La montagna che non si arrende a “grandi eventi” e impianti sciistici senza futuro

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Dei 101 impianti sciistici realizzati sugli Appennini più della metà sono chiusi o parzialmente chiusi, ovvero non usati da più di sette anni. È da questi numeri che ha preso il via l’analisi condotta dal professore di Patologia vegetale dell’Università di Napoli Giuliano Bonanomi e dai suoi collaboratori sulle montagne dell’Appennino (pubblicata a novembre 2024), alla ricerca delle cause che hanno permesso ad alcuni impianti sciistici di sopravvivere e ai fattori che, invece, hanno decretato la chiusura di altri.

Già negli anni Novanta -come quello di Zocca (Modena) che si sviluppava interamente sotto i mille metri di altitudine- o più recentemente, come quello lungo uno dei versanti del Gran Sasso, lo ski-resort di Prato Selva, aperto a singhiozzo dal 2013.

Di sci negli Appennini alla luce della crisi climatica il professor Bonanomi ne ha parlato all’incontro “Sport invernali e cambiamenti climatici”, organizzato a inizio febbraio presso lo spazio sociale milanese Piano Terra dall’Associazione proletaria escursionisti (Ape) insieme al Comitato insostenibili olimpiadi (Cio), in vista della giornata di mobilitazione nazionale “La montagna non si arrende” del 9 febbraio a un anno dell’avvio delle Olimpiadi Milano Cortina 2026.

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Il “grande evento” che vede proprio nelle montagne della Valtellina, della Val di Fiemme e di Cortina tre dei quattro cluster in cui si articola il programma della manifestazione sportiva e l’elenco delle opere infrastrutturali collaterali, come la contestata pista di bob a Cortina. Quest’ultima, dal valore di circa 120 milioni di euro e con un impatto ambientale importante, è considerata da tanti emblematica dell’insostenibilità dei Giochi invernali di Milano Cortina 2026 che, come recita l’appello per la giornata del 9 febbraio, “appaiono come un evento lontano dalle necessità delle comunità, esponendo la montagna e i suoi abitanti a una pressione antropica non sostenibile”.

Proprio per questo i promotori hanno scelto il 9 febbraio 2025 per lanciare la giornata di mobilitazione, con incontri e camminate dal Trentino alla Basilicata, contro le nocività e le opere infrastrutturali previste nelle terre alte, considerate sempre più come “un parco giochi da sfruttare fino all’ultimo respiro” e non come un bene comune da rispettare e da preservare.

Professor Bonanomi, le strutture degli impianti sciistici abbandonati sono sempre più frequenti sulle montagne viste le temperature sempre più elevate e le nevicate sempre più scarse. Nel suo articolo “Winter is coming for ski resorts: insights from the Apennines”, pubblicato sul Journal of mountain science, ha concentrato la sua attenzione sugli Appennini: quali sono le domande che hanno guidato la sua ricerca?
GB
Lo studio si è focalizzato su questa parte della Penisola in quanto per ragioni geografiche e morfologiche ha un clima più mite rispetto alle Alpi e quindi i suoi comprensori sciistici stanno soffrendo maggiormente le conseguenze del riscaldamento globale, con una copertura nevosa media in progressiva diminuzione. Allo stesso tempo, i costi di investimento delle stazioni sciistiche sono direttamente influenzati dalla disponibilità di neve, poiché i costi di gestione sono significativamente più bassi quando le risorse di neve sono più abbondanti con una copertura nevosa, quindi, più profonda e più duratura. Nonostante ciò, negli ultimi anni stiamo assistendo a un paradosso: sono proliferati i progetti volti a costruire nuovi impianti di risalita in tutto l’Appennino, grazie anche a finanziamenti in parte o totalmente pubblici. Tuttavia queste opere sono soggette a rischi elevati in quanto spesso non tengono conto dei rapidi cambiamenti climatici in corso e dei fattori ambientali che hanno un impatto significativo sulla loro redditività a lungo termine. L’assenza di dati solidi e duraturi sulla permanenza del manto nevoso negli Appennini ostacola ulteriormente la capacità di valutare oggettivamente la fattibilità e la sostenibilità ambientale ed economica di questi nuovi progetti. Alla luce di queste sfide e alla mancanza di dati sulla durata del manto nevoso, è stato necessario adottare un approccio alternativo per valutare la fattibilità e la sostenibilità di nuovi investimenti a lungo termine nel settore: abbiamo esaminato sistematicamente la storia delle strutture abbandonate negli ultimi decenni, con la convinzione di poter acquisire preziose informazioni sui fattori ambientali che influenzano maggiormente la sostenibilità delle stazioni sciistiche.

Quali sono quelli che hanno condizionato la chiusura della maggior parte degli impianti da sci? E quelli che hanno permesso agli altri di resistere?
GB Lo studio fornisce un set di dati completo sulle stazioni sciistiche abbandonate e ancora aperte negli Appennini, incoraggiando le parti interessate a valutare attentamente, o addirittura riconsiderare, di mantenere un’elevata dipendenza dal turismo invernale in aree caratterizzate o da bassa quota (sotto i 1.500/1.600 metri sul livello del mare) o con pendii situati su esposizioni a Sud e Ovest anche a quote superiori a 2.000 metri. È importante notare che neppure l’ampio ricorso all’innevamento programmato possa essere una soluzione per la sostenibilità dell’industria del turismo invernale: richiede notevoli apporti di energia e acqua, causando potenzialmente scarsità per altri settori concorrenti. Nel contesto degli Appennini la ricerca chiarisce le caratteristiche geografiche che favoriscono il fallimento degli impianti: la bassa quota, l’esposizione, se rivolti a Sud e a Ovest dove il sole batte di più e le dimensioni, in termini di lunghezza sia degli impianti di risalita e sia delle piste sciabili (meno di dieci chilometri di piste).

I dati del suo lavoro sono impietosi: 101 impianti e più della metà degli impianti chiusi o parzialmente chiusi. Lo sci e gli sport invernali sono sulla via dell’estinzione come già argomentato da molti? In che modo potrebbero evolvere?
GB Le stazioni chiuse e parzialmente chiuse a oggi negli Appennini contano ben 358 chilometri di piste da sci (il 44% del totale disponibile). Sebbene questi dati indichino chiaramente che moltissimi comprensori vivono situazioni di grande difficolta, ciò non implica necessariamente che l’industria degli sport invernali sia in via di estinzione. Nel contesto appenninico, e sotto la pressione della crisi climatica, lo sci si concentrerà in pochi comprensori con posizioni a quote relativamente elevate nella fascia tra 1.600 e 2.200 metri e con dimensioni tali da permettere sostanziali economie di scala. Al contrario i piccoli comprensori posizionati a quote relativamente basse non hanno futuro. In tale scenario, in cui solo pochi comprensori rimangono operativi, si prospetta però un altro rischio: queste strutture potrebbero subire pesantemente le conseguenze dell’overtourism.

“Il nostro lavoro aiuterà politici e portatori di interesse a meglio identificare i fattori geografici e socioeconomici che dovrebbero guidare i futuri investimenti e evitare ulteriori fallimenti e sprechi di denaro pubblico”, è l’auspicio con cui si chiude la ricerca. Quanto è importante che ciò avvenga? Qual è la posta in gioco?
GB
 È importante, innanzitutto, per evitare lo spreco di risorse pubbliche. In secondo luogo, i tanti impianti abbandonanti sono rimossi dai versanti delle montagne solo in rarissimi casi, a causa degli elevati costi di smantellamento. Di conseguenza i comprensori abbandonati provocano un inevitabile degrado paesaggistico che si estende ai territori che li hanno ospitati.

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