Il caos dell’eolico in Sardegna

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Ora che sembra essersi affievolita il dibattito tra quelli che “conta solo il problema globale del cambiamento climatico e quelli che, invece, “il nostro paesaggio è sacro e non si tocca”, proviamo a riprendere con calma il tema dell’eolico.

L’origine di questa radicalizzazione a cui abbiamo assistito è in un quadro normativo molto carente e spesso arbitrario, i cui difetti sono stati ampiamente individuati e commentati. Ma non tutti. In questo articolo sosterrò che c’è un ulteriore problema che, se affrontato adeguatamente, avrebbe potuto aiutare a individuare soluzioni ragionevoli. Per spiegare a cosa mi riferisco inizio da un’analogia particolarmente semplice.

Quando accettiamo un lavoro, l’azienda che ci assume acquisisce una parte del nostro tempo: tempo che, in linea di principio, avremmo potuto impiegare per attività più piacevoli. Perché mai rinunciamo a quel tempo? Semplice: facciamo un calcolo costi-benefici, e concludiamo che il reddito che otteniamo compensa la riduzione del tempo libero. È un normale scambio di mercato, regolato da un prezzo (il salario).

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Immaginate ora il vostro “tempo libero” come se fosse il paesaggio in cui vivete. Pretendere di mantenere il panorama totalmente intatto potrebbe essere irrealistico quanto sperare di avere tutto il tempo libero del mondo senza mai lavorare. Il punto è poter decidere, come si fa nelle scelte su come impiegare il nostro tempo: quanto paesaggio siamo disposti a “usare” per fini condivisi (come la lotta al cambiamento climatico) e a quale prezzo (la compensazione per l’impatto visivo che subisce chi abita in zona).

Immagine generata da Grock di X

Ora siamo pronti ad affrontare il caso più complicato, l’energia eolica. Qui, come abbiamo appena suggerito, le aziende usano (nel gergo economico “domandano l’uso” di) una parte del paesaggio per produrre energia pulita. Una wind farm infatti “consuma” visivamente il territorio, imponendo un costo a chi ci vive. A differenza dell’esempio sul lavoro, però, qui il diritto di proprietà (o di utilizzo) non è chiaro: non è definito a chi spetti decidere se “vendere” quel pezzo di paesaggio e a quale prezzo.

Senza un soggetto titolato a “cedere” l’uso del panorama, il mercato si inceppa. Da una parte ci sono le imprese, che formulano proposte; dall’altra non c’è un vero e proprio proprietario con cui negoziare. Potrebbero (e dovrebbero) essere le comunità locali, ma non ci sono norme che lo consentano in modo chiaro. Così le decisioni finiscono spesso nelle mani di ministeri, giunte regionali o sindaci, e possono risentire di visioni politiche, interessi particolari o pressioni di minoranze particolarmente attive, senza coinvolgere l’intera collettività.

Il “caso Sardegna” nasce qui. In questa grave assenza di informazioni (cosa pensano i cittadini coinvolti? Tutti, non solo chi firma petizioni) si fa fatica a capire su cosa si basino e chi tutelino le decisioni prese da quei soggetti.

C’è un esempio piuttosto clamoroso che esemplifica bene questa situazione.

Che l’eolico possa avere impatti negativi sul paesaggio lo riconoscono tutti, persino le norme vigenti, che prevedono infatti alcune forme di compensazione per le comunità. Ma queste regole sono spesso inefficaci e arbitrarie: invece di stabilire un metodo per calcolare, caso per caso, quanto sia necessario compensare le comunità coinvolte sulla base delle loro preferenze, la legge impone un tetto massimo di rimborso quantificato nel 3% dei proventi.

Così, la compensazione non riflette davvero il valore del paesaggio, né tiene conto dell’opinioni di chi vive nel territorio.

I rischi? Se la compensazione fissata dal governo fosse calcolata male, al ribasso, allora:

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  1. Si correrebbe il rischio di installare più turbine di quante siano socialmente accettabili, perché una compensazione ridotta abbassa arbitrariamente i costi dell’impresa e incentiva a “consumare” più paesaggio.

  2. Si avrebbe una distribuzione ingiusta dei costi: parte del disagio visivo resterebbe sulle spalle dei cittadini, mentre all’impresa nessuno chiederebbe di coprire completamente questo costo.

(Per chi voglia approfondire questi due punti, alla fine di questo articolo trovate la sezione “PS: Il grafico” che li riprende con il supporto di qualche dettaglio tecnico.)

Per risolvere questi problemi occorre ascoltare le preferenze delle comunità interessate, misurando la loro “disponibilità ad accettare” la presenza di pale eoliche a fronte di una determinata compensazione. Questa disponibilità potrebbe essere anche zero, ma la cosa giusta è non dare niente per scontato prima di aver rilevato e valutato l’orientamento di chi vive nei territori.

È molto complicato farlo, certo, ma non è impossibile. Esistono metodi consolidati e usati in tutto il mondo (contingent valuation, choice experiments, hedonic prices) per misurare il valore che le persone attribuiscono alle risorse naturali. E per farsi un’idea di come funzionano non c’è bisogno di andare lontano.

Un esempio concreto viene da uno studio del 2012 a cura di Elisabetta Strazzera e altri che analizza un caso sardo. Si tratta del progetto di un parco eolico proposto per il Sulcis e il Medio Campidano. La ricerca dimostra che è possibile produrre dati molto dettagliati sulle preferenze di una comunità e, analizzandoli, emergono informazioni preziose per chi deve decidere. Per esempio, si scopre che il punto di vista che possiamo definire “Pratobello” (cioè un rifiuto radicale dell’eolico) è espresso dal 26% del campione. Non poco, ma lontano dal rappresentare la maggioranza, che invece si dichiara disposta a discuterne e a indicare vari livelli di compensazione (privata o collettiva) accettabili.

C’è quindi almeno in astratto la possibilità di completare un quadro oggi gravemente carente, provando a raccogliere accuratamente, con metodi scientificamente consolidati, informazioni dettagliate simili a quelle dello studio appena citato.

Nessuno sostiene che questo percorso sia semplice, né si può affermare con certezza che sia completamente percorribile. Tuttavia, ignorarlo sarebbe un grave errore. Occorre una discussione approfondita e una valutazione tecnica autorevole della sua fattibilità: se si dimostrasse che può essere concretamente applicato, le implicazioni potrebbero rivelarsi estremamente interessanti. Vediamole.

Se tutti i costi che i cittadini percepiscono (compreso quello paesaggistico) fossere adeguatamente misurati, ci sarebbero avrebbe tre vantaggi principali.

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Primo, si eviterebbe il rischio di avere un paesaggio invaso da più turbine di quante sarebbero socialmente accettabili. Facendo riconoscere alle il costo totale (privato e sociale, salari e impatto visivo) della loro attività, alcuni progetti diventerebbero economicamente non sostenibili e il loro numero complessivo diminuirebbe.

Secondo, diventerebbe meno profittevole installare turbine in luoghi particolarmente sensibili. È probabile infatti che, in aree di alto pregio paesaggistico, la compensazione richiesta dalle comunità coinvolte sarebbe maggiore, spingendo le aziende a preferire siti meno pregiati o già compromessi. Con un meccanismo di mercato trasparente di questo tipo, emergerebbero da sé le aree più “idonee”, senza bisogno di direttive calate dall’alto.

Infine, compensazioni adeguate ridurrebbero i profitti eccessivi e limiterebbero la possibilità di “speculare” su un bene collettivo come il paesaggio sardo. Invece di arricchire pochi, i proventi verrebbero in parte redistribuiti alle comunità locali.

Questo quadro, integrato con le informazioni sulle preferenze delle comunità territoriali, consente di definire il livello “ottimale” di installazione di parchi eolici dal punto di vista dell’impatto visivo.

Tuttavia, il riconoscimento del costo paesaggistico potrebbe indurre le imprese private a produrre una quantità di energia inferiore rispetto a quella assegnata alla Sardegna dagli accordi comunitari sul burden sharing. Ne deriverebbe che una soluzione ottimale dal punto di vista paesaggistico potrebbe entrare in conflitto con una soluzione ottimale sotto il profilo ambientale.

📌 Cos'è il 'burden sharing'? È il principio secondo cui i costi delle politiche ambientali devono essere equamente distribuiti tra paesi, regioni o comunità. Nel caso dell’eolico, significa bilanciare il peso tra gli interessi delle imprese, delle comunità locali e del governo nazionale.

Avere a disposizione tutte le informazioni necessarie, tuttavia, permette di affrontare anche questa tensione. Se una compensazione caricata interamente sulle imprese private determinasse lo sviluppo di numero di impianti inferiore a quello richiesto vincoli europei, diventerebbe necessario un intervento dello Stato, che potrebbe farsi carico di parte dei costi attraverso la fiscalità generale. Questo approccio ibrido incentiverebbe le imprese a rispettare i target energetici stabiliti, assicurando al tempo stesso un equo compenso alle comunità per il disagio paesaggistico. Maggiori dettagli nella sezione “PS: Il grafico”.

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Mi sembra che di questo aspetto si sia parlato pochissimo: la possibilità e l’importanza di completare il quadro della transizione energetica con dati puntuali sulle preferenze delle persone che vivono nei territori interessati.

Sbaglierò, ma secondo me qui c’è un’opportunità per chi rappresenta politicamente la Sardegna nelle istituzioni, a cominciare da oggi chi siede in Parlamento. Usino l’esperienza maturata in Sardegna e le lezioni che abbiamo appreso per denunciare le gravi lacune della normativa vigente. Spieghino come queste lacune minano la possibilità sviluppare dibattiti adeguatamente informati e di prendere decisioni fondate ed eque. E infine esigano che il Governo si faccia carico del problema introducendo regole più adeguate alla complessità del caso.

Sarebbe un modo efficace di segnalare l’inadeguatezza delle norme attuali—fissate a Roma—e di dimostrare che la Sardegna è in grado di disegnare soluzioni migliori.

Rifarsi alla regola d’oro secondo cui per deliberare bisogna prima conoscere, e applicarla con precisione al caso dell’eolico, è una battaglia di buon senso, utile per tutto il Paese.

Ecco il grafico di cui vi ho parlato. Immaginate una bilancia: da un lato, le imprese che vogliono costruire turbine eoliche, disposte a pagare un prezzo per compensare l’impatto sul paesaggio (curva di domanda, linea azzurra). Dall’altro, le comunità locali che chiedono una compensazione adeguata per accettare questo cambiamento (curva di offerta, linea arancione). Quando queste due forze si equilibrano, si ottiene un compromesso che rispetta le esigenze di entrambe le parti. Senza una curva di offerta definita, però, la bilancia pende solo dalla parte delle imprese, creando uno squilibrio evidente.

E se il governo stabilisce una compensazione massima in questo quadro (la linea orizzontale verde, nel nostro esempio), non può che essere arbitraria e rischiosa.

Immaginate ora che la vera curva di offerta (benché non conosciuta) sia quella arancione. In questo caso, di fronte al limite alle compensazioni imposto dal governo, le comunità locali sarebbero disponibili a concedere agli imprenditori solo la qualtità Qo. Ma poiché questi diritti di proprietà non sono ben rappresentati e la curva corrispondente non è “operativa” (in altre parole, le preferenze delle comunità non sono rilevate e quindi vengono ignorate), decidono solo gli imprenditori e il “consumo di paesaggio raggiunge il punto Q1.

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Questo significa che (1) c’è uno sfruttamento del paesaggio eccessivo, non ottimale, (2) le imprese non pagano tutti i costi corrispondenti a quel livello di attività, e dunque (3) parte dei costi è scaricata sui cittadini. (I veri costi sono facili da individuare nel grafico: partite da Q1 e risalite sino a quando incontrate la linea arancione nel punto A. Il punto che avete trovato è molto più alto di quanto le imprese pagano per compensare l’impatto visivo, rappresentato dal punto B all’altezza della linea verde, il livello definito dal governo.)

E il burden sharing richiesto dall’Europa? Per definirlo con precisione è necessario conoscere la curva di offerta (come ho argomentato a lungo in questo articolo). Immaginiamo allora di aver risolto il problema e dunque di aver individuare l’equilibrio (l’incrocio tra la curva azzurra e quella arancione). In quel punto si determina una certa quantità di attività economica (l’energia ottenuta dall’eolico). Ipotizziamo ora che quella quantità sia inferiore a ciò che l’Italia (e in quota parte la nostra regione) devono fare per combattere il cambiamento climatico.

Che si fa? Se conosciamo le curve in dettaglio, si può fare così: si definisce la compensazione massima – inferiore a quella di equilibrio – che consente alle imprese di creare tutti gli impianti necessari, ma lo si fa, in questo caso, a ragion veduta.

Fatto questo, i dati sono sufficienti a calcolare qual è il costo ambientale pagato dalle comunità locali. Ipotizziamo, per non complicare il grafico, che il governo insista nell’imporre la linea verde come compensazione massima consentita. Ciò implica una produzione di Q1 e un costo per la comunità di A. Le imprese pagano B. Rimane da compensare la distanza tra A e B. Se per il governo e per gli accordi comunitari è essenziale produrre Q1, la compensazione tra A e B deve essere posta in carico alla fiscalità generale. Se c’è un interesse sovraregionale a produrre in Q1, è giusto che il costo non ricada esclusivamente sui residenti della regione.

Ringrazio Rinaldo Brau e Roberto Saba per aver letto una precedente versione di questo articolo e per avermi aiutato a migliorarlo, senza che questo li renda in alcun modo responsabili delle tesi qui sostenute.



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