meno lavoro in presenza, poco stipendio e pensione a 70 anni!

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Il recente rinnovo del contratto per le Funzioni Centrali per il biennio 2022-2024, approvato definitivamente con il via libera della Corte dei Conti e siglato all’Aran, coinvolge circa 194.000 dipendenti pubblici di ministeri, agenzie fiscali ed enti pubblici non economici. Tra gli elementi distintivi di questo contratto vi sono un aumento medio di 165 euro lordi al mese, l’ampliamento del lavoro agile (con il riconoscimento del buono pasto anche nei giorni di smart working) e la possibilità di una settimana lavorativa corta di quattro giorni, pur mantenendo le 36 ore settimanali. Tuttavia, queste novità celano significative criticità che meritano di essere analizzate.

L’aspetto più contestato è l’incremento salariale previsto dal contratto. Con un aumento medio di 165 euro lordi al mese, si rimane lontani dal recuperare il potere d’acquisto perso a causa dell’inflazione, che nel triennio di riferimento è cresciuta in modo significativo. Questo ‘obolo’ si traduce in un incremento netto che difficilmente permetterà ai lavoratori di far fronte all’aumento dei costi della vita. Di fatto, l’adeguamento retributivo sembra più una misura simbolica che una reale risposta alle difficoltà economiche dei dipendenti pubblici.

Il contratto introduce il lavoro agile come una modalità lavorativa più strutturata, riconoscendo finalmente il buono pasto (fermo da decenni a 7 euro!) anche nei giorni di smart working. Tuttavia, questa scelta potrebbe essere letta come una strategia per ridurre i costi piuttosto che come un effettivo beneficio per i lavoratori. Tenere i dipendenti a casa comporta minori spese per infrastrutture, energia, logistica, lavoro straordinario, ma rischia di alimentare una percezione di distacco tra i servizi pubblici e i cittadini, specialmente in ambiti in cui la presenza fisica è fondamentale, e non da ultimo lo scollamento tra i lavoratori stessi.

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Anche la settimana lavorativa corta di quattro giorni, pur rappresentando un apparente progresso verso una maggiore conciliazione vita-lavoro, cela delle ambiguità. Le 36 ore settimanali rimangono inalterate, il che implica giornate lavorative più lunghe e potenzialmente più stressanti, anche se per la metà passate a casa! Questo approccio potrebbe ridurre i benefici psicologici e fisici associati alla settimana corta, trasformandola in una misura di facciata piuttosto che in un reale miglioramento della qualità della vita lavorativa, ma sempre rivolta a risparmiare sulle prestazioni da lavoro straordinario.

Insomma,

un contratto che dal punto di vista economico assomiglia più ad un reddito di cittadinanza che ad uno stipendio dignitoso, dal momento che con gli aumenti stipendiali contenuti in questo CCNL non si recupera il maggiore peso dell’inflazione registrato nel triennio di riferimento.

Il paradigma: poco stipendio in cambio di più lavoro da casa!

Il paradosso: il governo vuole tenere a casa gli impiegati per pagarli di meno di quanto dovuto, quando invece dovrebbero essere presenti sul posto di lavoro per rispondere alle necessità dei cittadini, ma per contro vuole mandarli in pensione a 70 anni! 

L’apparente modernizzazione del lavoro pubblico nasconde una realtà più complessa e problematica. La scelta di puntare su formule come il lavoro agile o la settimana corta potrebbe essere interpretata come una modalità per “fare di più con meno spesa”, trasferendo implicitamente parte dei costi e delle responsabilità sui lavoratori. Questa strategia rispecchia una visione del lavoro pubblico che fatica a valorizzare adeguatamente i propri dipendenti, percepiti più come un costo da contenere che come una risorsa strategica.

In questo contesto, l’intenzione di mantenere i dipendenti pubblici sul posto di lavoro fino a 70 anni appare incoerente. Da un lato, si cerca di risparmiare sugli stipendi con aumenti simbolici ripagando i lavoratori con la possibilità di restarsene a casa; dall’altro, si posticipa l’età pensionabile, ignorando le esigenze di un sistema che dovrebbe garantire un adeguato ricambio generazionale e la valorizzazione delle competenze.

Il rinnovo del contratto per le Funzioni Centrali evidenzia la necessità di una revisione più ampia e strutturale del lavoro pubblico in Italia. Per garantire un servizio efficiente e soddisfare le necessità dei cittadini, è fondamentale investire in politiche che valorizzino realmente i dipendenti pubblici, sia dal punto di vista retributivo che professionale. Inoltre, occorre considerare l’impatto delle nuove modalità di lavoro sui cittadini, assicurando che l’innovazione non si traduca in una perdita di qualità dei servizi.

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In conclusione, il nuovo contratto per il pubblico impiego rappresenta una tappa nel percorso di trasformazione del lavoro pubblico, ma non è esente da criticità. Se il governo vuole davvero modernizzare il sistema, deve andare oltre i cambiamenti di facciata, affrontando le disuguaglianze economiche e il divario tra lavoratori e cittadini. Altrimenti, il rischio è quello di trasformare il pubblico impiego in una macchina sempre più inefficiente, lontana dai bisogni reali della collettività.





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