Quando finirà la guerra in Ucraina, tra i tanti problemi di un ritorno alla normalità si porrà quello – già anticipato in consessi internazionali e dai nostri esperti di criminalità organizzata, a iniziare dal procuratore capo di Napoli, Nicola Gratteri – del recupero delle armi distribuite alla popolazione civile e oggetto di incontrollate compravendite clandestine. Immaginare il successo di quest’iniziativa è abbastanza utopistico anche perché nel passato ogni conflitto bellico ha lasciato nelle mani di partigiani, combattenti, unità private e resistenti considerevoli quantitativi di armi leggere e – talvolta – persino pesanti.
Ancora oggi se ne ha prova ogni qualvolta che si procede a perquisizioni a tappeto in aree interessate dai conflitti della Seconda Guerra Mondiale. Una prospettiva che inquieta e che segue il crollo dei regimi del patto di Varsavia prima, la normalizzazione di paesi come l’Albania e il conflitto serbo-croato dopo, che già avevano potenziato le compravendite di armi alla fine del secolo scorso. La facilità di reperire strumenti di morte favorisce la criminalità organizzata, le organizzazioni terroristiche, i lupi solitari e chiunque cerca giustizia sommaria, armandosi come e dove riesce. E misura bene la temperatura il saggio Pistole sulla scena del Crimine dell’ispettore Dario Redaelli, esperto in sopralluoghi e responsabile dell’area indagini balistiche della polizia scientifica di Milano.
Dal 2014, infatti con la creazione dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) è ripresa la caccia ai cittadini europei, promossa da Abu Bakr Al Baghdadi dentro e fuori i confini del Vecchio Continente. Negli annali dell’orrore è così entrata la strage al museo del Bardo a Tunisi con la morte di 21 turisti tra le 24 vittime del raid. Tra queste, numerosi gli occidentali, a iniziare da quattro italiani.
Qualche mese dopo fa eco nel mondo la mattanza di ignari bagnanti inglesi in spiaggia a Sousse, in Tunisia con 39 morti e altrettanti feriti. Queste aggressioni hanno sempre le stesse caratteristiche: colpire obiettivi inermi, prevedere – se non proprio contemplare – la morte dei terroristi pronti al martirio, utilizzare armi di largo impiego in guerra, come i kalashnikov, ovviamente non in libera vendita.
Se, ad esempio, si ritorna come fa Redaelli, all’assalto al museo ebraico a Bruxelles del 24 maggio 2014, si trova in azione un solitario attentatore. Le telecamere di sicurezza sequenziano l’intera azione da quando entra nell’edificio a quando estrae dalla sacca un kalashnikov-type che i fotogrammi evidenziano privo di calcio. Quattro persone perdono la vita. Le immagini e le celle telefoniche consentono di far dialogare i sistemi, valutando milioni di dati nel caotico traffico informatico di quei giorni e il flusso informativo che generoso arriva da alcuni paesi Nato.
In particolare, la Francia – come spesso accade in queste situazioni – va in soccorso degli apparati in Belgio. Stringe i controlli. E si arriva così a un nome: Mehdi Nemmouche, cittadino francese di origine algerina, classe 1985. Viene localizzato a Marsiglia, alla stazione ferroviaria. Mehdi ha alle spalle una famiglia disastrata, il padre assente, un’adolescenza segnata da furti e processi con numerose detenzioni. In una di queste si radicalizza, inizia il proselitismo poi esce va in Siria e aderisce alle organizzazioni eversive. Il 12 marzo del 2019 viene condannato all’ergastolo.
La stessa arma – non di produzione sovietica come quella utilizzata da Nemmouche ma serba, è imbracciata dai fratelli Kouachy che il 7 gennaio del 2015 entrano nella redazione del foglio satirico Charlie Hebdo e uccidono 12 persone tra i nove giornalisti in riunione, il custode dell’edificio e due agenti della polizia. In questo caso a sparare sono Kalashnikov-type nella versione M70 prodotte dalla Zavodi Crvena Zastava di Kragujevac, cittadina della Serbia centrale, sulle rive del fiume Lepenica.
Oggi conosciuta come Zastava Arms, la Zavodi venne fondata nel 1853 e ancora oggi è indicata come il primo produttore di armi di quel paese grazie a un corposo catalogo per uso militare e civile, tra i classici fucili da caccia a pistole, fucili mitragliatori, fucili d’assalto, mitragliatrici e fucili da cecchino, come l’inquietante Zastava M93 Black Arrow dalla precisione sorprendente. Ai Kouachy come agli aderenti delle organizzazioni terroristiche islamiche presenti in Europa non fu certo difficile reperire la coppia di questi fucili d’assalto. Secondo le investigazioni, vennero comprati per 5 mila euro in Belgio, a Bruxelles, nelle vicinanze della gare du Midi. Un dettaglio che conferma le critiche di chi considera il Belgio come uno dei paesi più deboli nell’attività preventiva su questi fenomeni criminali.
E si arriva all’arma che sparò sempre a Parigi due giorni dopo, il 9 gennaio del 2015 quando morirono quattro persone al supermercato Kosher di Porte de Vincennes. A premere il grilletto del kalashnikov type di produzione cecoslovacca in versione M58V, calibro 7,62 x 39mm e della mitraglietta Skorpion calibro 7.65 Browning di produzione sempre cecoslovacca è Amedy Coulibaly: asserragliato nell’esercizio commerciale chiede la liberazione dei fratelli Couachy. A disposizione anche su due pistole semiautomatiche M57 prodotte in Serbia. Stavolta il terrorista usa armi assai particolari.
Alcune «sono risultate provenire – sottolinea Redaelli – da una partita di armi “expanz”, termine slovacco con cui vengono definite le armi neutralizzate e rese idonee al solo impiego di cartucce a salve, vendute on line dalla ditta slovacca AFG e importate da un collezionista di Lille, quindi ripristinate da un’officina meccanica locale». E questo perché? «Si tratta di partite d’armi rese inutilizzabili al tiro con cartucce ordinarie attraverso minime modifiche meccaniche che, consentendo il solo impiego di munizioni a salve, le rendono liberamente acquistabili dai maggiorenni previa presentazione del solo documento d’identità. E dopo un piccolo ripristino et voilà il gioco è fatto».
I mercanti di morte oggi non assomigliano in niente alle figure di fine secolo scorso, a iniziare dal controverso libico Omar Yahia, che nelle cronache dell’epoca l’Unità descriveva così: «È uno degli uomini d’affari più potenti nel mondo, pedina fondamentale per essere introdotti nel mondo arabo, legato a servizi segreti, capi di Stato e industrie belliche di molte nazioni. Così potente che Omar non si “abbassa” nemmeno a chiamare uno sceicco per concludere un affare, ma pretende che sia lo sceicco a rivolgersi a lui».
E, in effetti, si favoleggia che Yahia, per evitare controlli, incontrasse i suoi clienti sempre in luoghi particolari come la zona franca dell’aeroporto di Ginevra o nelle suite dell’albergo Des Bergues della città svizzera dove affittava un intero piano quando vi soggiornava. Oggi la mappatura è assai più frammentata– tra vendite online, dark web e mercati a cielo aperto. Di certo, i recenti conflitti favoriscono la nascita di nuovi player soprattutto per le armi leggere.
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