Quale giustizia – www.giustiziainsieme.it

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Finanziamenti personali e aziendali

Prestiti immediati

 


Quale giustizia 

Dialogo tra Marco Dell’Utri e Massimo Cacciari già pubblicato su Questa Rivista formato cartaceo, n.1, anno 2009.

Poco più di dieci anni fa, Mario Barcellona affidava alle pagine della ‘Trimestrale’ di diritto e procedura civile una sua relazione, tenuta ad Harvard, sull’idea del sociale nella teoria del diritto privato.

Prestito personale

Delibera veloce

 

L’occasione forniva a B. l’opportunità di misurare, sul piano dell’epistemologia e del metodo, gli esiti di due importanti stagioni della storia delle idee del secondo Novecento condotte sull’incidenza ‘giuridica’ delle dinamiche sociali: vicende contrassegnate con l’allusione al solidarismo giudiziale (anni ‘60) e al c.d. uso alternativo del diritto (anni ‘70).

Nel giudizio di B. – in larga misura condivisibile –, là dove l’esperienza del solidarismo giudiziale era stata condotta, e s’era venuta esaurendo, nell’esercizio di un più maturo impegno di interpretazione dei dati positivi (in chiave evolutiva) alla luce dei principi costituzionali (e in tal senso in un quadro di sostanziale continuità metodologica con l’attitudine positivistica della tradizione), la proposta dell’uso alternativo del diritto aveva viceversa sollecitato l’operatore giuridico (il giudice in primo luogo) a farsi piuttosto ‘interprete della società’, alla ricerca dei modi e delle direzioni (per lo più lette secondo la chiave del conflitto di classe) attraverso cui la società e la sua coscienza vivono le proprie trasformazioni.

L’esperienza delle due stagioni (largamente superate e per alcuni versi da ritenersi fallite) si è tuttavia positivamente tradotta (come un paradossale lascito) in una sorta di maturazione culturale del giurista-giudice contemporaneo, misurabile attraverso l’accresciuta sensibilità per la dimensione ‘particolare’ (il rapporto, il gruppo, il contesto sociale) in cui la decisione concreta è destinata a incidere: una sorta di giustizia ‘orientata al caso’, dove dato positivo e dimensione normativa della realtà sociale giocano un ruolo di mutua interazione e di reciproci rimandi.

L’idea di un’interpretazione giudiziale ‘orientata al caso’ – secondo la formula che ripudia la persistente validità dell’astrazione moderna del ‘Soggetto Universale’, per riscoprire la specifica diversità di individui, gruppi o minoranze che, in ragione della particolarità delle culture di appartenenza, invocano il godimento di diritti e libertà ‘particolari’ (donne, minori, anziani, malati, omosessuali, immigrati, minoranze etniche o linguistiche, etc.) – ripropone l’interrogativo, che ancora anima le divisioni e gli aperti dissensi del dibattito contemporaneo, se possa ritenersi ancora accettabile, nelle società multiculturali, il modello tradizionale e autoritativo di giudice, o se, invece – respinta l’idea della generale condivisione delle norme, dei valori e dei principi dell’ordinamento giuridico, o del comune consenso sulle procedure decisionali –, non si ponga piuttosto il problema, del tutto inedito nei nostri sistemi, dell’accettazione ‘sociale’ della sentenza.

Il dibattito che indugia tra ‘giustificazione della validità delle norme’ e ‘giustificazione dell’applicazione della norma al caso concreto’, invita propriamente a guardare al di là del consenso astrattamente tributato alle norme all’atto della relativa approvazione formale, per sottolineare l’opportunità di ricorrere, al momento della loro applicazione, allo svolgimento di considerazioni aggiuntive e ulteriori, che sappiano confermarne l’adeguatezza rispetto al caso, in conformità al modo in cui la fattispecie (ossia il ‘frammento’ dell’esperienza di vita condotto all’esame del giudice) è stata definita dalle stesse parti.

Si rivela, da questo punto di vista, la decisività, in sede applicativa, dell’eguale accesso di tutti gli interessi che, in forza di una propria interpretazione della situazione, siano in grado di richiamarsi a motivi validi, ossia a ‘letture’ coerenti di norme valide, al fine di pervenire a un’interpretazione della ‘situazione comunemente condivisa’ che, sola, varrebbe a dotare di adeguata giustificazione la decisione assunta, al cospetto delle parti e della società pluralista.

Il discorso che accenna alla dimensione ‘democratica’ e ‘partecipata’ della vita del processo esercita un fascino non agevolmente eludibile, nella misura in cui chiama in causa il ruolo ‘attivo’ dei protagonisti della vita sociale, nella prospettiva di fondo di un modello di ‘giustizia conciliativa’ alternativo a quelli della tradizione.

È sufficiente solo un richiamo, in questa sede, alle riletture, secondo la chiave della giustizia ‘riconciliativa’, dei testi della tragedia greca (di Antigone, in primo luogo), delle antiche tradizioni ebraiche, ed in particolare della procedura del ryb, ossia dello scontro il cui scopo non è la punizione del colpevole ma il componimento della controversia attraverso il riconoscimento del torto compiuto, il perdono e quindi la riconciliazione e la pace. È l’umanità dell’avversario che si cerca di toccare e su cui si intende influire. L’obiettivo non è dunque la giustizia retributiva (ossia il ripianamento del torto con una sanzione equivalente) quanto il ristabilimento di una comunanza, incrinata o infranta dal torto commesso e subito. È, infine, la traccia e lo spirito dell’ubuntu africano tradizionale, orientato alla riconciliazione, alla reciproca accettazione, al riconoscimento dell’umanità delle persone, per farla riemergere quando questa è umiliata dal crimine non solo patito ma anche commesso.

Richiedi prestito online

Procedura celere

 

E tuttavia, il percorso ‘obbligato’ che conduce alla soluzione dei conflitti – e quindi il suo affidamento all’esame e alla decisione del giudice, come ancora si addice all’essenza delle nostre culture – rivela, in tutta la sua evidenza, la delicatezza del ruolo cui è chiamato colui al quale è rimesso il compito di distinguere il difficile confine – che è poi la sostanza del conflitto – tra l’ortodossia e l’eresia, tra le vie esili della verità e le oscure inquietudini dell’errore.

Muovendo da tali premesse, quella che con maggiore evidenza si affaccia, nella prospettiva più larga della pagina dello storico del diritto, è la definitiva riformulazione, in chiave contemporanea, dei rapporti tra diritto e morale.

All’antico interdetto imposto al giurista – ritenuto per definizione ‘estraneo’ al discorso del filosofo, dello storico o, in generale, dello studioso delle ‘scienze umane’ –, va sostituendosi la sollecitazione a guardare, all’esercizio delle prerogative private, tanto alla luce delle norme positive dello stato, quanto (e più ancora) nella prospettiva di una legittimità che si radica e si conferma nella positività del costume sociale o di complessi di regole morali d’indole particolare.

A fronte di modi nuovi e diversi di vivere i valori positivi della Costituzione (nel che conviene scorgere la sostanza autentica della sua storicità, più ancora che nella contingente proliferazione di pretesi ‘nuovi diritti’), il criterio che sembra presiedere ai rapporti tra l’ordinamento statale e gli ordinamenti sociali minori appare strutturarsi secondo il senso o la funzione storicamente assolta dal principio tradizionale del sistema del diritto internazionale privato, ossia dalla nozione dell’ordine pubblico, come sintesi dei principi e dei valori essenziali del sistema, assunto come limite di commensurabilità tra valori che appartengono a ordinamenti diversamente distribuiti nello spazio.

Risale a pochi mesi fa, del resto, la pronuncia di una nostra Corte di merito, diretta a rendere esecutiva nel nostro sistema la decisione di un giudice inglese, incline a riconoscere la liceità e la meritevolezza – e quindi gli effetti sul piano dei rapporti parentali – dell’accordo gratuito di maternità surrogata (che la legge italiana espressamente ripudia), muovendo dalla più larga dimensione assiologica dell’ordine pubblico internazionale quale criterio ultimo di misurazione del grado di compatibilità tra ordinamenti neppure così lontani dal punto di vista storico-culturale.

La nozione della ‘dignità umana’, che la riflessione degli storici e dei filosofi del diritto restituisce all’operatore pratico, va progressivamente perdendo quei caratteri di unitarietà e universalità propri della cultura medioevale e moderna, legati alla dimensione creaturale della persona o alla riflessione sui diritti fondamentali secondo la tradizione giusnaturalistica.

Ciò che offende e ferisce la dignità umana viene oggi più comunemente riconosciuto in tutto quanto rende la persona un oggetto o uno strumento nelle mani altrui (persone, ideologie o culture dominanti che siano); in ciò che, sul piano dei rapporti tra le persone, svilisce o tradisce il senso dell’autorappresentazione che ciascuno intende dare di sé; ciò che ostacola (fuori dalla supposta dimensione universale della Dignità) la costruzione di una dignità concreta e irripetibile di ciascun individuo, la dignità del ‘senso’ che nessuno ha il diritto di imporre, nei limiti del reciproco riconoscimento.

Mutuo 100% per acquisto in asta

assistenza e consulenza per acquisto immobili in asta

 

“Questo non è una pipa” si affrettava a denunciare René Magritte nel suo dipinto dedicato a ‘I due misteri’. La provocazione artistica – finemente raccolta dal genio di Michel Foucault – chiamava lo spettatore a misurarsi con la rottura di una tradizione plurisecolare; con la negazione del principio cardine della pittura classica ferma all’indissolubile legame tra verosimiglianza e rappresentazione, tra segno e cosa. Il ribaltamento di quel principio valeva a riaffermare la liberazione della pittura dalla dittatura (e quindi dalla ‘violenza’) del verosimile e di una supposta realtà oggettiva di cui l’opera varrebbe a costituire la supina imitazione.

La ‘liberazione’ del diritto da quel genere di violenza (che è poi la violenza del potere) sta propriamente – per dirla con le parole di Gianni Vattimo – nell’esercizio dell’attività interpretativa. L’interpretazione attraverso l’applicazione della legge sarà priva di violenza (ossia senza imposizione di forza non negoziata) là dove – lungi dal rivelare apertamente detta violenza, o coprirla con aggiustamenti ad hoc – sappia ridurla progressivamente.

In questo senso è possibile parlare di progresso perché è attraverso l’accumulazione delle interpretazioni e il rimandarsi di esse, in modo da corroborare sempre meglio la soluzione di singoli casi (con l’accumulo di precedenti, conferme, applicazioni che ampliano, chiarificano, eccetera), che la violenza originaria viene effettivamente consumata. L’esperienza del diritto, che si sostanzia nella formalizzazione delle leggi (da intendere ermeneuticamente come il ‘monumento’, la ‘stipulazione’, la ‘sostanzialità’ della trasmissione storica) e nei sistemi istituzionali che le interpretano ed applicano, amministrando la giustizia, diviene così esperienza di consumazione dell’origine, non quindi mera rammemorazione o mascheramento dei suoi tratti violenti.

La giustizia che l’interpretazione conferisce al diritto non riguarda né la verità metafisica dell’infondatezza svelata, né la menzogna pietosa dell’affabulazione. Più specificamente, l’interpretazione – come applicazione che indebolisce la violenza dell’origine, che ne consuma le pretese di perentorietà e di definitività, smentendone la maschera sacrale – fa giustizia del diritto.

La ricchezza culturale implicata dalla circolarità ermeneutica dell’interpretazione e dall’attitudine pluralista del c.d. ‘diritto mite’ (o, se si preferisce, filosoficamente ‘debole’), pone quindi, in termini non più rimandabili, il tema della formazione del giurista-giudice, non più confinabile all’acquisizione di una competenza ‘tecnica’ di conoscenza e di capacità di gestione interpretativa delle norme positive, bensì aperta all’acquisizione della coscienza del diritto come prodotto eminentemente culturale, ossia della sua sostanziale indole simbolica, al pari di ogni altra espressione concreta di elaborazione sociale di ‘senso’.

In questo quadro, la formazione accademica italiana (che, al pari di quella continentale, sconta sul tema un sensibile ritardo culturale rispetto all’esperienza anglo-americana) si è venuta aprendo all’analisi e allo studio comparato del diritto e della letteratura, così come del cinema o del teatro (come laboratori etico-morali), ossia all’esame (fuori da ogni inopportuna digressione su presunti divertissement di giuristi raffinati) della dimensione culturale del diritto, in cui la ‘cultura’, secondo la proposta definitoria di Clifford Geertz, viene intesa come documento agìto, coincidente con ciò che viene detto attraverso le azioni sociali, ed in cui le strutture di senso appaiono inseparabili dai flussi di comportamento, a loro volta destinati a contrassegnare la realtà sociale come con-testo di continua rappresentazione, interpretazione e costruzione da parte dei soggetti.

Richiedi prestito online

Procedura celere

 

Al pari di ogni altro testo letterario (o più genericamente culturale), conviene ribadire come il diritto sia parte integrante di questo ordine simbolico con-testuale, là dove contribuisce a strutturare la formulazione dell’identità collettiva, a guidare l’interpretazione e la trasmissione del sapere e della cultura sociale, a riconfigurare il tempo dell’esperienza, attraverso l’ordinazione del tempo vissuto e le progettazioni possibili di quello a venire.

Chiamare il giudice a rendersi consapevole di tutto questo, significa avviare il difficile compito di controllare come si addica, allo studio e all’applicazione del diritto – per il coinvolgimento culturale che ne connota l’esercizio e le responsabilità che ne discendono – la relativa attribuzione a soggetti rispetto ai quali parrebbe desiderabile ritrovare, quanto non opportunamente reclamare, una vocazione ed un impegno intellettuale non occasionali, né distratti.

Marco Dell’Utri

È semplice pensare alla “giustizia” in forme gnostico-dualistiche come dea abscondita, assolutamente straniera in questo mondo, astrattamente altra ogni misura di diritto positivo. E altrettanto semplice è ridurla a idea regolativa, in base alla quale orientare i comportamenti storicamente concreti del legislatore e del giudice che quelle leggi dovrebbe “applicare” (non occorre particolare scienza ermeneutica per sapere che ogni interpretazione è “produzione” e trasformazione normativa). In quest’ultimo senso intende “giustizia” l’opinare comune: come un Fine inattingibile in sé, ma che nonostante questo dovrebbe essere in grado di dar forma ad atti e pratiche determinati. L’aporia è evidente: se questa idea è immanente all’amministrazione del diritto, dovrà essere ogni volta dimostrabile il suo nesso alla fattispecie giudicata, e il suo Valore consisterà alla fine nel suo effettuale valere; se, invece, nessun atto è in grado di comprehendere in sé la sua infinita Potenza, tale Potenza rimarrà appunto sempre un Possibile “fantasma”. È un’aporia propriamente teologica: dall’Uno della Giustizia non possono ricavarsi che per saltus i Molti uno degli ordinamenti concreti e l’universale dissomiglianza dei pronunciamenti; oppure dell’Uno non si fa che il principio ordinatore immanente in ciascuno, “ciò” che ciascuno è nella sua essenza, e cioè null’altro che se stesso.

Per procedere oltre l’aporia sarà, allora, forse necessario superare l’idea di Giustizia come Principio universale di ordine, sostanza unitaria ed effettualmente predicabile di ogni giuris-dizione. La classica Dike esprimeva in fondo una tale idea: l’evidente unità dei cicli e dei ricorsi ordinanti il movimento degli astri, “dèi visibili”, il grande Numero abbracciante in sé tutti i Ritmi celesti, doveva trovare la propria immagine, il proprio eikòn, sub-lunare, nell’organizzazione del molteplice, diversificato, conflittuale inter-esse della polis.

Giustizia, dunque, come suprema concordia o armonia tra distinti, che soltanto “risolvendosi” in essa danno vita a un Cosmo. Giustizia come superamento dell’“idiotismo” degli enti particolari, che riconoscono di essere solo in quanto elementi dell’intero. Ma chi potrà dettare il Numero di una tale armonia? chi sarà il “nocchiero” e in base a quale idea, a quale Fine ridurrà al suo Uno le rotte e le orbite dei molti? Dike punisce coloro che non stanno ai suoi Ritmi, coloro che si ergono a pre-potenti rispetto al suo Logos, ma non può mettere a tacere la domanda sulla provenienza, sul fondamento, sulla legittimità del proprio stesso Ordine. E non appena questa domanda si impone, prende voce, anche come nuda interrogazione, l’unità è spezzata per sempre.

Dal punto di vista della cosmica Dike è perciò “ingiusto” chi si fa-parte, chi si sottrae all’Intero, chi presume di essere auto-nomos. Forse, nello stesso termine “legge” risuona questo appello ad una superiore unità, all’istanza ultima del “raccogliere” in Uno i distinti. Ma siamo davvero certi che è inevitabile pensare la Giustizia in questa prospettiva, secondo questo orientamento?

Finanziamo agevolati

Contributi per le imprese

 

E se Giustizia, invece che energia centripeta, principio supremo ordinatore, che, come tale, lo abbiamo visto, minaccia ogni volta di risolversi nell’Ineffabile, o, all’opposto, in mera retorica, significasse la volontà di rendere a ciascuno il suo? Se Giustizia fosse un termine, per così dire, estro-verso, indicante come suprema esigenza la piena soddisfazione della “legge individuale”? Che significa “legge individuale”? Che le misure individuali di felicità, o anche semplicemente di eudaimonia, non si lasciano collocare in un’unica scala gerarchica. Nessun “giudice” potrà mai stabilire quanto valga per me un determinato bene e quanto mi sia costato acquisirlo. Nessun Principio può stabilire che cosa io intenda o percepisca per riconoscimento del mio valore.

Giustizia appare, allora, come l’idea che proprio attraverso il mutuo, giusto riconoscimento reciproco del valore di ciascuno possa costituirsi l’insieme, la communitas: quella dimensione comune che, proprio perché tale, a nessuno appartiene, e che, per la medesima ragione, custodisce in sé e difende il proprio di ciascuno.

Nel termine nomos non è forse proprio in questo senso che può essere pensato il rapporto a Dike? Nomos è assegnare la parte, articolare il tutto in parti dotati di valore proprio, responsabilizzare ciascuno alla propria parte.

Questo opera il nomos: suddivide, distingue, analizza in modo che a ogni individuo corrispondano responsabilità precise in base al suo carattere-daimon. Il “divino” (daimon) di ciascuno è precisamente la parte che gli è stata assegnata (daiomai) e che ne contraddistingue il carattere specifico. “Divino” è l’individuo perfettamente-nella-sua-parte, e non l’individuo che si è “superato” in una Luce universale, nel Lichtwesen a suo tempo criticato da Hegel, dove proprio la sua “legge individuale” verrebbe annullata. Giustizia apparirebbe, allora, la capacità di corrispondere all’esigenza di soddisfazione e riconoscimento che l’individuo esprime.

Ma l’individuo esattamente in quanto tale. E cioè compreso come parte che di per sé non può pretendere di farsi tutto o di “impadronirsi” della communitas. La “legge individuale” indica l’opposto di un farsi-legge dell’individuo; essa dice che nell’individuo si esprime una “legge”, quella appunto per cui nessuna misura individuale di felicità può valere come Principio universale. L’universale dell’individuo consiste nel suo non-essere universale e nell’esigere, per questo, riconoscimento e soddisfazione nella sua individualità. Giustizia è corrispondere a questo: “affidare” ad ognuno la sua parte, per la quale possa trovare come individuo piena soddisfazione, e ricondurlo a tale parte (Dike-Nemesi di nuovo!) non appena, tradendo se stesso, voglia imporre ad altri la propria misura.

È evidente come nessuna legge positiva, nessun diritto potrebbe esaurire in sé questa idea di Giustizia. La legge positiva, nella sua storicità, non appare, in questo quadro, che l’insieme delle norme miranti al riconoscimento dei diritti di ciascuno, precisamente nei limiti che la “legge individuale” prescrive. Ma nessuna legge potrà mai eliminare il pericolo della volontà individuale di ergersi a “universale”. Il diritto “arbitra” il campo o la scena o l’agorà dove “giocano” le distinte volontà di riconoscimento e soddisfazione.

Ma un tale diritto avrebbe profondamente a che fare con l’etymon, il significato radicale, del nomos collegato a Giustizia, poiché esso rappresenterebbe il ministro di quella idea dell’addivenire dell’individuo alla piena soddisfazione di sé, proprio nel suo essere tale, non nel sussumere in sé l’altro o nel volerlo con-vincere. Diritto è ministerium, da minus; quello della Giustizia è il vero magisterium, da magis.

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 

Potremmo dire, in questo senso, che la Giustizia non giudica. Il giudizio spetta al ministerium, sulla base di valutazioni e situazioni storicamente determinate. E giudizio è sempre espressione di un punto di vista. Ma che la prospettiva del giudizio si interpreti come “incarnazione” di una Giustizia a sua volta giudicante dall’alto di principi e assiomi universalmente definiti, o che invece essa si intenda come garanzia dell’apertura alla eu-topia di una communitas fondata sulla “legge individuale”, mette in gioco una scelta, una decisione radicale. E io ritengo che nell’epoca attuale, di fronte alla sfida del “conflitto” tra civiltà, della costruzione di società multi-etniche e multi-religiose, solo quest’ultima prospettiva, nella sua apparente eu-topicità, sia quella davvero praticabile e realistica.

Massimo Cacciari

Immagine: Jacobello del Fiore, Trittico della Giustizia, tempera su tavola, 1421, Gallerie dell’Accademia, Venezia.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 

Source link