La crisi climatica in un “documentario” a fumetti: intervista a Roberto Grossi

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A ottobre 2024 è uscito La grande rimozione, l’ultimo fumetto di Roberto Grossi (Il grande prato, Cassadritta), pubblicato da Coconino Press. Si tratta di un testo che affronta diversi aspetti della crisi climatica contemporanea, come il complesso insieme di cause e conseguenze, le sue radici, le azioni necessarie per prevenire quello che in certi casi appare inevitabile. Dato l’argomento, La grande rimozione si avvicina al saggio a fumetti: a un racconto informato e ricco di fonti unisce immagini accostate in una libera associazione molto studiata, fatta per collegare dimensioni apparentemente lontane di fenomeni contemporanei. Tutto è connesso all’interno del fumetto di Roberto Grossi, una consapevolezza cui si arriva con un certo sgomento. Al festival Lucca Comics & Games 2024 abbiamo intervistato l’autore, chiedendogli della genesi, delle tecniche e dei contenuti del suo ultimo lavoro.

Buongiorno Roberto e grazie per il tuo tempo. Cominciamo con una domanda sulla genesi del libro: dietro La grande rimozione è evidente un lavoro di ricerca profondo, sia rispetto ai contenuti, che rispetto a come questi vengono elaborati e proposti. Come nasce La grande rimozione?
Sono partito da una serie di possibilità. Inizialmente volevo fare un instant book sull’argomento. Con la storia per il volume Nessun rimorso, sui fatti di Genova del 2001 (Coconino Press 2021), ho sperimentato un racconto per immagini senza parole, riuscendo comunque a far passare un messaggio politico, e volevo sfruttare questa possibilità per trattare la crisi climatica. Ma appena ho cominciato a mettere in fila delle prove e le ho sottoposte a Coconino, ci siamo resi conto insieme che un fumetto muto su questi temi non avrebbe funzionato: non sarebbe stato possibile trattare questi argomenti nella loro complessità e soprattutto farli arrivare a lettori e lettrici. Così è cominciata una fase di documentazione per capire cosa dire veramente, cosa spiegare e cosa non spiegare. Effettivamente non mi ricordo più se è nata prima la ricerca delle immagini o quella dei testi. Il lavoro di documentazione è stato senza dubbio devastante da un punto di vista mentale ed emotivo, perché quando cominci a fare ricerca su un argomento, l’algoritmo ti bombarda di materiali affini e finisci in una sorta di realtà parallela per cui ti sembra di essere l’unico che legge quelle notizie mentre fuori il mondo va avanti indisturbato. È stato fastidioso, a tratti alienante: sembravo un personaggio di uno di quei film scadenti in cui il complottista è strafatto di acidi e solo lui vede il dramma del mondo.

Tanta della forza di questo fumetto viene dall’accostamento di immagini, dall’associazione di elementi anche molto diversi o distanti geograficamente. Il che porta a porsi delle domande sulla scelta del fumetto per fare questo lavoro: che possibilità hai trovato in questa tecnica (e nel fumetto in generale) rispetto ad altre forme che, sempre per immagini, hanno trattato la crisi climatica, come il cinema documentario e la fotografia?
Ripensandoci ora, da sempre porto con me un aspetto che mi è caro: quello dello straniamento. Questo deriva dalle mie prime esperienze come artista, da giovane, quando con gli Sciatto Produzie ragionavamo sugli spazi dismessi. Anche nelle mie storie precedenti c’è un elemento che distorce la realtà in qualche modo, vuoi nell’ambientazione o nel corso degli avvenimenti. Di solito proprio nell’ambiente, perché la mia formazione da architetto mi porta in quella direzione. Con La grande rimozione ho provato a forzare la mano nel generare un cambiamento percettivo accostando immagini simili, ma in grado di provocare spaesamento o, appunto, uno straniamento. Il lettore deve essere disorientato, è questo che mi interessa: perché se continuiamo a ragionare con i metri di giudizio di sempre, rimarremo bloccati nella stessa posizione; invece è necessario uno shock percettivo per capire cosa stiamo rischiando. Sulla scelta di tanti paesaggi per questa operazione, questa è dettata dal fatto che innanzitutto è facile, intuitivo: mostrare il suolo come una mela divorata è immediato, perché quando la mela è finita non mangi più. È una prospettiva che va applicata a livello planetario. Il fumetto mi ha permesso di lavorare su questi accostamenti.

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La grande rimozione si pone come oggetto ibrido, di difficile definizione: è un fumetto, ma anche un saggio, ed è stato definito “graphic essay”. La possibilità di fare saggistica a fumetti è molto dibattuta, sono stati fatti vari tentativi, anche molto diversi. Spesso un saggio a fumetti consiste nel racconto di come è stata svolta una certa ricerca (la vita della scienziata o del ricercatore per esempio), ma tu hai preso una strada diversa, meno narrativa e più effettivamente saggistica. Non ci sono personaggi, se non tu, con la tua voce narrante. Vuoi parlarci della possibilità del saggio a fumetti e delle strade che possono essere percorse in questo senso?
Il tutto è avvenuto quasi per caso: cercavo un modo per raccontare questi argomenti e sul momento non sapevo di stare facendo un saggio a fumetti. Ero sicuro di non voler fare del graphic journalism, perché solo di rado mi convince: il più delle volte mi sembra una banalizzazione di un tema con lo scopo di renderlo comprensibile a chi non ha voglia di leggere altro, e questo mi indispettisce. Poi ci sono delle eccezioni, Joe Sacco ha fatto dei fumetti incredibili, ma perché restituisce delle complessità anziché semplificarle. Eppure, l’argomento della crisi climatica doveva essere almeno in parte semplificato perché riguarda tutto il sistema mondo, non è una crisi di settore. Insomma, è un argomento mostruosamente complesso, dovevo riuscire anche a essere sintetico e questa è stata la maggior parte del lavoro.

Ci sono concetti all’interno del fumetto che sono utili proprio per sintetizzare aspetti di questa crisi globale. Uno dei più interessanti, a mio avviso, è “l’estinzione dell’esperienza”, che consiste in una dinamica per cui “ogni generazione trova normale il suo livello di rovina”. Questo chiama in causa la questione del tempo: come dici ne La grande rimozione, tendiamo a dimenticare il passato, soprattutto quando sono coinvolti cambiamenti che agiscono sul lungo periodo. Il fumetto in questo senso possiede delle possibilità particolari, perché permette di far convivere tempi e spazi diversi sulla stessa pagina. Mi viene in mente Qui di Richard McGuire, per l’accostamento che fa di tempi e spazi differenti. Tu però per certi versi hai fatto l’operazione opposta: lo stesso tempo (oggi) in diversi luoghi del pianeta. Forse il fumetto riesce a offrire uno sguardo d’insieme su fenomeni che si espandono nello spazio e nel tempo?
Forse sì, non l’avevo ancora pensata in questi termini. Premesso che i testi presenti nel libro sono frutto di opinioni di altri, perché io non sono né un climatologo né uno scienziato, quello che ho fatto è stato scremare i discorsi che secondo me erano più seri e circostanziati, per poi lavorare su quello che so fare, vale a dire la resa grafica. Data una mole enorme di dati, ho cercato di unire i puntini, perché non vediamo mai il quadro completo della situazione, ma è esattamente quello che bisogna fare per avere consapevolezza del problema e il giusto terrore rispetto a quello che sta succedendo. E non parlo di quel terrore che, per fare un esempio, ti porta a rimanere paralizzato mentre attraversi la strada; piuttosto il contrario, serve quella sana paura che ti porta ad arrivare dall’altra parte, che ti sprona a trovare una soluzione. Nel fumetto ho trovato lo spazio per unire i vari punti del quadro, era quello l’obiettivo.

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A proposito di attraversare la strada e rimanere paralizzati: oggi, per un insieme di fattori (la rimozione del cambiamento climatico, la mancata consapevolezza che tutto è collegato, l’individualismo pervasivo), si percepisce una forte sensazione di impotenza, l’idea che non ci sia più niente da fare. Questo porta (anche inconsciamente) a un certo desiderio nei confronti della catastrofe, qualcosa che segni finalmente un punto di rottura rispetto a una vita che va avanti per inerzia, dove poco o nulla può essere cambiato in maniera radicale. L’immaginario, non a caso, è ricco di queste rappresentazioni apocalittiche o catastrofiche. Ma anche questa è un po’ un’illusione, no? Un meccanismo di rimozione. Perché si basa sulla convinzione che, se arriva la catastrofe, noi in qualche modo sopravviveremo, riusciremo ad abitare questo nuovo scenario, un’idea che è presente anche nel tuo fumetto. Tu e il tuo lavoro come vi ponete rispetto a questa narrazione e, in generale, verso le narrazioni apocalittiche e post-apocalittiche tanto in voga oggi?
Le narrazioni post-apocalittiche mi sono sempre piaciute, ma credo che i classici del genere siano stati realizzati tra i trenta e i cinquant’anni fa, quando effettivamente il tema cominciava a essere affrontato, vuoi per la paura della guerra nucleare che sembrava incombente, o vuoi perché, come racconto anche nel libro, queste problematiche si conoscono già dagli anni Sessanta, quando erano state sottoposte anche all’attenzione dei politici. Jimmy Carter cominciò la prima campagna per mettere i pannelli solari, cominciando dalla Casa Bianca. Poi arrivò Reagan e si fecero mille passi indietro, anche sbeffeggiando chi aveva provato a fare qualcosa. La consapevolezza che si andasse verso la catastrofe c’era già allora, ma c’era anche una possibilità di fermarsi. Al contrario, pensare adesso a come sarà il futuro è abbastanza al di sopra delle nostre capacità: stiamo toccando delle leve dell’ecosistema del pianeta che proprio non sappiamo quali effetti produrranno. Abbiamo visto cosa è successo a Valencia e siamo solo a un grado e mezzo di aumento delle temperature medie. Entro la fine del secolo supereremo i tre gradi, forse anche di più, e non riusciamo a tenere conto degli effetti cumulativi di questi cambiamenti. Secondo me è il momento di agire, e questo significa chiedere delle azioni politiche. Non basta più chiudere il rubinetto dell’acqua o andare più spesso in bicicletta, questa fase era cinquanta anni fa. Adesso dobbiamo fermarci tutti, chiedere di fermarci tutti, e cambiare il sistema. Ci vogliono delle leggi e delle regole: l’azione del singolo può funzionare, ma solo se finalizzata a chiedere dei cambiamenti politici profondi.
E questo perché la maggior parte delle azioni necessarie sono al di fuori della nostra portata economica. Per attuare questi cambiamenti serviranno una montagna di soldi che vanno trovati attraverso la politica, redistribuendo la ricchezza: in tempo di guerra la tassazione diventa molto elevata per chi è ricco perché il Paese deve costruire delle armi di difesa. Questo dobbiamo fare, ma rispetto alla crisi climatica.

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È anche per questo che oggi c’è una forte sensazione di impotenza, l’impressione che sia già troppo tardi.
Ma questo è dovuto anche al fatto che ci piace piangerci addosso. È necessario fare massa critica tutti insieme. Il problema è smettere di pensare che questo sia l’unico sistema in cui possiamo vivere, perché stiamo per essere tutti cancellati dal pianeta, quindi io direi: se non ora, quando? Ha più senso fare la lotta di classe oggi che nell’epoca della rivoluzione industriale: tutto sommato andare a lavorare in fabbrica fin da ragazzo, sì, faceva male alla salute, ma almeno ti dava da mangiare. Lottavi per dei diritti. Adesso la questione è che rischiamo di venire trascinati via e di perdere non solo il lavoro, o lo stipendio, o la salute, ma tutto. Ogni cosa. Di che parliamo?

A questo proposito, un’immagine che mi ha colpito de La grande rimozione è quella dei ricchi. Questi vengono collegati a un altro fenomeno che si fatica a riconoscere, quello delle disuguaglianze sociali, economiche e di classe, un altro grande non detto del nostro presente. Abbiamo interiorizzato a tal punto un certo modo di pensare che ci diciamo: se una persona ha accumulato così tante ricchezze, se le è guadagnate, no? E se ha i soldi, ha diritto di scegliere come spenderli. Sono figure a tal punto mitizzate che proporne una critica sembra fazioso, dettato dall’invidia, o dal non avercela fatta. Invece ci sono delle responsabilità che, come le ricchezze, non sono equamente distribuite. Una critica esplicita in questo senso è piuttosto rara al giorno d’oggi.
Assolutamente, e viene raccontato esplicitamente nel libro. Anche lo spostamento su concetti come “l’impronta di carbonio personale”, è un tentativo per colpevolizzare le persone in maniera equa, ma le colpe e le responsabilità, come le ricchezze, non sono equamente distribuite. Vogliamo parlare dell’impronta di carbonio? Va bene, io devo ridurla del 30%, diciamo. Tu che sei un nababbo devi ridurla di centinaia di volte: allora adesso mi dai il 99,9% del tuo patrimonio e lo usiamo per rimettere a posto il pianeta. Nessuno accetterà mai un discorso del genere se non c’è una mossa politica in questa direzione. Ma l’alternativa qual è, quella del film Don’t look up? Pochi facoltosi salgono su un’astronave e vanno su un pianeta dove moriranno? O muoiono nel viaggio, visto che non abbiamo la tecnologia per l’ibernazione? Il più grande miliardario del pianeta immagina di costruire colonie su Marte, probabilmente anche per velleità estrattive, mentre il pianeta va in rovina, è una follia. Ti trasferisci in un posto dove è impossibile vivere, quando dovresti fare in modo che la Terra resti abitabile. È il delirio di una persona assuefatta al denaro, che però tira le leve dell’informazione mondiale. E trovo incredibile che siamo qui a sognare di avere i suoi soldi, di avere altrettante ricchezze, mentre il pianeta va in malora. Se davvero avessimo tutti il suo stile di vita, la Terra durerebbe dieci secondi.

Torniamo al tuo fumetto e ai modi che hai scelto per raccontare questi concetti. Per chi è pensato La grande rimozione? Per quale pubblico? Sembra adatto sia agli adulti che a ragazzi e ragazze, forse persino con la mediazione delle scuole.
Direi che è rivolto a tutti. Non so chi lo possa recepire meglio, ma sicuramente i giovani potrebbero essere più disposti ad accettare almeno l’idea del cambiamento. La mia generazione per certi versi ha fallito, o meglio, abbiamo cercato di combattere per cambiare le cose, ma poi certo, le battaglie si vincono e si perdono. A Genova nel 2001 si facevano queste rivendicazioni e quello è stato un punto di svolta, perché la risposta è stata “Non ce ne frega niente, vi massacriamo e tiriamo dritti”. È tutt’ora una ferita profonda, forse non c’è stata la consapevolezza di dover dire no, del non far passare quel rifiuto, ma ha influito anche la guerra successiva all’11 settembre di quello stesso anno. Sì, l’accoppiata Genova e 11 settembre 2001 è stata terribile. Però se venticinque anni fa avessimo cominciato a rallentare, oggi la frenata necessaria sarebbe molto più indolore.

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La grande rimozione, però, non è un fumetto solo di saggistica: ci sono anche elementi autobiografici, dei richiami espliciti alla tua esperienza. Che ruolo hanno questi all’interno del fumetto?
Tendenzialmente sono restio a scrivere direttamente di me: non sono quel tipo di autore che si mette al centro per farsi specchio del mondo. Però in questo caso ho pensato servisse un espediente per scendere dalla cattedra dell’informazione. Avevo paura che il fumetto risultasse una lezioncina e che allontanasse lettori e lettrici. Così ho cominciato a parlare anche dei miei ricordi, anche perché uno degli aspetti più inquietanti della crisi climatica è che sta accelerando e diventando visibile. E va bene parlare della perdita di memoria dell’esperienza, ma i cambiamenti diventano talmente rapidi che li puoi riscontrare nell’arco della tua vita. Allora notarli, appuntarli, è fondamentale, oltre che spaventoso. Voglio dire, è assolutamente innaturale che io viva più di un ghiacciaio, eppure, frequentando lo stesso posto a distanza di anni, ho visto che sta succedendo. È qualcosa che dovrebbe farci molta paura. Non è normale il livello di pericolosità a cui siamo esposti alla luce di questi fenomeni.
Questo impone di vedere le cose in maniera diversa: noi stiamo ancora progettando voli per le vacanze, magari a Valencia, appunto, una bella città della Spagna, poi arrivi e finisci sott’acqua. Si può continuare a viaggiare, ma è sempre più chiaro che il nostro stile di vita va cambiato: non possiamo più sognare di essere il miliardario con l’aereo privato che si sposta ogni giorno, per un concerto a Londra, poi a Rio de Janeiro per il party di un amico. Bisognerebbe levarglielo per legge l’aereo, perché il problema è che noi siamo qui a mortificarci e a stringere un buco alla cinghia, mentre c’è un’élite di persone molto ridotta che da sola può portarci al baratro. Anche se noi ci adeguassimo a standard di consumo più bassi (come fa già metà del pianeta inconsapevolmente, perché troppo povera per influire sul bilancio di carbonio), questa élite può comunque portarci alla rovina, i suoi consumi sono addirittura in crescita.

Un’ultima domanda: i tuoi fumetti precedenti (penso in particolare a Il grande prato e Cassadritta) erano di fiction. Come ti sei trovato a lavorare con questa forma più vicina al saggio? È una strada che continuerai a percorrere anche nel futuro?
Non so ancora, ma spero di tornare anche alla fiction. In realtà, quando pensavo a questo progetto, una possibilità era una storia che potesse contenere gli stessi temi, ma in questo momento credo che raccontare queste cose con un approccio documentaristico sia più importante. Perché con la storia, per cogliere certi aspetti, devi avere già un minimo di consapevolezza del problema, e può essere efficace perché commuove, ma spesso porta a concentrarsi, giustamente, su un aspetto che è più vicino a chi legge. Invece è stato interessante cercare di coinvolgere e fare empatizzare lettori e lettrici con la non-fiction e l’associazione di immagini. Poi, in qualche modo, anche ne La grande rimozione c’è una storia: si leggono dei dati, ma si cerca anche un modo empatico di leggerli, non è solo una lezione in cattedra. Forse c’è della fiction anche in questo fumetto, non sono sicuro che sia veramente un saggio, non ne ho letti molti di saggi a fumetti. Io lo vedo come un documentario a fumetti, che tra l’altro mi ha posto davanti a difficoltà enormi: una storia, infatti, dipende sì da un montaggio che può essere fatto in mille modi, ma tutto sommato è sempre figlia di una serie di eventi. Puoi decidere come costruirla e come montarla, ma vai comunque da un punto A a un punto B e gli eventi, mostrati dalle immagini sono quelli. Con un documentario, invece, dopo un’immagine ne puoi mettere una qualsiasi altra, questa possibilità mi ha aperto un mondo. Ora nutro il massimo rispetto per chi fa i documentari. Perché il massimo grado di libertà comporta la paralisi totale. Ci vogliono i vincoli per scegliere.

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Intervista realizzata al festival Lucca Comics & Games 2024

Roberto Grossi

Grossi AutoreGrossi Autore

Architetto, illustratore, autore di fumetti, vive e lavora a Roma. Le sue opere sono apparse su diverse riviste e quotidiani, tra cui Pulp Comix, Blue, BlueDerive, Derive e Approdi, Il manifesto, Animals e riviste-libro come Squame, B Comics e Galago, in Svezia.
È stato uno degli illustratori del quotidiano Liberazione e del settimanale Carta. Nel 2014 il suo primo libro come autore unico, 3boschi, ha ottenuto la “Menzione speciale autoproduzione” al Premio Cosmonauti del festival Tra le Nuvole. Nel 2017 ha pubblicato per Coconino Press Il grande prato, e nel 2018 l’albo HIC, per la collana Fumetti nei Musei, realizzata da MIBACT e Coconino Press. Nel 2021 pubblica Cassadritta e nel 2024 La grande rimozione, sempre per i tipi di Coconino Press.

 



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