Alexandre Dumas, l’autore del Conte di Montecristo, percorse l’Abruzzo interno nel viaggio che fece da Napoli a Roma, lasciando un’ammirata descrizione dei paesaggi montuosi, dei borghi medievali e delle tradizioni popolari
Alexandre Dumas è l’autore del Conte di Montecristo, il romanzo senza tempo che ha come protagonista il marinaio Edmond Dantès che, ingiustamente tradito e imprigionato, riesce a fuggire e, sotto la nuova identità di Conte di Montecristo, ordisce la vendetta contro chi lo aveva privato della libertà. La vicenda è stata riproposta in una miniserie di otto episodi da Palomar, in collaborazione con Rai Fiction e France Télévisions e diretta dal Premio Oscar Bille August e l’ultimo e attesissimo episodio, con la vendetta finale del conte Edmund, è andato in onda lunedì 3 febbraio. Già in questa serie c’è un legame con l’Abruzzo, visto che il brigante Luigi Vampa è stato interpretato dall’attore avezzanese Lino Guanciale. Ma forse non tutti sanno che Alexandre Dumas si è avventurato nel selvaggio Abruzzo nel suo viaggio da Napoli a Roma, lasciando un racconto come solo un romanziere del suo calibro avrebbe saputo fare.
Quella passione per il Meridione
Gli anni 1860-1865 sono per Dumas quelli del pieno coinvolgimento nell’avventura garibaldina e unitaria. Aveva incontrato l’eroe dei due mondi nel gennaio del 1860 e in lui aveva visto un personaggio dei suoi libri, uno di quegli eroi coraggiosi e avventurosi, amanti delle idee repubblicane, per cui lo scrittore francese si prodigò subito per appoggiare la causa dei Mille. A Milazzo Garibaldi gli propose di fondare un giornale e, all’indomani dell’ingresso a Napoli, Dumasdiede avvio all’impresa giornalistica de L’Indipendente l’11 ottobre 1860, un giornale di chiare tendenze anti-borboniche e unitarie.
Del resto l’avversione di Alexandre al regime borbonico era spinta anche da motivazioni personali. Il padre dello scrittore, il generale Thomas Alexandre Davy de la Pailletterie, era figlio di un avventuroso marchese e di una schiava nera haitiana e aveva perciò cambiato il suo cognome, assumendo quello della madre, detta genericamente femme du-mas, ossia la donna di casa, della masseria. Papà Thomas, mulatto e alto quasi due metri – vi ricorda forse Porthos de I tre Moschettieri? – aveva partecipato alla spedizione di Napoleone in Egitto, ma dopo un litigio con lui abbandonò la terra dei faraoni con alcuni compagni, fra i quali il geologo Dolomieu, il celebre scopritore del minerale che ha dato nome alle Dolomiti. I ribelli, in balìa di una tempesta, approdarono a Taranto, pensando di trovarvi i rivoluzionari. Nel frattempoTaranto era stata ripresa dalle forze fedeli a re Ferdinando IV, per cui il generale Thomas fu catturato e gettato in carcerenel castello, in condizioni disumane. È questa prigionia che avrebbe ispirato a Dumas il castello di If a Marsiglia, in cui fece rinchiudere Edmond Dantès, il Conte di Montecristo. Il papà di Dumas, in prigione fra Taranto e Brindisi, vene più volte torturato e anche avvelenato; ne uscì due anni dopo, storpio, sordo, mezzo cieco, malato di stomaco e morì quando il figlio Alexandre non aveva ancora 4 anni.
Il viaggio di Alexandre Dumas in Abruzzo rientrava nel suo più ampio interesse per il Meridione, terra di contrasti, misteri e storie avvincenti; gli Abruzzi erano una delle terre dove i briganti agivano con maggiore intensità, soprattutto nelle zone montuose della Majella e del Gran Sasso. Queste vicende di ribellione e giustizia sommaria si avvicinavano molto ai temi narrativi cari allo scrittore, come il riscatto e la vendetta, centrali nel suo capolavoro Il Conte di Montecristo(1844-1846).
Da Napoli a Roma passando per l’Abruzzo
L’Italia era stata la sorgente più attrattiva dell’attività di Alexandre, visto che già nel 1835 aveva soggiornato a Napoli e tra il 1840 il 1842 aveva visitato Firenze. Del 1843 era il romanzo Ascanio, con le avventure del celebre orafo e scultore Benvenuto Cellini nel XVI secolo e gli amori del suo allievo prediletto, Ascanio Mari, un giovane orafo originario di Tagliacozzo, che ne divenne il suo assistente più fidato per quasi un decennio. Un altro illustre abruzzese, il cardinale Giulio Raimondo Mazzarino, nato a Pescina nel 1602, è uno dei personaggi principali dei romanzi di Alexandre Dumas, in Vent’anni dopo (1845) e Il Visconte di Bragelonne (1848-1850), continuazioni del celebre I tre moschettieri (1844). E il clima delle taverne dei moschettieri riecheggia quello delle osterie abruzzesi.
È nelle pagine de L’indipendente, anzi, nelle sue appendici, che vengono pubblicate alcune traduzioni di romanzi e racconti; proprio dalla penna di Dumas nel 1862 venne fuori il racconto Da Napoli a Roma; ormai introvabile allo stato attuale delle ricerche – persino nel suo originale francese – il testo fu ripubblicato nel 1863 in forma indipendente nel 1863 da Eugenio Torelli, segretario di Dumas e in seguito fondatore del Corriere della Sera. Riscoperto nel 1994 dall’editore Adelmo Polla e oggi rivisitato e ripubblicato nella collana Comete, Da Napoli a Roma è un viaggio geografico e culturale tra i luoghi e i popoli attraversati, che lo porta ad addentrarsi nelle profondità dei selvaggi Abruzzi, nella Valle del Liri e nell’area del Fucino.
A spasso tra re, monaci e briganti
Affascinato dai paesaggi montuosi, dai borghi medievali e dalle tradizioni popolari, lo scrittore francese rimase colpito dall’aspetto selvaggio e autentico dell’Abruzzo. A Balsorano si imbatté in un suo compatriota, il signor Lefèvre, che comprò il feudo e restaurò il castello secondo un gusto che oggi diremmo un po’ kitsch. “Gli piacque, dunque ebbe ragione“. Aggiunge però che “il denaro può comprare feudi, baroni e titoli, ma non può comprare il buon gusto“. A quattro miglia dalla città si ritrovò davanti una casa isolata, chiamata la Taverna del Re, anche se sarebbe più corretto chiamarla taverna della regina, perché qui la moglie di Ferdinando II lasciò all’oste nientedimeno che.. un vaso da notte pieno.
Visitò i paesi dei briganti, come Morrea, Morino, Meta e Rendinara, rimanendo ammirato dalla purezza delle acque di Zompo Lo Schioppo e scorgendo in lontananza Civita D’Antino. Civitella Roveto gli dà l’occasione per parlare del brigante Giorgi, poi affronta il passaggio tra Pescocanale e Capistrello. Cita la battaglia combattuta fra Corradino e Carlo d’Angiò a Tagliacozzo e poco distante dal centro scorge i ruderi del monastero di Santa Maria della Vittoria, che Carlo fece edificare sul campo della vittoriosa battaglia. Tra i privilegi che concesse al monastero c’era quello di poter pescare con due barche sul lago Fucino ed è qui che Dumas nota: “il tipico spirito approfittatore del clero trovò presto il modo di allargare quel privilegio. I monaci pretesero che la concessione fosse sì per due barche, ma del tipo caporali, cosicché entrambe dovevano avere ai loro ordini 10 barche, ognuna con a bordo 10 pescatori. Quindi alla fine si trattava di 22 barche che davano il diritto di pesca a 220 persone“.
Proseguendo, Avezzano gli parrebbe “una graziosissima città della Svizzera o della Scozia“, se fosse più pulita. Alle sue spalle sorge, ma poi si riprende subito e dice crolla, Alba Fucens, di cui ricorda i gloriosi fasti al tempo dei romani.
“L’ottava meraviglia del mondo“
Quando lo scrittore vede per la prima volta il lago Fucino, gli pare “un mare trasportato fin sulla vetta di un monte“. Percorrendo il perimetro dello specchio d’acqua, tocca San Pelino, poi Paterno, mentre la prima vera città è Celano. Tra le altre località, Ortucchio gli pare una Avalon sul monte circondata interamente dalle acque lacustri e ovviamente non può che ricordare Pescina, “patria dell’illustrissimo facchino Mazzarino“, protagonista dei suoi romanzi.
Dalle nebbie della storia, passa poi alle nebbie del lago Fucino, un lago che con i suoi continui sbalzi di livello provocava disastri su interi territori e proprietà private. Già l’imperatore Claudio aveva tentato di prosciugare il lago, fallendo però nell’impresa. Alla fine riuscì in quello che non poté l’imperatore, il principe Alessandro Torlonia, “che passò metà del suo tempo sulla strada fra Roma e Avezzano“. Fece chiamare un noto ingegnere francese dell’epoca e portò a termine un’impresa che diede molto terreno fertile proprietari contadini, ma allo stesso tempo cambiò il clima del territorio cancellò uno dei più bei laghi del paese. Durante tutti i lavori furono impiegati da 2000 a 3000 operai, insieme a 120 cavalli e fu costruito un ospedale soltanto agli operai.
“Così il principe Alessandro Torlonia, aiutato da quattro francesi“, conclude Dumas, il 7 agosto del 1862 “termina un’opera ideata da Cesare, creduta impossibile da Augusto, tentata vanamente da Claudio, ripresa inutilmente da Adriano e da Traiano e che, per 17 lunghi secoli, aveva reso vani gli sforzi di Federico di Svevia, Alfonso I d’Aragona, del Contestabile Colonna e di re Ferdinando IV“. Valeva veramente la pena deviare di qualche miglio il cammino da Napoli a Roma per ammirare un’opera che l’antichità avrebbe chiamato “l’ottava meraviglia del mondo“.
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