“Torturato per giorni, vedo Almasri nei miei incubi”. Le testimonianze delle vittime del generale libico

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“Con altri compagni ho provato a scappare dal carcere di Mitiga, ma non sapevo quanto alte fossero le mura. Quando ci hanno scoperto le guardie hanno chiamato Almasri. Aveva in mano una pistola, ci ha minacciati. Ci ha chiuso in una stanza. Siamo stati torturati per cinque giorni”. Lam Magok ha 32 anni e viene dal Sud Sudan. Vive a Roma ora, è un rifugiato. Ma prima di arrivare in Italia ha conosciuto il calvario della Libia. E le torture di Almasri – generale libico arrestato in Italia su mandato della Corte penale internazionale e scarcerato in meno di 48 ore – e della sua milizia. Ha lo sguardo fisso, mai basso, quando in una conferenza stampa alla Camera dei deputati – insieme con David Yambio della Ong Refugees of Libia, originario del Sud Sudan e Mahamat Daoud, sudanese, anche loro detenuti in Libia e vittime di Almasri – racconta quello che ha subito prima di riuscire ad attraversare il Mediterraneo. E quello che ha visto: “Questo sono io – racconta, mentre mostra una foto da un libro di un giornalista svedese – mentre sono costretto a costruire degli equipaggiamenti militari”. Ma i lavori forzati funzionali all’instabilità della Libia cui era sottoposto sono forse il minore dei supplizi cui lui e tanti altri migranti come lui sono stati obbligati. “Ci costringevano – racconta – a rimuovere i cadaveri dei nostri compagni morti. Senza mascherina, senza guanti, con le guardie che si tenevano lontane perché non volevano sentire l’odore dei corpi senza vita lasciati lì per giorni è impensabile che un qualsiasi essere umano sia costretto a fare una cosa del genere. Ed è per questo che continuiamo a chiedere giustizia”.

Lo ripetono più volte David, Lam e Mahamat che quella giustizia che non avevano mai visto nel loro Paese e poi nella loro traversata verso l’Europa se l’aspettavano in Italia: “Abbiamo avuto una cocente delusione quando abbiamo saputo che Almasri era stato liberato. Lo vedo ogni giorno nei miei peggiori incubi, è responsabile diretto di tantissimi crimini”, dice David Yambio. Lo fa mostrando la foto di una vittima giovanissima: Naima Jamal, ha 20 anni, etiope. Il suo volto è diventato tristemente noto perché i suoi aguzzini hanno mandato ai familiari un video in cui viene frustrata e una foto in cui appare legata. Naima è una delle tante vittime di un sistema feroce. Un sistema, quello di Almasri e dei suoi sodali fatto di “sparizioni forzate, torture, violenze, schiavitù. “Siamo grati all’Italia che ci ha accolto – dice ancora Yambio – ma non possiamo dimenticare le persone che sono rimaste in Libia. In qualità di sopravvissuti e vittime di Almasri non possiamo che chiedere la cessazione immediata degli accordi tra Italia e Libia”.

La parola inferno è quella che ricorre di più quando i tre ragazzi raccontano ciò che hanno vissuto in Libia: “Quando sono venuto a sapere che era stato arrestato a Torino per un attimo ho pensato che avrei trovato giustizia. Lo shock è stato enorme quando ho scoperto che gli era stato consentito di ritornare in Libia”, prosegue Magok. “Ho sentito – aggiunge – Giorgia Meloni dire che è una donna cristiana e una madre. Mi chiedo come è possibile per una madre rendersi complice di un criminale come Almasri, un criminale che uccide e tortura persone, ragazzini e bambini, tutti i giorni. La domanda che continuo a farmi è cosa accadrà adesso che Almasri è stato rilasciato. Non cambierà nulla, i migranti dovranno continuare a morire e a subire torture”.

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Fatica a trattenere la commozione Mahamat Dadoud, il più giovane dei tre, quando racconta della protesta fatta – insieme a tanti altri migranti – davanti alla sede Unhcr di Tripoli. “Una protesta – racconta – smantellata con grandissima violenza. Ho visto persone soffrire violenze indicibili, inaccettabili per un essere umano. Sono scioccato da come il governo italiano abbia fatto tornare Almasri in Libia. Non è possibile che il governo non sia a conoscenza delle torture, degli stupri, dei lavori forzati che avvengono nei lager libici. Chi si prende la responsabilità delle persone che ancora oggi si trovano nell’inferno libico?”.

Alla fine dell’iniziativa, Yambio prende quattro buste. All’interno ci sono quattro lettere. Una per ogni componente del governo coinvolto nella vicenda: Meloni, Carlo Nordio, Alfredo Mantovano, Matteo Piantedosi”. Al governo i giovani chiedono, oltre alla fine degli accordi con la Libia, “un impegno pubblico per chiedere il rilascio di tutti coloro che sono ancora imprigionati a Mitiga e in altri centri di detenzione in Libia, una spiegazione ufficiale del perché Almasri, che il vostro stesso Governo ha definito pericoloso, sia stato rilasciato invece di essere consegnato alla Corte penale internazionale; un percorso legale per i migranti intrappolati nei centri di detenzione libici, compresa la riapertura dell’Ambasciata Italiana a Tripoli per l’ottenimento di visti umanitari”.

Le opposizioni, presenti alla conferenza stampa, si sono impegnate a portare a destinazione le lettere: “Oggi un’informativa sul caso Almasri c’è stata – si legge in una nota congiunta in cui si fa anche riferimento all’annullamento dell’informativa di Nordio e Piantedosi, motivata dalla notizia dell’inchiesta nei loro confronti – ed è stata un bagno di verità, dura, come succede quando le storie di persone in carne ed ossa irrompono sulla scena. A farla però non è stato il Governo Meloni come sarebbe stato giusto e necessario e come continuiamo a chiedere. L’informativa l’hanno le vittime di Almasri”.

Lo slittamento dell’informativa dei ministri ha portato alla sospensione dei lavori del Parlamento fino al 4 febbraio. La spiegazione fornita dal governo sul rimpatrio del torturatore perseguitato dalla Corte penale internazionale era e resta incompleta.  



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