Il progetto della Casa Bianca cancellerebbe la possibilità di realizzare due stati: Israele e Palestina
Egitto: al-Sisi cederà sulle deportazioni dei palestinesi in cambio degli aiuti Usa?
Il presidente autoritario ha respinto il piano di Trump di trasferire i gazawi nel Sinai. Ma la dipendenza del Cairo dal sostegno militare e finanziario statunitense potrebbe spingere il “Faraone” ad accettare soluzioni parziali. Il rischio? Instabilità interna e tensioni regionali
Egitto e paesi arabi vicini hanno rispedito al mittente i proclami del presidente Usa, Donald Trump, secondo i quali gli Stati Uniti sarebbero pronti a prendere il controllo della Striscia per “ripulirla” dai palestinesi e trasformarla nella “Riviera del Medioriente”.
Già prima di questi annunci, che implicano la deportazione e la pulizia etnica dei palestinesi di Gaza, Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Autorità nazionale palestinese avevano inviato una lettera al Segretario di Stato Usa, Marco Rubio, in cui si rifiutavano di aderire alle proposte di Trump. In particolare il ministro degli esteri egiziano ha sostenuto che il “catastrofico” piano «stroncherebbe la tregua» a Gaza e determinerebbe il «ritorno della guerra».
Sulle idee di Trump pende soprattutto il veto dell’Arabia Saudita che non vorrebbe riproporre il percorso di normalizzazione con Israele, avviato con gli Accordi di Abramo (2020), in assenza di una roadmap che preveda la creazione di un futuro stato palestinese, molto difficile da concretizzarsi per la presenza dei coloni israeliani in Cisgiordania e l’assenza di continuità tra i territori occupati.
E così le provocazioni di Netanyahu sono arrivate al punto di suggerire che lo stato palestinese sorga proprio in Arabia Saudita.
Se Trump si è rifiutato di impegnarsi su un’intesa che vada nella direzione di uno stato per i palestinesi (anzi con il suo piano cancellerebbe completamente la possibilità di realizzare la soluzione dei due stati), le opinioni pubbliche dei paesi vicini a Israele dove i rifugiati palestinesi potrebbero essere deportati, a partire dall’Egitto, sono completamente contrarie ai proclami dei repubblicani.
Dal canto suo, Hamas ha definito «razzista» il piano e chiesto una riunione urgente della Lega araba.
L’Egitto potrebbe fare a meno degli aiuti militari Usa?
In particolare per l’Egitto accettare un grande numero di palestinesi significherebbe accogliere molti sostenitori di Hamas, un’organizzazione che è associata alla Fratellanza musulmana, dichiarata illegale dopo il colpo di stato del 2013.
Il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha sempre sostenuto, dagli attacchi del 7 ottobre 2023 a oggi, che non avrebbe accettato di accogliere nel Sinai centinaia di migliaia di profughi palestinesi che avrebbero potuto trovare, secondo lui, migliore rifugio nel “deserto del Negev”. Questo punto è così vitale per le autorità egiziane che, dietro le quinte, sarebbero arrivate a minacciare il ritiro del Cairo dal Trattato di pace tra Egitto e Israele (1979) se il piano di Trump dovesse realizzarsi.
Non solo, il premier Mostafa Mabdouly ha annunciato che il governo egiziano si sta preparando allo scenario peggiore di un conflitto regionale con un’«economia di guerra» che includa il razionamento dei consumi, a partire dall’elettricità.
Per l’Egitto, se il piano di Trump dovesse entrare in una fase esecutiva, potrebbe trattarsi di una questione di sicurezza nazionale centrale perché accettare la presenza dei palestinesi di Gaza nel Sinai, molti dei quali radicati nella resistenza di Hamas e anche non interessati a lasciare la Striscia, implicherebbe, secondo molti analisti, la possibilità che attacchi contro Israele partano proprio dal territorio egiziano innescando conseguenze imprevedibili per la stabilità regionale.
Come se non bastasse, i rifugiati palestinesi che dovrebbero fermarsi nella zona cuscinetto realizzata ad al-Arish potrebbero facilmente unirsi agli insorti, ai beduini e ai terroristi affiliati dello Stato islamico locale, che hanno messo a ferro e a fuoco negli ultimi anni la regione del Sinai, in cui è stato esteso lo stato di emergenza per anni fino al 2021.
Rischio che rialzino la testa i fratelli musulmani
Non solo, i militanti di Hamas potrebbero entrare in contatto con i sostenitori dei Fratelli musulmani egiziani e rivitalizzare un movimento che è in profonda crisi dopo la repressione che ha subìto negli ultimi dieci anni, con arresti capillari e condanne a morte di massa.
Analisti e giornalisti egiziani hanno unanimente sottolineato come l’opposizione alla deportazione dei palestinesi in Egitto unirebbe inesorabilmente oppositori, attivisti indipendenti e sostenitori di al-Sisi. Questo metterebbe a dura prova la stabilità del regime egiziano.
Alle ultime elezioni presidenziali l’ex generale aveva incassato un’alta partecipazione elettorale, pur in assenza di candidati di opposizione e in un clima di censura, proprio per la sua strategia di rappresentarsi come il “salvatore” della patria che avrebbe difeso la causa palestinese, sebbene poi Il Cairo abbia assunto una posizione defilata nei negoziati per la tregua a Gaza, lasciando ampio spazio alle capacità di mediazione dei diplomatici del Qatar.
E così il presidente del sindacato dei giornalisti, Khaled el-Balshy, ha definito la proposta di Trump come una «chiara violazione dei diritti umani e del diritto internazionale». Gli ha fatto eco Moustafa Bakry, politico pro-al-Sisi, che ha assicurato che «l’esercito egiziano non permetterà mai che questo avvenga».
Il Cairo dipende dagli aiuti internazionali
L’economia in crisi del Cairo dipende dagli aiuti internazionali. Ha ricevuto oltre 50 miliardi di dollari di prestiti e linee di credito da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti nel 2024. Ha ottenuto due prestiti da 12 miliardi di dollari l’uno da parte del Fondo monetario internazionale. E continua a percepire aiuti militari dagli Stati Uniti per un valore di 1,3 miliardi di dollari.
Se questi aiuti erano stati parzialmente congelati, durante la presidenza Biden, per le preoccupazioni sulla mancanza di rispetto dei diritti umani nel paese, sono tornati a essere erogati pienamente da Washington proprio per la necessità di normalizzare i rapporti con uno dei principali mediatori nel negoziato per fermare il conflitto a Gaza.
Trump finanzia l’Egitto
E così se Trump ha promesso di congelare gli aiuti statunitensi a paesi e organismi internazionali, non ha mai voluto toccare i miliardi che dagli Usa arrivano al suo “dittatore preferito”, come ha sempre definito Abdel Fattah al-Sisi. Con i suoi aiuti militari al Cairo, Washington riconosce l’importanza centrale dell’Egitto per gli equilibri regionali e il suo ruolo fondamentale nella stabilizzazione del Medioriente dopo il riconoscimento dello Stato di Israele che causò, nei primi anni Ottanta, l’assassinio dell’ex presidente Anwar al-Sadat per mano salafita.
Tuttavia, considerando la residua percentuale che gli aiuti militari Usa rappresentano rispetto all’intera macchina di prestiti e linee di credito ricevuti dal Cairo, è evidente che se le autorità egiziane volessero potrebbero di certo farne a meno.
Questo passo, in Egitto come in Giordania, potrebbe essere determinato dalla diffusa opposizione delle popolazioni locali a qualsiasi deportazione dei palestinesi. E potrebbe essere percepito come necessario per i leader di molti paesi arabi per evitare di essere considerati complici della pulizia etnica dei palestinesi di Gaza.
Tuttavia, è molto difficile che ciò avvenga, specialmente durante la presidenza Trump. In particolare al-Sisi ha sempre fatto dell’asse con Washington e con Mosca le sue due priorità centrali in politica estera.
Per esempio, quando la cooperazione, in materia di sicurezza e di gas con Israele, è apparsa evidente all’opinione pubblica egiziana, al-Sisi ha dovuto nuovamente censurare qualsiasi manifestazione di dissenso online e offline nel paese.
Le condizioni per accettare la proposta americana
Non solo. Ha riaperto solo a fine gennaio il valico di Rafah non curante del fatto che il tenerlo chiuso ha provocato danni enormi dal punto di vista umanitario per i feriti palestinesi.
In altre parole, al-Sisi potrebbe accettare uno spostamento limitato e volontario di palestinesi in zone ben precise del Sinai in cambio di miliardi di aiuti statunitensi, in un piano da negoziare nei dettagli, ma non deportazioni di massa che innescherebbero sentimenti xenofobi e potrebbero comportare la stessa destabilizzazione del suo regime.
Tuttavia, ogni soluzione che vada in questa direzione innescherebbe sicuramente manifestazioni anti-regime al Cairo e diffusi sentimenti anti-israeliani che difficilmente si conciliano con la necessità di Tel Aviv di convivenza pacifica con i suoi paesi vicini.
Le incognite israeliane
D’altra parte, Israele dovrà affrontare molte altre incognite che restano aperte con i suoi paesi vicini arabi e non: dal fragile cessate il fuoco in Libano, agli attacchi degli houthi in Yemen, fino all’Operazione “Muro di ferro”, avviata in Cisgiordania.
Non solo, restano le incognite legate alle reazioni iraniane alle nuove sanzioni draconiane decise da Trump contro gli ayatollah, fino alla richiesta del nuovo presidente siriano ad interim, Ahmed al-Sharaa, di ritiro immediato dalle Alture del Golan, in violazione del cessate il fuoco del 1974, occupate dall’esercito israeliano dopo la fine del regime di Bashar al-Assad, l’8 dicembre 2024.
E così il piano di Trump di deportare i palestinesi da Gaza potrebbe esacerbare le tensioni tra Israele e i paesi arabi, già così tese, piuttosto che placarle.
Oppure potrebbe essere un tentativo di esercitare pressioni su Hamas affinché ottemperi a tutti i punti della tregua, rilasciando tutti gli ostaggi israeliani, rispettando gli accordi ed evitando manifestazioni di forza, come è avvenuto nelle immagini che hanno fatto il giro del mondo durante la consegna degli ostaggi e dei prigionieri politici palestinesi.
D’altra parte, se il piano dovesse iniziare a concretizzarsi con l’occupazione statunitense di Gaza potrebbe anche saltare l’intero piano per il cessate il fuoco, che a quel punto rischierebbe di fermarsi alimentando il conflitto tra Israele e Hamas.
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