Lezioni di storia al Verdi di Padova, il primo ribelle è Gesù

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A inaugurare domenica 9 febbraio, ore 11, le “Lezioni di Storia” al teatro Verdi di Padova sarà Vito Mancuso, teologo e filosofo dal tratto estremamente personale e dalle grandi capacità comunicative.

Sarà lui a parlare del primo dei “Ribelli”, cui è dedicato il ciclo di quest’anno, in una lezione intitolata “Gesù: la rottura della legge”.

Esistono molti libri che attribuiscono a Gesù il titolo di “ribelle”, ma è possibile definirlo così?

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«È lecito l’uso della categoria di ribellione per parlare di Gesù perché ci sono almeno due fatti incontestabili che supportano questa visione delle cose. La prima è la crocifissione; la seconda è la nascita del cristianesimo, in quanto religione completamente diversa, per molti aspetti, dall’ebraismo. La crocifissione era la pena capitale che l’Impero Romano infliggeva ai sediziosi, ai ribelli, per l’appunto. I delinquenti comuni non venivano crocifissi, venivano uccisi in modo più sbrigativo. La crocifissione comportava un’esposizione pubblica dei condannati. Quindi veniva utilizzata per coloro che si erano macchiati del crimine peggiore: la ribellione contro il potere dell’Impero Romano. E poi c’è la nascita del cristianesimo, che certo scaturisce dall’ebraismo, ma ne differisce perché i due capisaldi della religione cristiana, la Trinità e l’incarnazione, sono teorie inconcepibili e blasfeme per l’ebraismo».

Ma ribelle o rivoluzionario?

«Dipende cosa si intende. Se noi pensiamo al rivoluzionario politico, io non sono d’accordo con questa visione, che pure ha una sua legittimità, a partire dal 1778, quando Lessing pubblicò i frammenti, fino a quel momento inediti, di Hermann Samuel Reimarus. Per esempio, uno storico come Fernando Bermejo-Rubio ha scritto un libro importante, edito in Italia da Boringhieri, che legge Gesù sotto la categoria di rivoluzionario politico. Ecco, per me fu un rivoluzionario, se proprio si vuole usare questo termine, ma di tipo religioso. Lo dimostrano i Vangeli dove non ci sono programmi politici. C’era semmai un programma rivoluzionario nei confronti della religione del tempo, ed è vero che l’Israele era uno stato teocratico, ma al contrario di quello romano non partiva dalla politica per arrivare alla religiosità, che diventava allora strumento per dare stabilità alla politica, ma partiva dalla religiosità che diventava politica».

Si dice spesso che la Chiesa ha oscurato il tratto “ribelle” di Gesù. È vero?

«Sostanzialmente sì, anche se nel cristianesimo una dimensione minoritaria di contestazione, di ribellione c’è sempre stata: partendo dai primi secoli per arrivare al medioevo, agli umiliati, alle beghine fino alla teologia della liberazione di cui qualche scintilla emerge ogni tanto anche nei discorsi di papa Francesco. Però è vero che maggiormente il cristianesimo lungo i secoli è stato al servizio dello status quo, seguendo un pensiero che è anch’esso presente sin dalle origini, soprattutto in San Paolo, che nella “Lettera ai romani”, capitolo 13, afferma che bisogna obbedire alle autorità costituite, perché significa obbedire a Dio. Di contro l’Apocalisse dice, nei capitoli 17-18, che occorre ribellarsi a quello Stato a cui Paolo chiede di obbedire».

Si può dire che il Gesù storico era più ribelle di quanto ci viene detto dai Vangeli canonici?

«La differenza forse sta nel fatto che il Gesù storico era un ribelle di tipo profetico, perché aspettava intensamente il Regno di Dio. La mia interpretazione di Gesù, che ho consegnato nel mio libro “I quattro maestri”, è quella di un profeta apocalittico, escatologico; era un ribelle nei confronti della struttura del mondo, dei poteri di questo mondo a cui gridava in faccia la propria inconsistenza dicendo: siete falsi, non rappresentate la vera essenza delle cose; una essenza che lui presentava attraverso l’immagine del Regno di Dio, ma che in sostanza vuol dire la verità vera delle cose, la verità vera degli esseri umani».

Negli anni sessanta il Cristo ribelle è diventato molto popolare, quasi un simbolo della ribellione giovanile. Era solo moda o ha aperto a nuove interpretazioni?

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«Non dico che sia stata del tutto inutile, ma non ha raggiunto la profondità dovuta, perché la ribellione di Gesù era in funzione di una più alta obbedienza. Era una ribellione relativa, nel senso che era relazionata a una più alta obbedienza: la volontà del padre. Non ci può essere niente che si costruisce nel mondo che non si iscriva anzitutto all’insegna di una più alta obbedienza. Bisogna anche saper disobbedire, saper dire dei no, ma lo si fa in funzione di un sì più grande. Gesù, oltre a essere ribelle è anche un “obbediente” nel senso etimologico del termine: uno che ascolta, uno che tace per porgere l’orecchio».



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