A Milano, Isabella Merzagora ha fondato S.A.Vi.D., un progetto innovativo per prevenire la recidiva. I colloqui in carcere: «Non ha senso, mio padre non è mai stato imputato per aver aggredito mia madre…»
La violenza domestica è un problema radicato, conseguenza di dinamiche culturali, psicologiche e sociali. Secondo gli ultimi dati Istat disponibili, nel 2023 in Italia 31.500 donne hanno intrapreso un percorso di uscita dalla violenza, con il 52% degli abusi perpetrati dal partner. Preoccupa l’alta percentuale di minori vittime o testimoni di violenza (77,6%), così come i casi di violenza durante la gravidanza (14,6%). In Lombardia, le segnalazioni al numero antiviolenza 1522 sono aumentate, con un picco del 72% a Sondrio e incrementi significativi anche a Cremona, Lecco, Brescia, Bergamo e Como.
A Milano, Isabella Merzagora, docente di Criminologia alla Statale, ha fondato il progetto S.A.Vi.D (Stop alla violenza domestica) per affrontare il problema alla radice: intervenire su chi ha già commesso atti di violenza per evitare che si ripetano. Un progetto innovativo, nato dall’esigenza di colmare un vuoto nel sistema di prevenzione. Per costruire un metodo efficace, Merzagora ha studiato da vicino la realtà carceraria, soprattutto in Lombardia. Ha parlato con uomini condannati per violenza domestica per capire come si sviluppa la mentalità abusante: quali idee hanno sulla violenza, quali giustificazioni si danno, se riconoscono i loro comportamenti come sbagliati. «Molti non considerano violenza gli insulti, le minacce, il controllo sulla partner. C’è chi crede che il matrimonio implichi diritti sul corpo della moglie», spiega.
Come nasce S.A.Vi.D?
«Durante il mio lavoro in una commissione ministeriale sulla violenza di coppia, ho scoperto che in molti Paesi europei esistevano programmi specifici per chi aveva agito violenza, mentre in Italia no. Così ho deciso di avviare un progetto per colmare questa lacuna».
Ci sono dati sugli uomini che hanno agito violenza o che pensavano di farlo?
«Il progetto ha seguito oltre cento uomini, inclusi quelli segnalati per stalking e inviati direttamente dalla Questura, spesso in seguito a provvedimenti del Codice Rosso.
Che tipo di persone incontrate?
Ci sono tre categorie principali: uomini inviati dal Tribunale, che devono seguire il percorso per ottenere misure alternative al carcere; chi arriva spontaneamente o su consiglio dell’avvocato, spesso con l’obiettivo di migliorare la propria posizione giudiziaria; soggetti segnalati dalla Questura, senza obbligo di partecipazione. Anche quando la motivazione iniziale è opportunistica, il nostro lavoro è serio e rigoroso: puntiamo a far comprendere la responsabilità e le conseguenze delle loro azioni».
Mi fa un esempio di come si svolge un colloquio con un marito abusante?
«Così, il fatto che sua moglie e i bambini se ne siano andati, è stata una vera e propria sorpresa per lei…». «Certo, naturalmente è stata una sorpresa. Mi hanno portato posto di polizia. Mi hanno accusato. Non ho mai sentito che sia successo prima. Quel che succede all’interno di casa tua non sono fatti loro!». «Se sei stato accusato, questo sembra voler dire che hai infranto la legge. Qual è l’accusa?». «Sono stato accusato di aver aggredito mia moglie. E questo non ha senso. Mio padre non è mai stato imputato per aver aggredito mia madre, eppure si picchiavano anche loro. I ragazzi con cui lavoro insegnano la disciplina alle loro mogli. Volevo solo fare un po’ d’ordine in casa mia»…
Ci sono caratteristiche sociali, demografiche o culturali comuni agli uomini che si rivolgono al centro?
«Li divido in quattro tipologie. Senz’altro ci sono i malati mentali, ma sono una minoranza, che necessita di cure psichiatriche. Rari anche i casi di uomini che commettono violenza in situazioni eccezionali e non ripetibili. Sono tanti invece i maltrattatori seriali, con anni di comportamenti abusivi alle spalle, e i soggetti con problemi di attaccamento patologico, che sfociano in comportamenti violenti».
Il Codice Rosso ha cambiato qualcosa?
«Ha accelerato le segnalazioni e portato più uomini nei centri, ma il problema resta culturale. C’è ancora chi vede la violenza come un diritto o un metodo di controllo».
Che cosa si può fare per prevenire?
«Dobbiamo partire dalle scuole, educare alla parità e al rispetto per fermare la violenza prima che inizi».
La Lombardia e Milano cosa fanno?
«La Lombardia è tra le regioni più attive nella lotta alla violenza domestica, con centri specializzati e programmi di prevenzione. Qui abbiamo avviato collaborazioni con Tribunale e Questura per monitorare le recidive e fornire strumenti utili ai magistrati. L’obiettivo è rendere Milano un modello di intervento contro la violenza di genere, puntando su educazione, sensibilizzazione e prevenzione».
Cosa serve per il futuro?
«Investire più risorse nella prevenzione e nel cambiamento culturale. Punire non basta, bisogna intervenire prima che la violenza si radichi».
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