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Nella lista ci sono anche il caso Santaché, il nodo del terzo mandato e le riforme costituzionali
A breve Meloni dovrà vedere gli alleati per sciogliere i nodi politici che si stanno ingarbugliando. Si annuncia una fase critica per il governo, e non dipende dal caso del torturatore libico Almasri: per quanto sia stato gestito in modo pasticciato, anche nelle file dell’opposizione ritengono non avrà effetti nazionali. Ma alla lunga le scorie della vicenda, che hanno già intaccato l’immagine del Paese, potrebbero intaccare anche quella della premier. Nonostante la sua reazione contro le «toghe militanti» abbia incontrato consensi nell’opinione pubblica.
I problemi per l’esecutivo sono però altri, derivano da una serie di scadenze che Meloni dovrà gestire, decidendo le priorità politiche e le scelte. L’elenco è lungo così: c’è il caso Santanché, che lunedì approda alla Camera dove le opposizioni hanno presentato una mozione di sfiducia; c’è il nodo del terzo mandato per i governatori, che insidia i rapporti di coalizione con la Lega; ci sono le riforme costituzionali, dietro cui si cela la riforma elettorale; ci sono nomine come la scelta dell’ambasciatore italiano negli Stati Uniti.
E ancora ci sono le questioni che toccano il tema delle tasse e dell’occupazione, su cui si staglia la minaccia delle ristrutturazioni aziendali. Fra meno di un mese, per esempio, Elkann sarà a Montecitorio per parlare di Stellantis, dopo aver accolto la richiesta del presidente della Camera a dire «in pubblico» ciò che ha detto in via riservata ai rappresentanti del governo: e cioè che i problemi della casa automobilistica si concentrano in Europa a causa della legislazione green che costringerebbe l’azienda a produrre in perdita. Quali che siano i motivi, Meloni è consapevole che in assenza di una soluzione i costi sociali del problema ricadrebbero su di lei.
Ecco perché la vicenda Almasri è marginale. Le priorità sono altre. Le sorti di Santanché non dipenderanno dal voto della Camera, ma non c’è dubbio che l’inquilina di palazzo Chigi sia in imbarazzo: le dimissioni di un ministro per un rinvio a giudizio su un intricato caso di false comunicazioni aziendali, potrebbero costituire un «pericoloso precedente». Altra cosa sarebbe un processo per truffa ai danni dell’Inps, cioè ai danni dello Stato, e di cui si saprà solo a fine marzo. Ma nell’attesa la presidente del Consiglio avverte il danno d’immagine a cui è sottoposta, mentre — racconta una fonte autorevole — «preferirebbe una decisione chirurgica come fece per Sangiuliano».
Se alcune scelte spettano a Meloni, altre richiedono la concertazione con gli alleati: dalle nomine Rai al rinnovo delle presidenze delle commissioni parlamentari. E non è facile per la premier districarsi tra fili che si intrecciano con altri fili. Perché ancora non le è chiaro se Salvini sul terzo mandato per i governatori le stia mostrando i muscoli solo per mostrarli a Zaia, o se davvero vorrà andare fino in fondo producendo uno strappo nella coalizione.
E in attesa di capirlo, Meloni è costretta a osservare il capo del Carroccio che — per usare le parole di uno dei massimi esponenti di FdI — «con una sortita scomposta» apre il vaso di Pandora sui «regolamenti di conti tra membri di servizi», che è uno dei problemi più spinosi per la premier.
Problemi che sarebbero sorti, secondo chi frequenta palazzo Chigi, «proprio a ridosso del cambio ai vertici del Dis». Il resto, l’azione legittima delle opposizioni di scaricare su Meloni le recenti vicende, fa parte del fisiologico scontro tra avversari. «E loro — diceva l’altro giorno La Russa a un collega di partito — hanno capito che gridare alla dittatura non paga. Il loro problema non è il fascismo, è Giorgia». Ma «Giorgia» deve tornare a dettare l’agenda: «Superiamo lo stallo e concentriamoci sulle sfide che abbiamo davanti», chiedeva ieri il centrista Lupi. Traduzione: altrimenti faremmo il gioco delle opposizioni.
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