La salute mentale di un popolo apolide

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Andrea Brun

Nel 1982 il governo del Myanmar ha negato la cittadinanza ai Rohingya, una minoranza etnica di religione musulmana che per generazioni ha vissuto in quella nazione. Nell’agosto 2017 una grave crisi umanitaria ha innescato un esodo di massa dei Rohingya nel vicino Bangladesh, dove ad oggi sono rifugiate circa un milione di persone. Ai Rohingya viene negata la cittadinanza in patria, ma allo stesso tempo viene loro negata l’integrazione in Bangladesh.

 Il popolo Rohingya costituisce una minoranza etnica di religione musulmana che per molte generazioni ha vissuto nello stato del Rakhine, in Myanmar. Il Myanmar è un Paese a prevalenza buddhista ed i Rohingya non sono riconosciuti come un gruppo etnico ufficiale; nel 1982 il governo del Myanmar ha negato loro la cittadinanza. Per decadi i Rohingya hanno subito violenze, discriminazioni e repressioni da parte delle forze militari.                                                                                                                                            Anche durante il governo dell’attivista democratica Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991 (ritirato nel 2012), diventata Consigliere di Stato nel 2016 – un ruolo de facto equivalente a quello di Primo Ministro, le persecuzioni contro i Rohingya non cessarono. I massacri ad opera dei militari ed il rifiuto di ammettere che fosse in atto un genocidio le valsero pesanti critiche.

Nell’agosto 2017, una grave crisi umanitaria nello Stato di Rakhine, ha innescato un esodo di massa di circa tre quarti di milione di rifugiati Rohingya apolidi, nel vicino Bangladesh. Questa migrazione forzata è andata ad aggiungersi ai circa 200.000-300.000 Rohingya già precedentemente rifugiatisi in quel paese. Ad oggi, la popolazione Rohingya che ha cercato rifugio nei campi di Cox’s Bazar, in Bangladesh, raggiunge quasi il milione. Se da un lato il governo del Myanmar non riconosce i Rohingya come cittadini, dall’altro l’autorità governativa del Bangladesh responsabile, ossia l’Ufficio del Commissariato per il Supporto e il Rimpatrio dei Rifugiati (Office of the Refugee Relief and Repatriation Commissioner, RRRC), ufficialmente si riferisce ai Rohingya come “cittadini del Myanmar forzatamente sfollati” (Forcibly Displaced Myanmar Nationals (FDMN). (Vedi anche L’odissea dei Rohingya di M. Murru).

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In sintesi, ai Rohingya viene negata la cittadinanza in patria, ma allo stesso tempo viene loro negata l’integrazione in Bangladesh.

Il nome dell’agenzia RRRC, eloquentemente, include il termine “rimpatrio” suggerendo che ’idea che i Rohingya possano integrarsi nel tessuto sociale del Bangladesh è un’idea ancora remota, nonostante molti Rohingya siano nati sul territorio del Bangladesh. La Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, stabilisce che per genocidio si intendono gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Tali atti sono (1):

  • uccisione di membri del gruppo;
  • lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
  • il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
  • misure miranti a impedire nuove nascite all’interno del gruppo;
  • trasferimento forzato di bambini e adolescenti da un gruppo ad un altro.

Secondo il rapporto “My Tears Could Make a Sea: The Infliction of Mental Harm as genocide against Rohingya”, pubblicato da Fortify Right, tra le varie forme di genocidio enumerate nella convenzione, le lesioni all’integrità mentale sono quelle meno comprese. I tribunali internazionali sembrano meglio equipaggiati a riconoscere le lesioni fisiche, mentre quelle mentali risultano più difficili da definire con precisione. Secondo questo rapporto, percentuali altissime di rifugiati sono state esposte ad eventi altamente traumatici, quali esposizione alle armi da fuoco, a incendi e distruzione dei villaggi, a violenze inflitte a terzi. Il fiume Naf demarca il confine geografico orientale tra Bangladesh e Myanmar. I rifugiati Rohingya che vivono in Bangladesh nell’”Upazila” (distretto amministrativo del Bangladesh) di Teknaf, a ridosso del fiume Naf, assistono alla distruzione dei propri villaggi e alle fiamme che avvolgono le proprie case. Tali eventi traumatici possono portare allo sviluppo di disturbi mentali di lunga durata, come depressione ed ansia. Nonostante tutto questo, il governo del Bangladesh continua ad inasprire le restrizioni nei confronti dei rifugiati nei campi del distretto di Cox’s Bazar (Figura 1). Secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) molteplici interventi potrebbero essere messi in atto per migliorare la salute mentale dei Rohingya attraverso interventi di salute mentale e supporto psicosociale e coordinando la risposta umanitaria delle numerose agenzie internazionali coinvolte.

Figura 1. Il distretto di Cox’s Bazar – in rosso – nella mappa del Bangladesh

In particolare, il rapporto del UNHCR  Culture, Context and Mental Health of Rohingya Refugees (2) analizza con grande dettaglio gli aspetti contestuali, quali demografia, storia, religione, costumi, ed elementi culturali attinenti alla salute mentale ed alla sofferenza mentale. In definitiva, il rapporto enfatizza la necessità di lavorare non tanto per i Rohingya, quanto di lavorare con i Rohingya. È emblematico constatare come in Bangladesh non sia permesso sviluppare strutture sanitarie destinate ai Rohingya costruite in mattoni; la maggior parte delle strutture permesse sono in bambù, e, in misura minore, sono prefabbricati – anche se questi richiedono indaginosi processi di autorizzazione. L’uso del bambù e di materiali deperibili – e soggetti ad incendi (una realtà durante la stagione calda), al posto di strutture in mattoni ancora una volta sottolinea la precarietà dei servizi offerti al popolo Rohingya. In aggiunta a tale stato di cose, va ricordato che alcuni Rohingya sono stati trasferiti sull’isola di Basan Char, un luogo particolarmente remoto ed accessibile solo in barca o in elicottero. Dati ufficiosi mostrano come durante il trasferimento su quest’isola, il numero suicidi registrati presso la popolazione Rohingya sia aumentato

La domanda su come si possa impostare un programma di salute mentale che sia sostenibile, duraturo e che garantisca risultati tangibili presso una popolazione priva di cittadinanza, rimane una domanda aperta. In Myanmar, le condizioni sono tuttora atroci, ed al continuo afflusso di Rohingya in Bangladesh, si è aggiunto l’afflusso di rifugiati appartenenti ad altri gruppi e religioni. I Rohingya affrontano difficoltà che vanno dalla loro condizione di rifugiati, seppur non riconosciuta da nessuno dei due paesi, tra cui sono incastrati, alla povertà e a condizioni di vita molto aspre, all’assenza di qualsiasi sistema di istruzione, alla violenza delle bande armate, alla violenza di genere, alle barriere linguistiche. E ovviamente all’impatto negativo che tutto questo ha sulla salute mentale.

Figura 2. Unità di ospedalizzazione breve per persone con disturbi mentali a Kutupalong, in un prefabbricato.

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Se la soluzione, come alcuni sostengono, sia semplicemente quella di un rientro in Myanmar, cioè in una “patria” che non li riconosce come propri cittadini, è assai discutibile. Ma comunque, finche’ le condizioni sociali e politiche non permetteranno il loro rientro, bisogna garantire ai Rohingya l’accesso alle libertà fondamentali, ai servizi essenziali e ai diritti umani che loro appartengono, compreso il diritto alla salute mentale. In una parola, bisogna garantire loro la piena cittadinanza.

Andrea Brun, Mental Health Advisor , Organizzazione Mondiale della Salute, Regione del Sud Est Asiatico

 

Bibliografia

  1. Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide Approved and proposed for signature and ratification or accession by General Assembly resolution 260 A (III) of 9 December 1948 Entry into force: 12 January 1951, in accordance with article XII https://www.un.org/en/genocideprevention/documents/atrocity-crimes/Doc.1_Convention%20on%20the%20Prevention%20and%20Punishment%20of%20the%20Crime%20of%20Genocide.pdf
  2. Tay, A.K., Islam, R., Riley, A., Welton-Mitchell, C., Duchesne, B., Waters, V., Varner, A., Silove, D., Ventevogel, P. (2018). Culture, Context and Mental Health of Rohingya Refugees: A review for staff in mental health and psychosocial support programmes for Rohingya refugees. Geneva, Switzerland. United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR).

 

 

 

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