sul metodo) deve esercitare sovranità assoluta. Non c’è libertà se non nell’errore (o nel Peccato Originale, aggiungerei), ma se l’errore è un diritto assoluto, anzi se coincide con la capacità dell’essere umano di trascendere se stesso e le proprie limitazioni, come possiamo ancora chiamarlo errore?

Quando Kellyanne Conway, consigliere della Casa Bianca durante la prima presidenza Trump, il 22 gennaio 2017 dichiarò davanti ai giornalisti stupefatti che il numero di persone che avevano assistito alla prima inaugurazione di Trump, quale era stato fornito dalla Casa Bianca, non era fasullo, era solo un “fatto alternativo”, non sapeva di portare a conclusione un discorso filosofico che, stando all’analisi di Ronchi, era iniziato ancora prima di Dostoevskij; per la precisione con Max Stirner, L’unico e la sua proprietà (1844), nel quale il diritto all’errore in quanto errore viene rivendicato come assoluto.

Elaboriamo: in quel giorno, 22 gennaio 2017, il mondo è cambiato. D’un tratto, non era più vero che “non esistono fatti, ma solo interpretazioni” (Nietzsche), perché Nietzsche intendeva dire che le interpretazioni sono esse stesse dei fatti. Non era più vero che la realtà avesse ceduto il posto al suo simulacro (Baudrillard), perché nessuno intendeva simulare niente. Non era più nemmeno vero che esistessero una scienza dei fatti “conservatrice” e una scienza dei fatti “rivoluzionaria”, come si sarebbe detto ai tempi del maoismo. No: da quel giorno cominciò a esistere la realtà fai-da-te. La Casa Bianca non perse neanche tempo a difendere la verità dei suoi numeri rispetto a quelli verificati dai media. Voi dite che alla mattina solo 193.000 persone hanno preso la metropolitana per andare all’inaugurazione? Benissimo, e io dico che erano 420.000. È il mio fatto alternativo, e non è nemmeno l’errore in quanto errore di cui andava fiero Stirner. No, il mio fatto è tanto “vero” quanto il vostro. (Negli anni della sinistra extraparlamentare, Lotta Continua raddoppiava di regola il numero dei partecipanti alle manifestazioni; si chiamava “raddoppio rivoluzionario”, ma Lotta Continua non è mai arrivata alla Casa Bianca, tutt’al più è arrivata a fornire dei quadri a Mediaset. Dopo l’invenzione dei “fatti alternativi” viviamo tutti in un romanzo di Philip K. Dick, possibilmente L’uomo nell’alto castello, altrimenti conosciuto come La svastica sul sole.)

Il mondo è cambiato un’altra volta, e forse ancora di più, il 6 ottobre 2024, quando Elon Musk è apparso sul palco di un comizio elettorale di Donald Trump facendo salti di gioia, mentre il giorno della seconda inaugurazione di Trump, il 20 gennaio 2025, tutti hanno visto anche il suo para-saluto romano, preludio a un prossimo remake di Fascisti su Marte. In quel momento si è incarnata quella che Ronchi chiama “la convergenza tra populismo anti-istituzionale e la forma più pura del liberalismo: l’anarco-capitalismo”. E aggiunge: “Per quanto la propaganda populista sia infarcita di retorica anticapitalista, l’anarca, vale a dire il soggetto della libertà infinita, è veramente il soggetto neoliberale. Il grande teorico liberale Isaiah Berlin (che certo non può essere ascritto all’anarco-capitalismo) lo ha dovuto francamente riconoscere. A fondare il diritto assoluto di una convinzione, scrive [in La libertà e i suoi traditori, pubblicato nel 2002 ma basato su conferenze del 1952], è il solo fatto di essere una mia convinzione. La sua verità e fondatezza è del tutto inessenziale” (p. 23).

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La questione della libertà si lega al cuore di quella che è la ricerca fondamentale di Ronchi come filosofo teoretico, la relazione tra potenza e potere (è l’argomento del suo libro immediatamente successivo, La rana e lo scorpione. Il canone della potenza, Castelvecchi 2025). La filosofia non manca mai al suo compito quando si occupa del potere. Il binomio potenza-potere è il suo argomento più prossimo, e se il filosofo descrive o appoggia sistemi illiberali o decisamente orrendi è perché vuole che la sua teoria del potere si faccia immediatamente pratica. Il che non è una scusa, ma serve a far capire che il filosofo non è mai stato un’anima bella. Il potere attira il filosofo come un teorema irrisolto attira il matematico, e nessuno dei due sopporta volentieri che un’equazione finale non lo risolva.

Ma che dire allora dei filosofi che hanno teorizzato, seguendo in questo il IX libro della Metafisica di Aristotele, la natura duale della potenza, il suo darsi e il suo sottrarsi? Non sarebbe forse questa la chiave per liberarsi dall’ossessione di agguantare il potere con le armi del pensiero? Quando Aristotele era ancora in vita, il dibattito iniziò ad opera di alcuni riottosi discepoli di Socrate, i non molto conosciuti “megarici” (il “canone minore” dell’epoca, per usare un termine che a Ronchi è familiare), i quali non riponevano molta fiducia nella categoria della potenzialità: una cosa, qualunque cosa, non è “possibile”; o è o non è (e se a qualcuno viene in mente l’ontologia di Emanuele Severino, ebbene, ci sta).

Nel Medioevo, specifica Ronchi, si sarebbe parlato di potenza divina “assoluta” oppure “ordinata”. Dio può violare le leggi della natura che ha creato lui stesso, altrimenti non sarebbe onnipotente; non è detto però che lo faccia, se non in casi eccezionali. Ma con questa oscillazione tra ordine assoluto e ordine relativo, determinato da specifici “stati di eccezione”, si sono poste le basi per quella che poi sarebbe diventata la sovranità dello stato moderno. Le leggi sono sacre, tranne quando lo stato di eccezione, che è più sacro ancora, ci costringe a metterle da parte. Ci dovrebbe essere una via d’uscita: se l’essere umano (mettiamo da parte per ora i megarici) è un aristotelico “essere del possibile”, vuol dire che può volere, o fare, come può anche decidere di non volere, o non fare. Il suo potere è anche un potere-di-non, che non è affatto un non-potere o un’impotenza; il potere-di-non è pur sempre un potere. Ma è una via praticabile?

Da Gilles Deleuze a Giorgio Agamben, la figura simbolica del potere-di-non è stata individuata nel Bartleby di Melville, il misterioso scrivano che ad ogni richiesta del suo capufficio risponde invariabilmente “I would prefer not to” (“Avrei preferenza di no”, come ha tradotto Gianni Celati, o “Preferirei di non”, come tradurrei io, per lasciare la frase sospesa come lo è in inglese). Agamben è un grande apologeta del “potere-di-non” bartlebyano. Ma con ciò si espone, come fa notare Ronchi, a un’autocostrizione: per poter essere fedele alla sua feroce critica dello stato d’eccezione e per difendere il suo “passivismo”, Agamben “non poteva non dire” ciò che ha detto sulla pandemia (che le misure per contenerla erano una forma di dominazione biopolitica artatamente imposta dal Potere ecc.), mettendosi così in strana compagnia con gli ultralibertari che consideravano l’obbligo della mascherina in pubblico come l’equivalente di una dittatura orwelliana. In altre parole, il teorizzatore del potere-di-non-fare si è trovato nella situazione di non-poter-non-fare ciò che ha fatto. La singolare concordanza verificatasi negli ultimi anni tra sinistra “radicale” (se il termine ha ancora un senso) e populismo “radicale” (termine che ha sempre più senso) ha, come si vede, “radici” molto antiche, e che forse non si possono estirpare.

Devo tralasciare altri capitoli (compreso quello di critica a Pasolini e all’“ideologia italiana”, che mi trova d’accordo) per giugere a quelli che mi premono di più: la virtù politica, sostiene Ronchi sulla base delle sue letture di Nietzsche, Brecht, Deleuze e Guattari, è quella dell’opportunismo strategico e non semplicemente tattico. Sia la Grande Politica di Nietzsche sia il Grande Metodo di Brecht sono interpretati da Ronchi come un “Grande Riformismo” che non dà nulla per immutabile, perché il divenire è un processo e non solo un voler raggiungere l’obiettivo. Quando l’obiettivo è raggiunto, non siamo gli stessi che eravamo quando l’abbiamo concepito, e nemmeno l’obiettivo è più lo stesso. Come già la intendeva Platone nell’Alcibiade I, la virtù politica è quella del timoniere che conduce la nave in porto, conoscendo le correnti e scivolando sulle onde senza mai sfidare apertamente il mare. Il riformismo radicale (mi verrebbe da dire “processuale”) è l’unica strategia che sia rimasta alla democrazia, e se viene così raramente tentata è perché è la più difficile.

Nessuno è così odiato, dal populista come dal sovranista, come il riformista vero. La riforma rende superfluo lo stato di eccezione in cui sguazza il sovrano, così come smorza la furia di chi sente il grido della canaille. Prova ne sia che un riformista serio come Joe Biden oggi è la persona più odiata da mezza America, al punto che gli stessi democratici non sanno più come difenderlo e sperano solo che la storia sia pietosa con lui almeno come lo è stata con Jimmy Carter. Se nei confronti di Kamala Harris c’è disprezzo (iena ridens, la chiamano i social media), nei confronti di Biden c’è una rabbia in tutto e per tutto sproporzionata anche rispetto agli errori che può aver commesso. Ma dal punto di vista sovranista/populista è una rabbia che ha la sua giustificazione. Se Biden fosse stato in grado di reggere il timone per altri quattro anni, molte delle istanze populiste si sarebbero dissolte e Trump sarebbe tornato a costruire alberghi.

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O forse no, o non del tutto, perché il timoniere è troppo intento ad evitare gli scogli per tener conto del fatto che i passeggeri della sua nave non provano alcun godimento in un viaggio che si annuncia sicuro. Citando un distico brechtiano, da Ascesa e rovina della città di Mahagonny, Ronchi osserva: “Cos’è la furia del ciclone / a paragone dell’uomo che cerca di godere?” (p. 25). Ebbene, l’uomo del sottosuolo sa poche cose, ma sa con certezza che in democrazia si può provare qualche piccolo piacere, ma raramente si gode. E l’essenza dell’umano non è né il piacere né la soddisfazione, insiste Ronchi, bensì der Genuß, la jouissance, il piacere indistinguibile dal dolore, la trasgressione rischiosa, la pulsione di morte che ci fa sentire vivi solo quando mettiamo a repentaglio la vita. I democratici possono portare sul palco Taylor Swift, Oprah Winfrey e Beyoncé, ma non c’è competizione se l’avversario porta sul palco Elon Musk, un puro shot di pulsione di morte, la più convincente incarnazione del Dottor Stranamore che si sia mai vista (ricordate la scena in cui Peter Sellers non riesce a controllare il braccio che parte in un saluto nazista e chiama Mein Führer il Presidente degli Stati Uniti?).

La piccola economy of opportunity di cui parlava Kamala Harris fa venire il latte alle ginocchia se davanti a noi abbiamo L’Uomo-Più-Ricco-Del-Mondo a prometterci che andremo su Marte. Perché? “Perché è lì” (“Because it’s there”), come disse George Mallory a chi gli chiedeva perché volesse scalare l’Everest. Morì nel tentativo, ma questo non importa, fa parte del patto. E i sovrano-populisti non hanno siglato un patto con il Dottor Stranamore e il suo Presidente solo per l’abbassamento dell’inflazione o la diminuzione dell’immigrazione clandestina, bensì per il godimento che provano quando comprano i bitcoin dai distributori automatici che in Texas, dove vivo io, già pullulano nei supermercati e nelle stazioni di benzina.

Davanti alla teofania della ricchezza assoluta non c’è opportunity che tenga, e nemmeno democracy, Il modello americano ha portato alle estreme conseguenze l’homo oeconomicus, progettato fin dai tempi dall’empirismo inglese. Qui mi riferisco al Foucault nella Nascita della biopolitica: si può concepire la libertà del cittadino a partire dai diritti dell’uomo oppure dal grado di indipendenza da concedere a chi è governato, che però resta intoccabile nel suo diritto alla proprietà privata. La prima libertà è quella dell’homo juridicus che deve armonizzare i diritti individuali con i diritti della collettività; la seconda è quella dell’homo oeconomicus che nella sua “volontà di possesso” (introduco questo termine come sottospecie della “volontà di potenza”) non conosce limiti.

Ma, se l’homo oeconomicus non può contenere la sua urgenza di accumulazione, è anche vero che questo lo rende assolutamente prevedibile, e dunque assolutamente governabile. Il singolo non viene “represso”. Non ce n’è bisogno, se non per contingenti ragioni demagogiche. Anzi, viene “accompagnato” nel suo desiderio di possesso, così come oggi veniamo “accompagnati” dagli algoritmi a desiderare ciò che ci viene offerto da desiderare. Foucault vi allude quando parla di intervento “ambientale”. Nessuno mi costringe a fare nulla, ma è l’ambiente in cui mi muovo (i rapporti di produzione più la semiosfera) a determinare ciò che posso fare o non-posso-non-fare. Si situa qui il passaggio dal lassez-faire alla “governamentalità”. Tra il soggetto giuridico e il soggetto d’interesse prevale il soggetto d’interesse (homo oeconomicus), ma il soggetto d’interesse non vince rispetto all’ambiente. Potrei aggiungere che, se la volontà di possesso è infinita, la volontà di governo, che è un’altra forma di possesso, è altrettanto infinita. E la Cina ne è il modello: ampia libertà d’impresa, ma legata un controllo politico capillare. Nessun “valore” che non sia fondato sulla volontà di possesso o sulla volontà di controllo “ambientale” sopravvive a questa stretta. La sfilata dei megaricchi e dai loro stramiliardi all’inaugurazione del secondo mandato di Trump è l’incarnazione di questo assioma. Per alcuni è uno schiaffo alla miseria, per altri è la mano tesa al blue-collar worker che si sente Elon Musk mentre compra i bitcoin nel supermercato di quartiere. E bisogna capire che tutt’e due le cose sono “alternative” e insieme tutt’e due vere.

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Impossibile qui non citare Benjamin, la Postilla al saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: “Il fascismo cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate senza però intaccare i rapporti di proprietà la cui eliminazione esse perseguono. Il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti). Le masse hanno un diritto a un cambiamento dei rapporti di proprietà; il fascismo cerca di fornire loro una espressione nella conservazione degli stessi”. Cito anche il commento di Robert Zaretsky apparso in un recente articolo di “Forward” (la rivista storica della sinistra ebraica americana), qui nella mia traduzione: “La proprietà non consiste più in ferrovie o acciaierie; è fatta di piattaforme social e intelligenza artificiale (…) Quando [Musk] ha menzionato il futuro della civiltà, ha suggellato le sue parole con un gesto che ha lanciato mille meme e una cacofonia di messaggi (…) Ironicamente, questo va bene sia a coloro che appoggiano la nuova amministrazione sia a coloro che le resistono, per non dire all’amministrazione stessa. Dà a tutti noi la sensazione di essere parte del processo, mentre la realtà dietro le quinte dello spettacolo si fa più cupa e più buia…” (It’s not Musk’s gesture that matters; it’s the fascism – The Forward). Il fascismo (ancora Benjamin) permette all’umanità “di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine”. Era fascista il gesto di Musk? Lui l’ha negato, ma che importa? I fascisti di tutto il mondo l’hanno riconosciuto come cosa loro, ed è il “percepito” che conta, non è così che ci avete insegnato, voi signori dei social media? Che per lui non lo fosse è solo un “fatto alternativo”.

Per l’homo oeconomicus, però, la vera estetica è il triumphus pecuniae, la parata trionfale del denaro. Negli Stati Uniti, ma non solo, chi appartiene alla classe medio-alta, se ha un buon stipendio e la possibilità di investirne gradualmente una parte, con un po’ di accortezza e di fortuna può trovarsi benestante all’età della pensione. Questa democrazia della ricchezza tocca una percentuale minoritaria della popolazione, e solo in pochi e privilegiati paesi, ma non può essere trascurata, come invece lo è stata in tutte le recenti analisi politiche, nessuna esclusa. Perché contribuisce a una “trasvalutazione di tutti i valori” al termine della quale l’unico valore che rimane è appunto la ricchezza. Non la ricchezza di chi possiede 7.500 satelliti, ma una “benestanza” che abbaglia Mr. Smith il quale, quando vede il suo vicino Mr. Jones avviarsi verso una confortevole vecchiaia, scopre che la democrazia e i diritti umani non fanno aumentare i suoi fondi d’investimento, e allora a che servono? Il punto di vista non è poi così abissalmente diverso da quello di un operaio stalinista degli anni Cinquanta che magari avrebbe scelto un lavoro sicuro nell’Unione Sovietica anche se poco pagato e un appartamento in un orrendo casermone rispetto all’inutile “libertà di pensiero” garantita dalla democrazia occidentale, e che sul tavolo non gli portava niente. Poi naturalmente non lo faceva, perché non era possibile, e perché avrebbe perso il godimento di poter dire: “’Ha da venì Baffone!”.

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Il capitalismo avanzato è riuscito nell’impresa di rendere sua complice la classe lavoratrice. Molti hanno salutato con gioia maligna l’uccisione il 4 dicembre 2024 di Brian Thompson, amministratore delegato di UnitedHealthcare, ditta di assicurazioni ben nota (come molte altre) per il numero di rimborsi che nega agli assicurati. Ma quanti di coloro che hanno scritto messaggi di simpatia per Luigi Mangione (l’assassino) sanno che magari i loro fondi pensione sono investiti proprio nella ditta dell’amministratore ucciso? Se la mia assicurazione decide di non rimborsarmi perché deve assicurare il profitto più alto possibile agli azionisti, e se tra quegli azionisti, indirettamente, ci sono anch’io, contro chi dovrei protestare? Chi dovrei uccidere?

Il timoniere platonico, che in Ronchi incarna il riformista radicale, non ha molte scelte a disposizione. La sua radicalità consiste nel fare solo ciò che è necessario, e con l’accortezza di non farlo neanche apparire come una riforma. “Non cercate la libertà, dicevano [Bergson e Nietzsche], dove credete sempre di trovarla, vale a dire nell’alternativa tra possibilità date e nel principio della libera scelta. Se frugate in quell’arsenale quello che alla fine vi resterà nelle mani saranno ancora le catene dalle quali volevate liberarvi. Piuttosto imbarcatevi e procedete in mare aperto. Sperimentate il non-poter-non, la volontà di potenza, affidatevi alla creativity del reale! Allora la libertà di cui farete esperienza sarà una libertà sui generis, una libertà del terzo tipo rispetto alla frigida libertà dell’intelletto e alla irrazionale libertà della volontà. Questa libertà non discende dal possibile ma lo crea ricavandolo dall’impossibile, apre un sentiero dove c’era una selva. Il possibile di nuovo genere creato da questa libertà ha il senso del praticabile volta a volta, situazione per situazione, caso per caso, e guai a girare indietro lo sguardo…” (p. 144).

C’è qualche riformista che vorrà seguire questa esortazione? Lo spero, ma mi permetto di tornare a quella “metà migliore” alla quale avevo accennato all’inizio. In Titanic, proprio il polpettone di James Cameron (1996), quando all’arrogante harvardiano elitista Caledon Hockley dicono che non ci sono scialuppe a sufficienza e che metà dei passeggeri dovrà morire, il suo commento è: “Non la metà migliore” (“Not the better half”).

Significa che il timoniere non deve solo guardarsi da bonacce e tempeste; deve anche tener presente che “la metà migliore” dei suoi passeggeri magari intende sfasciare la nave sugli scogli e poi vedere cosa succede. Loro si salveranno in ogni caso, gli altri faranno da cavia. È accaduto nel 2008 con il crollo dei mutui subprime, può accadere ancor e su più larga scala perché ora è presente la variabile dell’intelligenza artificiale. La stabilità, o l’arrivo in porto della nave, non è tra gli scopi dei tecnocrati più decisi, i quali sanno che con il caos si guadagna di più che con l’ordine. Quella che hanno messo in moto è una rivoluzione economico-culturale che causerà sangue, sudore e lacrime, finché non finirà in un mare di fango, con un crollo finanziario o una guerra finanziaria o militare che nessuno poi dirà di aver voluto, mentre la democrazia, come sempre, sarà chiamata a raccogliere i cocci.



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