Opinioni | Intelligenza artificiale e lavoro: un impatto irreversibile

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L’intelligenza artificiale potenzia o sostituisce il lavoro umano? Questa è la domanda letteralmente «del secolo» che assilla i board di diverse istituzioni e conseguentemente gli uffici studi di centri di ricerca, società di consulenza e le università di tutto il mondo, che si prodigano a cercare dati per fornire una risposta obiettiva.

L’AI generativa con i suoi modelli che fungono da copilota e assistenti virtuali polarizza sempre più il dibattito sul suo impiego in azienda e ha creato due partiti, proprio come nel mondo politico odierno. 




















































Da un lato c’è il partito conservatore, che sostiene che nel lungo termine l’AI è destinata a sostituire il lavoro umano. Questo partito trova basi nella visione storica che dai tempi del Luddismo ha visto la tecnologia come un ostacolo alla piena realizzazione dell’essere umano nelle sue attività sociali e lavorative. Esattamente come l’automazione della terza rivoluzione industriale ha sottratto abbondantemente il lavoro in fabbrica, ampliando la divisione nell’appropriazione del profitto tra imprenditore e lavoratore, l’AI è destinata a proseguire e amplificare questo cammino. Come ci ricorda Daren Acemoglu del MIT, fresco di premio Nobel, lo farà proprio grazie alla duttilità del suo impiego e alla sua impareggiabile efficienza. Peraltro, lo farà non solamente con i colletti blu, le cui ore di lavoro verranno falcidiate da robot, che a questo punto saranno anche intelligenti — ne è conferma il recente annuncio del Ceo di Nvidia, Jensen Huang, della piattaforma di AI sulla robotica. Ma trasformerà progressivamente lo smart working di molti colletti bianchi in disoccupazione, come si comincia a intravedere dalle prime prede degli algoritmi dell’AI generativa: i campi della traduzione, della grafica e i campi dell’elaborazione e interpretazione dei dati aziendali, dal marketing, alla finanza, a elementi di ricerca giuridica. Del resto, a furia di parlare di co-piloti e chatbot e imparare a usarli, andremo a preferirli agli assistenti umani. Lo sostiene in modo persuasivo nel suo ultimo libro Nexus, anche l’antropologo Yuval Harari, enfatizzando l’impiego da parte di questa nuova macchina dell’elemento sino a oggi distintivo dell’essere umano: il linguaggio.
Questa visione conservatrice enfatizza questi problemi, esacerbando il tema etico dell’AI che impiega i dati sensibili di individui e istituzioni e in quanto tale mette a rischio la sicurezza individuale e nazionale

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A questa interpretazione pessimista della tecnologia, si affianca un partito modernista. Un partito che, seppur consapevole delle implicazioni etico-politiche dell’AI, tende a interpretarle in ottica evoluzionista. Secondo i portatori di questa visione, l’AI è semplicemente il punto di arrivo della tecnologia digitale che dopo aver prodotto e raccolto per anni dati, oggi è in grado di impiegarli attraverso il machine e il deep learning, che altro non sono se non strumenti progettati decine di anni fa dagli esperti di quella che si chiamava informatica, a partire da uno dei padri fondatori, Alan Turing. L’AI rimarrà uno strumento che non sostituirà il lavoro umano, ma anzi lo potenzierà esattamente come hanno fatto altre importanti tecnologie nella storia dell’umanità. Lo farà permettendo scoperte scientifiche impensabili senza di essa come, citando la più emblematica, il ripiegamento proteico a opera di Deep Mind che è valso il premio Nobel per la Chimica nel 2024. 

I sostenitori di questa seconda visione, tra cui Eric Brynjolffson di Stanford e l’oggi filantropo Eric Schmidt, ricordano i timori che si sono rivelati nel tempo infondati di tante tecnologie tra cui la stampa e la prima televisione. Secondo questa visione occorre continuare il percorso di innovazione economica e sociale che ha portato Sapiens a impiegare la tecnologia come strumento e a focalizzarsi sull’impiego dell’AI in particolare nei processi più importanti della creazione di valore.

Entrambi i partiti hanno solide basi e motivazioni logiche.
Indipendentemente dal partito che prediligiamo nel formarci le nostre opinioni, di una cosa dobbiamo essere certi: che l’impatto della tecnologia è irreversibile
. Può essere mitigato ed eventualmente riorientato, ma non può essere fermato, soprattutto se la tecnologia è in grado di fornire un valore percepito diffuso agli utenti e come nel caso del digitale l’AI sta ingenerando questa percezione. Esattamente come non si sono fermati internet e i social network non si arresterà il percorso dell’AI.

Per questo occorre gestirla e proprio per questa ragione è fondamentale che l’Europa su questo tema diventi più proattiva e non semplicemente regolativa. Bene quindi che, per la nostra parte, in Italia si investa in importanti centri di ricerca come il super computer Leonardo e in Fondazioni che si occupano esclusivamente di AI o che impiegano gli strumenti per AI in specifici settori come l’energia, la salute e la sicurezza. Bene anche che molte università stiano cercando di arricchire percorsi formativi di AI non verticali, ma complementari alle conoscenze disciplinari dei diversi settori per formare le competenze necessarie ai futuri lavoratori che avranno a che fare con macchine che sempre più avranno una base di agenzia.

Ma a parte il pubblico e la formazione è ora fondamentale che anche le imprese di tutti i settori, anziché semplicemente schierarsi nel dibattito, contribuiscano attivamente ad aiutare a capire più nel dettaglio come regolare l’AI o a identificare gli spazi di innovazione che permetteranno di evolvere verso nuovi orizzonti di crescita economica e sociale.

6 febbraio 2025

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