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OVUNQUE TU SIA
È sempre doloroso e difficile annunciare la morte di una persona cara. Storditi dall’evento, tanto più se improvviso, i pensieri e i sentimenti vengono come inghiottiti in un vortice di dolore e di pianto, si appanna non solo la vista ma anche l’intelletto. C’è però nel contempo l’impellente necessità di informare del decesso e trovare le parole adatte con cui si possa esprimere il lutto. Allora ci si affida a quanto già sperimentato, collaudato, a frasi stereotipate, perlopiù banali, che però non riescono a esprimere il sentimento e non sono adatte per manifestare il dolore.
I modi per annunciare il lutto sono molteplici e variano tra credenti e non credenti, ma tutti, invariabilmente, evitano in ogni modo di parlare di “morte”, così si fanno vere e proprie acrobazie letterarie pur di non pronunciare quel termine che ormai è un tabù. Ciò può essere verificato usando uno dei tanti motori di ricerca che si trovano su Internet e digitare “Annunci funebri”. Sono decine, ma in nessuno di essi si dice chiaramente che la persona è morta. Non si muore più, ma si avvisa che il tale “ci ha lasciato”, o “si annuncia la scomparsa…”, o “la dipartita”, o che “è venuto a mancare…”, oppure, in modo alquanto originale, che “è partito per il suo ultimo viaggio…”, o che “è passato a miglior vita…”. Per molti viene anche indicata la modalità della loro uscita dalla scena terrena, avvenuta senza creare troppo scompiglio: “andato via in silenzio, in punta di piedi…”.
Per i credenti, poi, c’è una vasta gamma di scelta, tra chi annuncia che il loro caro “è stato trasferito in un luogo di pace…” e che, finalmente, “riposa in pace eterna”. Poi ci sono quelli che, sicuri interpreti della volontà divina, sono certissimi che “Il Signore l’ha chiamato…”, o che “l’ha preso…”, o “tolto”, e, dando per scontato che “i più buoni il Signore li vuole con sé”, non esitano ad annunciare che il defunto era “già maturo per l’aldilà…”, o, in caso di persone in giovane età, che “I fiori più belli li vuole il Signore…” o anche “c’è ora un angelo in più in paradiso” (come se al Padreterno non bastassero quelli che già ci sono…). Ciò che accomuna gli annunci funebri, sia laici che religiosi, è il concetto di separazione e distacco: i morti se ne sono andati, scomparsi, o si trovano in un’altra dimensione, sia essa il cielo o altro, che in ogni caso li rende lontani e distanti.
Attualmente al primo posto tra le persone religiose l’annuncio più amato e gettonato è indiscutibilmente: “è tornato alla casa del Padre…”. Questa pia formula pretende di essere cristiana, ma in realtà non lo è, in quanto ha le sue radici nella filosofia greca secondo la quale le anime, che vivevano beate in cielo, venivano obbligate a scendere sulla terra, in una condizione, quella umana, che vivevano come una prigionia dalla quale desideravano al più presto liberarsi per poter, con la morte, tornare finalmente beate alla loro casa, il cielo appunto. Ma questo non è un messaggio cristiano. Gesù lo ha espresso chiaramente: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Con la morte non si torna alla casa del Padre, perché il credente è la casa di Dio, o in altre parole, con la morte non si va in cielo, perché il cielo è già nella persona che ha accolto Gesù.
Negli ultimi anni è tornata di moda, anche tra i cristiani, come omaggio al defunto, usare l’espressione di origine pagana “che la terra ti sia lieve”. Questa formula poetica, in auge soprattutto nel mondo protestante anglosassone, dove i presenti al rito funebre usano gettare una zolla di terra sulla bara calata nella fossa, in realtà per un credente è una contraddizione. Tale espressione, tratta dal latino “sit tibi terra levis”, si trova infatti nei monumenti funebri pagani come affettuoso ossequio verso il morto, ma non ha nulla a che vedere con la certezza cristiana di una vita eterna, cioè di una qualità che la rende indistruttibile e che la morte non interrompe. Per questo i credenti chiamavano il giorno della morte il “giorno della nascita” (“dies natalis”), perché erano certi che non si moriva mai ma si nasceva due volte, e la seconda per sempre.
Inoltre, grazie alla diffusione dei social, ormai abbastanza facili da usare per persone di ogni età, oltre all’annuncio funebre vengono ricordati i defunti nei loro anniversari di morte, che non si limitano soltanto al primo, ma che sono anche per quelli che sono morti da trenta, quarant’anni e più.
Tutti, immancabilmente, anche nonni e bisnonni, se ne “sono andati troppo presto” e hanno “lasciato un vuoto incolmabile”, il che, se fosse vero, sarebbe alquanto preoccupante. E il ricordo o il saluto, che in questi casi viene rivolto direttamente al defunto, è angosciante: “Ovunque tu sia…”, espressione che dà l’idea di uno smarrimento, come se l’anima fosse spersa e vagasse disorientata nell’immensità dell’universo e chissà dove è andata a finire… Anche questa espressione non può essere considerata appartenente alla spiritualità cristiana. Il credente, quando ricorda o prega la persona cara, non la pensa “ovunque sia”, ma, al contrario, afferma: “tu che sei ovunque!”. Questa è la fede del credente.
Con la morte, non più condizionati dalla fisicità, dalla carne, si creano nell’individuo nuove possibilità di relazione che consentono, questo sì, al defunto di essere sempre presente con un amore che non è venuto meno con la morte (“è mancato all’affetto dei suoi cari!”), ma che si è potenziato, perché ora viene trasmesso con la stessa forza dell’amore divino, come il Cristo risorto, che i discepoli non pensavano lontano nei cieli, ma che sperimentavano presente, perché “operava insieme con loro” (Mc 16,20). Per un’autentica spiritualità evangelica occorre riscoprire il valore della morte, che una teologia nefasta presentava in passato come castigo divino per il peccato della prima coppia. Bisogna, come Francesco d’Assisi, collocare invece la morte nella sua giusta dimensione, tra i doni del Signore che, come l’acqua, il sole e la terra, consentono la vita delle persone, per cui anche la morte diventa una sorella. La morte, infatti, non è una privazione, ma al contrario una beatitudine, come scrive l’autore dell’Apocalisse, che proclama addirittura “Beati” i morti (Ap 14,13). La visione evangelica della morte va pertanto sintonizzata con l’insegnamento del Cristo, che annunciando la sua fine arriva ad affermare “È bene per voi che io me ne vada…” (Gv 16,6). La morte di Gesù non significa la sua assenza, ma una presenza ancora più intensa, resa possibile dallo Spirito che dona la capacità d’amare come lui ha amato, permettendo di sperimentare così la sua vivificante vicinanza in modo ancora più potente di quello si è potuto conoscere quando Gesù era in vita.
Con la morte la persona non si allontana, ma si rende ancora più vicina, per questo è inesatto dire che “non è più!”, ma, al contrario, che “è di più”, perché, come il chicco di grano che cadendo in terra morendo libera tutte le sue energie e si trasforma in una spiga dorata (Gv 12,24), nel momento del trapasso la persona si è incontrata con il Dio-Luce che non l’ha assorbita in sé, ma si è fuso con essa dilatandone l’esistenza in un crescendo senza fine. E potrà così sperimentare “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, che Dio ha preparate per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9) e che ora sono la linfa divina che alimenta la persona che è passata attraverso la morte. Per questo con la morte si continua a crescere e ad amare, e, com’è scritto in un apocrifo del primo secolo cristiano, l’Apocalisse di Baruc: “con la morte si dimorerà nelle altezze di quel mondo là; si sarà simile agli angeli e somiglianti alle stelle, si verrà trasformati in qualsiasi forma si vorrà, di bellezza in grazia, di luce in splendore di gloria” (Ap. Bar. LI,10).
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Con la morte non si interrompe la relazione col defunto, ma cambiano le modalità di comunicazione, che diventano via via sempre più intense e rendono consapevoli della presenza della persona amata nella propria vita, come esprime l’antica spiritualità cristiana con una frase, tradizionalmente attribuita a sant’Agostino, secondo il quale “i morti sono esseri invisibili ma non assenti. Noi non li vediamo perché siamo avvolti in una nube oscura, mentre loro sono nella Luce e ci vedono. I loro occhi, pieni di gioia, sono fissi sui nostri, pieni di lacrime. Ci sono vicini, felici, trasfigurati”.
L’AUTORE – Alberto Maggi (nella foto grande di Basso Cannarsa, ndr), frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme.
Biblista e assiduo collaboratore de ilLibraio.it, è una delle voci della Chiesa più ascoltate da credenti e non credenti. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» a Montefano (MC), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Con Garzanti ha pubblicato Chi non muore si rivede, Nostra signora degli eretici, L’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita, Di questi tempi, Due in condotta, La verità ci rende liberi (una conversazione con il vaticanista di Repubblica Paolo Rodari) e Botte e risposte – Come reagire quando la vita ci interroga. Il suo ultimo libro, sempre edito da Garzanti, è dedicato alla figura di Bernadette.
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